giovedì 30 agosto 2018

L'altro Campana


La mia amica Mitì Vigliero, nel suo Stupidario della maturità (Rizzoli 1991), scrive che, secondo un anonimo maturando, Dino Campana "era molto malato di nervi, diciamo pure che era completamente matto e per questo amava moltissimo Genova." Mitì chiosa: "Frase questa da inviare alla Agenzia di Soggiorno locale come slogan". 

Mettiamo da parte il capoluogo ligure che, mentre scrivo, sta pure vivendo un momento particolarmente difficile. La prodezza del candidato è comunque significativa: ecco in che considerazione è tenuto il poeta marradese, da parte non solo degli studenti, ma anche, diciamo così, del grande pubblico. La sua malattia mentale è vista come inscindibile dalla sua produzione letteraria, il che può anche in parte essere vero. Solo che si tende a scivolare inevitabilmente nei cliché: del poeta maledetto, della sua scrittura per la quale l'aggettivo visionaria pare quasi imposto per legge; dell'artista emarginato, dell'artista incompreso, e via elencando. A parte i luoghi comuni, il rischio continua ad essere quello di liquidarne così la figura. Era pazzo, sicché scriveva delirando, ed ecco perché tante sue liriche, prose o poesie che fossero, ci risultano così difficili da interpretare. Ottima scusante per farne a meno, e sia detto non solo riferito ai maturandi.

Esiste invece su Dino Campana una testimonianza illuminante. Anche se non si può definire esattamente inedita. Si tratta dei Ricordi di vita artistica e letteraria di Ardengo Soffici, la cui prima edizione si deve a Vallecchi e risale al 1931, quando Campana era ancora vivo, anche se ormai da anni vegetava nel manicomio di Castel Pulci. Vi è un lungo capitolo intitolato Dino Campana a Firenze, in cui Soffici racconta il primo incontro con il poeta, chiarisce in parte alcuni aspetti della vicenda relativa allo smarrimento del primo manoscritto dei Canti Orfici, e soprattutto - direi - getta su Campana una luce a ripensarci del tutto comprensibile, eppure che suona come inattesa.

Campana nel 1930
Per quanto riguarda i Canti, i fatti sarebbero noti (poi capirete perché uso il condizionale) e si possono così riassumere: Campana, nel 1913, consegna a Soffici e Papini, nella redazione di Lacerba, il manoscritto in copia unica allora intitolato Il più lungo giorno, che poi andrà smarrito. L'autore lo riscriverà a memoria e l'anno seguente lo pubblicherà a sue spese, e se ne andrà in giro a venderlo di persona.
Soffici, tuttavia, spiega che, dopo consegnato l'originale, Campana si era reso irreperibile. Alla fine del 1913 lo rividero alla mostra futurista di via Cavour. Campana fece amicizia con tutto il gruppo futurista, e anche con "tutti i componenti di quel gruppo che allora frequentava le Giubbe rosse e il Paszkowski, caffè ch'egli pure cominciò a frequentare e che anzi divennero il principale teatro delle sue gesta fiorentine, poi diventate famose". Sennonché d'improvviso sparì di nuovo, e senza che nel frattempo avesse mai fatto cenno al suo manoscritto. Solo l'anno seguente scrisse a Soffici per riaverlo, ma quest'ultimo non riuscì a trovarlo e, alcuni mesi dopo, vedrà nella vetrina di un libraio di via de' Martelli la prima edizione a stampa dei Canti Orfici.
Almeno questo è ciò che narra Soffici. Primo Conti, nelle sue memorie, riporta il frammento di una lettera di Campana in cui è scritto, riferito alla celebre Serata futurista tenutasi al Teatro Verdi il 12 dicembre 1913, "...ed era il giorno che [i futuristi] facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire...". Commenta Conti: "Lui aveva le sue sacrosante ragioni per dire così, perché forse in quei giorni gli era nato il sospetto che uno dei protagonisti della Serata, Ardengo Soffici, avesse smarrito il manoscritto dei suoi Canti Orfici"
Secondo la ricostruzione di Gabriel Cacho Millet (1939-2016), forse il maggior studioso di Campana, questi affidò il manoscritto, con altri quaderni, a Papini appena giunto a Firenze nel 1913. Lo riebbe quasi subito indietro, ma glielo consegnò di nuovo proprio il giorno della Serata. Nel febbraio seguente Papini restituì a Campana i quaderni, ma non Il più lungo giorno, che in seguito Soffici smarrì. Sempre Cacho Millet demolisce un mito, affermando che in realtà Campana non riscrisse i Canti a memoria, ma doveva avere copie del manoscritto o per lo meno appunti su cui basarsi. Ulteriori particolari di questa vicenda piuttosto intricata li potete leggere qui.
Il manoscritto originale fu rinvenuto solo nel 1971 tra le carte di un Soffici ormai mancato da tempo. Oggi è visibile on line qui. Mario Luzi, in questo articolo, sottolineò - se ce ne fosse stato bisogno - l'importanza del ritrovamento, oltre al fatto che in realtà le differenze con l'edizione a stampa erano piuttosto numerose, laddove Soffici aveva scritto che questa "era la stessa di quella dello scartafaccio smarrito, appena ritoccata qua e là, e con soltanto un paio di componimenti aggiunti, fra cui i versi dedicati al mio quadro futurista dell'inverno passato".
Il quadro in questione, in un'epoca in cui il politically correct non esisteva, aveva avuto vari titoli: Compenetrazione di piani plastici, Dinamismo plasticoBallo dei pederasti, Tarantella dei pederasti. Fu distrutto dall'autore ma, nel 2007, dopo il ritrovamento della cornice originale, ne fu esposta la ricostruzione fotografica in grandezza naturale (2 x 2 m) in una mostra a Poggio a Caiano. Riporto, dal sito www.campanadino.it, l'immagine del dipinto (sotto), e i versi di Campana.


FANTASIA SU UN QUADRO DI ARDENGO SOFFICI


Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D'America: la rossa velocità
Di luci funambola che tanga
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfà:
Che guarda nel café chantant
D'America: 
Sul piano martellato tre 
Fiammelle rosse si sono accese da sé.


Ma la parte a mio parere più importante del racconto di Soffici è quella che riguarda Campana quando non era colto dalle sue crisi. Narra Soffici che, nel periodo della mostra futurista, lui e gli amici ebbero modo di conoscerlo meglio, e che

dalla sua conversazione trapelavano ogni momento conoscenze di paesi, di linguaggi, di usi e costumi alieni e remoti che nessuno di noi sapeva spiegarsi e che ci disorientavano. Si parlava di letteratura? e Campana citava nomi di poeti tedeschi, francesi, inglesi, spagnoli e brani delle loro opere nella lingua originale. Si trattava di nazioni e di popoli? e Campana mescolava al suo discorso frasi rivelatrici intorno all'Olanda, alla Francia, ai porti d'Inghilterra, alle pampe americane, come uno che avesse tali siti familiari. Di viaggi lontani e di avventure? ed egli faceva continue allusioni a pellegrinaggi qua e là per l'Europa, a navigazioni oceaniche, a casi allegri o tremendi occorsigli nel nord o nel sud del nuovo mondo. Riuscimmo piano piano a sapere che, cacciato dall'università per ribelle, e inviso alla polizia, il nostro poeta s'era dato sul fior degli anni all'ulissismo, e, lasciata, senza un soldo in tasca, la solatia Romagna e l'Italia, aveva errato un po' dappertutto, facendo l'operaio a Marsiglia, il rivoluzionario in via Mouffetard - che è come la suburra di Parigi - il servitore di stiva da Amburgo a Dover, da Liverpool a Montevideo, e il garzone e lo stalliere in più di una fazenda argentina.
Quanto al suo istituto mentale, esso si delineava pure via via ai nostri occhi; né era meno sorprendente. Le idee dei massimi pensatori antichi e moderni erano familiari a Campana, così i fatti delle storie dei vari popoli, i capolavori letterari del passato, mentre neanche le produzioni della modernità più moderna avevan segreti per lui. Tra una libazione e l'altra (era un bevitore validissimo) parlava di Nietzsche, citandone a memoria sentenze ed aforismi, approfondiva paradossi di Wilde e acutezze di Laforgue, tempestava o s'inteneriva (poiché c'era in lui dell'energumeno a un tempo e del bambino) intorno alle cupezze di Baudelaire o alle illuminazioni e alle vicende umane di Rimbaud, del quale poteva dirsi un fratello di vita e di spirito.

Da questa splendida prosa emergono anzitutto una ammirazione sincera e attonita da parte di Ardengo Soffici nei confronti del poeta, ammirazione che al primo incontro Campana non era riuscito, per certi versi non aveva voluto riscuotere; in secondo luogo la sua cultura. Cultura autodidatta (si era iscritto per errore a chimica e poi a chimica farmaceutica), cultura omnicomprensiva, senza dubbio disordinata, ma che si comprende vastissima e acquisita con una bramosia quasi paranoica di sapere, di apprendere, di conoscere, e ben si accorda con l'immagine più volte riportata da testimonianze dirette, di lui che camminava sempre con un libro o due sotto braccio. La sua opera, scrisse Mario Luzi nel 1980, "brucia allo stesso fuoco l'esperienza e la sua trasformazione e cioè i dati della sua storia e i simboli in cui sembra trasfigurarsi". Si può comprendere a questo punto come essa non fosse solo frutto della sua fantasia creativa, la stessa che poi avrebbe forse contribuito a quella pazzia di cui comunque già dai primi incontri Soffici e gli amici futuristi avevano avuto indizi inquietanti. Dietro, in realtà, c'era molto altro.

La V Ginnasio del liceo Torricelli, a.s. 1900-1901.
Il sedicente Campana è seduto, secondo da destra.
Nel documentarmi per scrivere questo post, ho scoperto che neanche l'immagine di Dino Campana ha avuto, per così dire, una vita tranquilla. Il volto del poeta è quello della foto d'apertura (1912) ma, a illustrare articoli su di lui (o trasmissioni: anche questa della Rai!),  compare molto più spesso la foto di un individuo che magari gli somigliava, ma si è rivelato essere certo Filippo Tramonti. Il quale con Campana ebbe in comune solo l'aver frequentato il medesimo liceo. Tutto ciò nasce non da una millanteria, ma da un equivoco quando nel 1957 fu ritrovata una foto di classe della V ginnasio del liceo faentino Torricelli, e si credette di riconoscere il poeta in uno degli studenti.

Filippo Tramonti
Il professor Stefano Drei, che insegnava nell'Istituto, partì dalla constatazione che nell'anno scolastico 1900-1901, a cui risale la foto, Campana frequentava la I liceo e non la V ginnasio, e volle avviare indagini minuziose. Ricostruì alla fine la vera identità del presunto Campana: si  chiamava appunto Filippo Tramonti, in seguito svolse l'attività di cancelliere, e Drei ne rinvenne la tomba al cimitero di Bologna. Sul sito del liceo Torricelli, in particolare su questa pagina troverete i dettagli dell'immagine, mentre, su questa pagina del sito dedicato a Dino Campana è una intervista a Drei, intervista che tra l'altro si conclude con questa affermazione:

Dopo la scoperta (chiamiamola così), mi ha telefonato Gabriel Cacho Millet. Si è congratulato, ma sembrava anche un po’ dispiaciuto: ora c’è un vuoto nella parete del suo studio, gli è toccato di staccare una foto che aveva avuto il valore di un’icona, di un’immagine mitica: «come il ritratto di Che Guevara per un giovane degli anni ’60». Aveva sperato fino all’ultimo che io avessi torto. Lo capisco. Delle poche foto conosciute di Campana era quella la più bella: nitidissima, in posa, a figura intera, fatta da un professionista. Aveva solo un difetto: non era lui.

Salvo errore, a parte quella citata e quella scattatagli nel 1930, l'unica altra fotografia esistente di Dino Campana è quella (sotto) che riprendo ancora dal sito del liceo Torricelli. Fu scattata nel gennaio 1912 (due anni dopo il pellegrinaggio in solitaria a La Verna che generò il prodigioso diario facente parte dei Canti), probabilmente sul Falterona. Il poeta è il secondo da sinistra.


Gabriel Cacho Millet, nel 2011, con la pubblicazione per Polistampa di Lettere di un povero diavolo, concluse e coronò il suo lunghissimo e meticoloso lavoro di raccolta e di riordino di tutto il carteggio epistolare di Dino Campana, e aggiunse:

Il poeta di Marradi, autore di un piccolo libro infinito, vi darà ancora molto filo da torcere. Non ho dubbi.






giovedì 23 agosto 2018

Ottone Rosai: urla di lupi al trono di Dio


La sera del 12 dicembre 1913, il diciottenne Ottone Rosai si trovava in un palco del Teatro Verdi a Firenze, per assistere alla Serata Futurista in compagnia di un ragazzino che, allo stesso scopo, aveva eluso la sorveglianza dei genitori ed era sgattaiolato scalzo fuori da casa. Il ragazzino - 13 anni - si chiamava Primo Conti, e in ottobre ricorrerà il trentennale della sua dipartita. Avremo modo di riparlarne.
I due ragazzi applaudivano a più non posso, ma non c'era versi di sentirli. Come non c'era versi di sentire quello che i Futuristi proclamavano imperterriti sul palco. Il pubblico, la maggioranza del quale si era presentato con fagotti e ceste piene di ortaggi e non solo, copriva ogni cosa con un frastuono d'inferno. Urlava, spernacchiava, fischiava, tirava di tutto. Tutto ciò era non solo previsto, ma sperato. Fu, per i Futuristi, un trionfo.
La Serata era stata preceduta dalla grande mostra di pittura futurista in via Cavour, che aveva mandato in tilt, ma soprattutto in bestia, tutta quell'intellighenzia fiorentina provinciale, reazionaria e attaccata come una mignatta al passato, glorioso quanto si vuole, ma usato come scusante per far restare Firenze una città mummificata.

Dinamismo Bar San Marco, 1914, coll. Guggenheim
In contemporanea, e sempre in via Cavour, Ottone Rosai aveva allestito la sua prima personale. Strinse così amicizia con Boccioni, Balla, Papini, Marinetti, Palazzeschi. E Soffici. "In una prima esposizione dei miei lavori che feci a Firenze nel 1913", scrisse lo stesso Rosai, "conobbi Ardengo Soffici. Un tale incontro fu addirittura una rivelazione, e tenendo cari molti suoi consigli, maturai e maturò il mio temperamento d'artista." Soffici divenne un po' il nume tutelare di Ottone, e tale rimase sempre, nonostante un momento di feroce rottura, poi superato. I suoi rapporti con i futuristi rimasero pure vivi e vivaci per tutta la sua esistenza. S'intende: alla fiorentina. Cioè con discussioni, leticate che non di rado degeneravano in scazzottate, rappacificazioni...  Ma, se i rapporti con i futuristi durarono, la sua adesione artistica al futurismo fu ben più effimera. Nondimeno, produsse opere come Dinamismo Bar San Marco e contributi importanti alla rivista Lacerba. Rosai, nel secolo delle Avanguardie, non avrebbe potuto far parte di un'avanguardia. Il suo era uno spirito individualistico. Non aveva sopportato, nel 1910, l'ambiente borghese e muffito dell'Accademia di Belle Arti cui si era iscritto, e due anni dopo fu espulso. Da autodidatta avido di conoscenze e da uomo del Rinascimento nato secondo alcuni nel secolo sbagliato, percorse una strada solitaria.
Il suo stile si precisò in anni difficili. Interventista convinto come tutti i suoi colleghi - ma allora era una mentalità completamente diversa -, si arruolò volontario. Combatté e fu decorato. Nel 1919 riuscì a sopravvivere alla spagnola. Nel 1920 espose a Palazzo Capponi ed ebbe delle belle recensioni da parte di Soffici e Giorgio De Chirico - che come tutti sanno non fu mai molto prodigo di elogi per chicchessia -, e realizzò opere come Serenata, Partita a briscola, Giramontino. Due anni dopo la sua vita fu stravolta dal suicidio del padre, oppresso dai debiti. In un convegno tenutosi a Palazzo Medici Riccardi nel 2008, l'attore e regista Riccardo Lestini lesse la cronaca dell'accaduto, drammatica e commovente, scritta dallo stesso Rosai.

Via Toscanella, 1922
Negli anni seguenti l'attività si ridusse di parecchio. Ma il 1922 fu anche l'anno della celebre Via Toscanella. Nel già citato convegno, Cristina Acidini vedeva in questo dipinto come negli altri dedicati alla medesima strada emergere le radici rosaiane che affondavano fino al primo Rinascimento, negli affreschi di Masolino e Masaccio della Cappella Brancacci, all'epoca di Rosai non ancora restaurati e quindi mostranti tonalità ben più cupe di quelle cui noi siamo oggi abituati. Tonalità e architetture che riecheggiavano nella fuga prospettica di questa via che "Come un ragazzo discolo si è intrufolata insieme a altri lazzaroncelli tra Via Maggio e Via Guicciardini riuscendo a tenere il primo posto, il posto di comando, al centro della zona".
Sono anche queste parole di Ottone Rosai. Come tutti gli uomini del Rinascimento, un unico mezzo espressivo e comunicativo non poteva essergli sufficiente, e scrisse molto e bene. Nel 1994, Editori Riuniti ripubblicò Via Toscanella [1930] e altri scritti, a cura di Alessandro Parronchi. Per dirla con quest'ultimo, Rosai era uno scrittore dilettante, ma uno scrittore. Fu eccellente nella non facile translitterazione del vernacolo fiorentino, bestemmie comprese. I suoi racconti sono non di rado fogli di un taccuino per schizzi, con le parole al posto dei disegni. Parole di una essenzialità che da un lato rende la lettura godibilissima ancora oggi, dall'altro non va a scapito di un afflato poetico degno in tutto e per tutto della sua opera pittorica, che restava comunque per Rosai la (pre)occupazione principale. Scrisse a Vasco Pratolini nel 1942: "Chi ti dà di poeta, chi di descrittore, chi dice una fregna e chi un'altra e nessuno vuol vedere la pittura, la vera pittura che c'è nelle mie cose".

Se in Via Toscanella ritroviamo l'eco delle architetture e dei palazzi di Masolino e Masaccio, questi stessi palazzi sembra di vederli citati testualmente dietro l'Uomo sulla panchina o i Suonatori ambulanti (sono i Lungarni), mentre nei Giocatori di toppa (foto d'apertura) fanno da quinta a un gruppo umano che pare raccogliere l'eredità di quello del Tributo masaccesco.

Uomo sulla panchina, 1930

Già. Suonatori, uomini su panchine, giardinieri, lattai, giocatori di toppa, avventori di osterie. Se Ottone Rosai fosse vissuto ai giorni nostri, nulla lo avrebbe salvato dall'insipienza di certa stampa che gli avrebbe appioppato l'atroce luogo comune di artista sempre dalla parte degli ultimi. Che ultimi non voleva fossero. Per questo mi dà noia anche il luogo comune cui a suo tempo non sfuggì e ancora oggi lo perseguita, quello degli omìni. Gli omìni di Rosai come le bottiglie di Morandi e i fiori di Scatizzi? Forse, ma per Rosai è decisamente riduttivo. Questi omìni sono protagonisti di opere che Ungaretti nel 1935 definì urla di lupi al trono di Dio. Molti anni dopo, era il 1983, Mario Luzi scrisse a proposito del prototipo rosaiano:

Goffo, sformato, declassato a omuncolo non poche volte, incupito da una sua fondamentale inadeguatezza (a che cosa?) o peggio immiserito dalla sua pochezza, offeso comunque, non è però mai privato della dignità del dolore e della colpa. La tormentata umanità di Rosai ha salvato questi relitti di un'epoca oppressiva, violenta, numeraria, nullificante dal diventare manichini, robot, numeri; ha potuto non profanare la loro creaturale individualità, ha lasciato ciascuno al suo misero o grande dramma. E questo fa sì che a queste vive e talora potenti immagini ci aggrappiamo quasi come a reliquie salutari e propiziatorie. Sembra infatti vogliano significarci che per quanto abietto e reietto l'uomo non può essere derubato della sua umanità.

Via San Leonardo, oggi
Rosai era stato entusiasticamente fascista, ma il fascismo non ricambiò affatto questo entusiasmo nei suoi confronti. I suoi personaggi non si trovavano certo in linea con il trionfalismo imperante (in senso letterale), e non era difficile gettare sull'autore sospetti di disfattismo. E all'epoca non c'era nulla di peggio. Secondo Nicola Coccia, giornalista de La Nazione, Rosai abbandonò il fascismo nel 1936 dopo la guerra civile spagnola. I suoi precedenti gli giocarono un brutto tiro: l'8 settembre 1943 fu aggredito da un gruppo di antifascisti in piazza Adua. Il che non lo fece tornare sui suoi passi. Sempre Coccia, al convegno del 2008, riportò una cronaca precisa e circostanziata di come l'artista durante la Resistenza rischiò la vita dando rifugio a Bruno Fanciullacci, prima nel suo studio di via San Leonardo, poi nel suo appartamento in via de' Benci. Nascose anche un altro partigiano, Enzo Faraoni, che l'anno precedente era stato suo assistente all'Accademia, e un militare tedesco passato alla Resistenza. 

Via San Leonardo, 1935
Terminata la guerra, Rosai riprese a lavorare nello studio dove si era sistemato a partire dal 1933, in quella via San Leonardo di cui divenne il cantore.  
Il trasferimento coincise con un periodo felice e produttivo della sua esistenza. Realizzò diverse personali tra cui una a Genova, creò i pannelli per la Stazione di Firenze, nel 1939 fu nominato professore di figure disegnata al Liceo artistico, per chiara fama.
Per questo artista che cantò in sostanza tutta la Firenze Diladdàrno, la strada che sinuosamente collega il viale Galileo con il Forte Belvedere divenne il paesaggio per eccellenza: paesaggio urbano, paesaggio straordinariamente umano, ogni volta nuovo, ogni volta rinnovato, da ritrarre, rianalizzare, ripensare, ristudiare senza interruzione. Via San Leonardo fu per Rosai ciò che la Montagna Sainte Victoire era stata per Cézanne. Le sue vedute accompagnarono questi anni come un leit-motiv. Proseguirono nel dopoguerra, nel cosiddetto periodo bianco, in cui lo stile di Rosai si fece sempre più scarno, disadorno, e le tonalità sempre più chiare. "Uomo e paesaggio" è ancora Parronchi a scrivere "non sono in Rosai termini contrastanti, ché anzi tanta acredine dell'uomo non si capirebbe, non si ambienterebbe, se non nella dolcezza dei colori della natura. Come si fa a scinderli, a separarli?"

Come ho raccontato in questo post, Sergio Scatizzi fece in tempo a vedere realizzata la grande esposizione a lui dedicata nella Galleria d'Arte Moderna di Firenze nel novembre 2009, per spegnersi pochi giorni dopo. A Ottone Rosai andò peggio, purtroppo. Era malato di cuore a partire dal 1954. Nel 1957 si trovava a Ivrea per l'allestimento di una sua prestigiosa personale presso il Centro Culturale Olivetti. Un infarto lo fulminò il 13 maggio, il giorno prima dell'inaugurazione.

Via San Leonardo, 1954 ca.
Vorrei concludere queste brevi note - su un Artista del genere le note sono sempre troppo brevi: non ho parlato dei disegni, dei nudi, degli autoritratti... - con uno scritto dello stesso Rosai, risalente a prima del suo trasferimento in via San Leonardo, quando aveva posto il suo studio nell'ex casotto del dazio di via Villamagna all'Anconella. Il 30 aprile 1932 scrisse a Berto Ricci:

Relegato in questo casotto che tu conosci, al limite della città, mi par d'essere un naufrago miracolosamente scampato alla morte costretto a sopravvivere i giorni necessari all'autoconsumazione. E giorni lunghi, eterni son questi quanto gli attimi di un torturato. Misurerò palmo palmo l'infinita immensità del cielo, conterò tutti i fiori innocenti della terra, rivedrò a uno a uno i miei e l'altrui peccati e finalmente esaudito un mio costante desiderio avrò trovato Dio.

Anconella, 1933








giovedì 9 agosto 2018

GABBATO LO SANTO 14: quando su S. Cresci finì in caciara



La storia del primo martire della cristianità in Mugello narra che S. Cresci, fuggito da Firenze insieme con un soldato convertito, raggiunse nel Mugello la località di Valcava. Qui trovò ospitalità  dalla vedova Panfila, che convertì guarendole il figlio Serapione, battezzato poi col nome di Cerbone. Fece fuggire madre, figlio e vicini di casa del pari convertiti al sopraggiungere dei militi dell’Imperatore Decio. Questi condussero Cresci e due compagni (Enzio e Onione, ma dei nomi riparleremo) presso il vicino tempio pagano e gli ordinarono di fare sacrifici agli dei. Al loro rifiuto, li uccisero il 24 ottobre 250. Sul luogo del martirio Panfila, Cerbone e altri sodali non nominati costruirono un altare. Qui furono sorpresi a pregare da soldati romani, e martirizzati  il 4 maggio 251. 

Scorcio della Pieve di S. Cresci in Valcava
Sono questi gli elementi essenziali di una Passio sanctorum, redatta con ogni probabilità verso il XII secolo da un anonimo che dovette avere attinto a degli Acta martyrum preesistenti e oggi perduti. La Passio rimase sconosciuta per secoli. Fu rintracciata solo nel 1588 nella biblioteca della Badia fiorentina, dopo anni di ricerche, dal monaco cassinese Don Marco di Francesco Bartolini da Borgo San Lorenzo. Il monaco trascrisse con fedeltà assoluta, grazie all’assistenza di altri padri religiosi eruditi, quanto riportato nel ponderoso volume in merito alla vita e al martirio di San Cresci e dei suoi compagni. In fondo, collocò una postilla nella quale scriveva brevemente di sé e della sua storia. Aveva avuto l’incarico da Benedetto Paoli, Pievano di Valcava, cioè del tempio dove il corpo del Martire e dei suoi compagni riposano. Ma ne aveva il desiderio fin dalla sua più tenera età, quando sentiva intorno a sé una profonda devozione per questo santo martire del quale però non si sapeva quasi nulla.
Del manoscritto originale si persero poi le tracce, ma quello ricopiato giunse nelle mani dell’abate Antonio Maria De’ Mozzi il quale, prima di farne dono all’Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, scrisse la Storia di S. Cresci e dei SS. Martiri e della Chiesa del medesimo Santo posta in Valcava nel Mugello. Era il 1710. Negli anni precedenti, però, il passionale era finito in mani sbagliate e si trovò al centro di una polemica furiosa, di cui fece le spese la figura dello stesso San Cresci.

La Pieve di S. Cresci a Macioli, Comune di Vaglia
Premessa: vanno distinti gli Acta martyrum dalle Passiones Sanctorum. Gli Acta erano compilati in contemporanea o subito dopo gli eventi narrati. Di solito non si andava oltre la semplice registrazione del processo, condanna ed esecuzione del martire in questione. Si attingeva per lo più dai verbali, aggiungendo luogo e data. Venivano utilizzati anche per la compilazione dei martirologi. Somigliavano a certi odierni flash d'agenzia.
Ma degli Acta, in Italia, non è rimasto quasi nulla. Abbiamo, in greco, gli atti relativi a S. Giustino e compagni e a S. Apollonio. Nulla in latino.
Ben più diffusi sono i Passionali, scritti a partire dal V secolo, sempre e comunque molto tempo dopo le vicende che vi vengono narrate, e arricchiti con elementi frutto della fantasia degli autori, in genere a scopi didattici. Fantasia spesso malata, aggiungiamo tra parentesi, data la quantità di particolari raccapriccianti sulle torture subite dai protagonisti, per fortuna appunto quasi sempre frutto di invenzione.

Quello di S. Cresci era un Passionale. Come consuetudine dell’epoca, l’anonimo estensore infarcì l’ossatura della vicenda con una quantità di interpolazioni personali e gli sfuggirono numerosi evidenti anacronismi. Mise poi in bocca a San Cresci una serie di monologhi pesantissimi e interminabili. Li ho letti: fossero veri, verrebbe da parteggiare per i soldati. Quanto agli anacronismi, mi limito all'esempio della citazione testuale di alcuni passi del Credo, che all'epoca non era ancora stato scritto, oltre ad allusioni ad argomenti oggetti di dispute teologiche di parecchi anni posteriori (lotta all'arianesimo, ecc). Insomma il testo non poteva risalire al 250 d.C.

Il religioso romano Giacomo Laderchi, devoto meno di S. Cresci che del Granduca Cosimo III - lui sì devoto di S. Cresci e finanziatore del restauro ricostruzione & ristrutturazione della Pieve di Valcava - pubblicò nel 1607 il passionale, proclamando però ai quattro venti trattarsi degli Acta originali, redatti in contemporanea ai fatti narrati. L'Abate Giusto Fontanini chiese un parere sulla pubblicazione all'erudito servita Gerardo Capassi. Questi espresse forti e legittime perplessità sull'autenticità del testo, e lo fece in una risposta riservata che però finì nelle mani di Laderchi.
Laderchi non la prese bene. Pubblicò, con lo pseudonimo di Pietro Polidori, una Lettera ad un Cavaliere Fiorentino, in risposta di quella scritta dal p. Fr. Gherardo Capassi dell'Ordine dei Servi di Maria, a Giusto Fontanini (il titolo prosegue ma ve lo risparmio), in cui si cimentò in poderose arrampicate sugli specchi riguardo gli anacronismi, ma soprattutto a Capassi ne disse di tutti i colori. Lo trattò da eretico blasfemo che non credeva neanche all'esistenza di S. Cresci. S'inserì nella polemica, a favore di Capassi, il monaco cassinese Benedetto Bacchini. Capassi replicò, anche lui sotto pseudonimo, scrivendo le Nugae laderchianae in epistola ad equitem flor (anche qui vi risparmio il resto), nelle quali a Laderchi restituiva con gli interessi gli insulti subiti. Cosimo III perse definitivamente la pazienza, fece bruciare pubblicamente le Nugae, mandò ...altrove tutti i protagonisti della rissa e incaricò De' Mozzi di rimettere le cose a posto. E

La Pieve di S. Cresci a Montefioralle, Comune di Greve
De' Mozzi scrisse così il libro sopra accennato. Fece un ottimo lavoro, dal punto di vista sia storico che diplomatico. Ammise la scarsa attendibilità di buona parte del passionale, ma fu indulgente nei confronti dell'estensore, ammettendo che le Passiones dovevano servire per fare catechismo ai religiosi. Le notizie e i documenti da lui forniti sono ancora oggi una fonte di riferimento.

S. Cresci a Campi Bisenzio, oggi. Della chiesa originale non è rimasto nulla.
Evidentemente però non riuscì a riparare del tutto al danno di immagine - diremmo oggi - subito dal Santo Martire. Quello di S. Cresci è in effetti uno dei molti casi in cui gli elementi di invenzione hanno soffocato la storia originale al punto di far risultare inverosimile anch’essa. L'averla buttata in caciara contribuì ulteriormente alla svalutazione della sua figura. Sulla ‘Bibliotheca Sanctorum’, Giuseppe Raspini (1966) bolla la ‘Passio’ come “del tutto favolosa”. Oggi S. Cresci, malgrado la devozione mai sopita da parte dei suoi fedeli, non figura tra i Santi riconosciuti dalla Chiesa. Nemmeno i suoi compagni di martirio. Li cercherete inutilmente sul sito www.santiebeati.it. Ciò a dispetto di molti elementi che fanno supporre una storicità di fondo della vicenda. Riassumo brevemente i principali.
Anzitutto le quattro chiese, di cui tre pievanie, tutte antiche, intitolate a S. Cresci: quella di Valcava, secondo Niccolai documentata dal 1177, ma secondo il Lami risalente al IV secolo; la Pieve di Montefioralle (Greve) (menzionata per la prima volta nel 963), la Pieve di Macioli (Pratolino) (941) e la chiesa di Campi Bisenzio, che figura come monastero in una carta dell'866: il più antico documento in cui è fatto il nome di Cresci.

Plutei 16.08. S. Cresci è al terzultimo rigo.
In secondo luogo il nome del Santo riportato in diversi antichi martirologi. Salvo errore, il più antico è conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana, è segnato Plutei 16.08, risale al 1100-1110 ed è un martyrologium Bedae, ovvero un martirologio secondo Beda, dal nome del Compilatore. In realtà è un semplice calendario, con riportati i nomi dei santi (quando ci sono), che occupa le prime sette carte. In fondo alla carta 5v troviamo il IX Calendae, e il nome di S. Cresci.
A S. Cresci Giovanni Villani dedica un capitolo della sua Cronica (il XXI del Libro secondo), in cui lo definisce de le parti di Germania gentile uomo. Altri storici hanno dato per molto probabile l'origine tedesca di Cresci.
Quando nel 1613 l’Arcivescovo fiorentino Alessandro Marzi Medici compì a Valcava la sua visita pastorale, l’allora pievano Matteo Dalle Pozze chiese autorizzazione a effettuare scavi in chiesa, per dirla con De’ Mozzi, “per lo ritrovamento di così preziosi Tesori, appoggiato sulla fede degli Scrittori, e sulla continovata tradizione delle genti”. Ad autorizzazione ottenuta, si scavò sotto l'altare maggiore, e venne alla luce una sorta di camera funeraria con entro le ossa di un essere umano, privo della testa. La testa era già presente nella Pieve e venerata come reliquia, ed è quella che si vede nella foto d'apertura. Durante la medesima visita gli scavi proseguirono ai gradini dell’altare. Qui si ritrovarono, in una sepoltura murata di mattoni, due scheletri umani integri. Erano quelli di Enzio e Onione? Il Pievano non si contentò. Fece scavare sotto il fonte battesimale, sulla destra all'ingresso della Pieve. Vennero alla luce otto crani e una quantità di ossa umane affastellate e confuse tra di loro. Erano i resti di Panfila, Cerbone e compagni?
De' Mozzi descrive poi minuziosamente i ritrovamenti su un poggio non distante dall'odierna Pieve, ove molti indizi (tra cui monete antiche e piccole sculture) fanno pensare fosse situato un tempio pagano intitolato a Esculapio.

S. Cresci e compagni non hanno avuto pace neanche negli anni seguenti. Vi è stata una diatriba sui loro nomi. Come ho accennato in questo post, alla fine del '700 il Vescovo di Pistoia e Prato Scipione de' Ricci si prese la libertà di riunire i Santi Cresci, Enzio e Onione in un solo santo: Crescenzione. Fu mosso in questo da urgenze politiche (c'erano allora troppi santi in giro verso i quali vi era troppa devozione, a suo parere ai limiti della superstizione) e non certo da preoccupazioni di tipo storico filologico, che non lo sfioravano. Ammettiamolo: l'assonanza c'è. Va però considerato che il nome di Cresci - o Crescio, o Criscus, o Acriscus - è come abbiamo visto antichissimo, mentre dei nomi Enzio e Onione non vi è traccia prima del ritrovamento del passionale. Questo mi porta, forse con una certa presunzione, a ipotizzare che il redattore del passionale stesso, forse in cerca di nomi da dare ai soci di S. Cresci, credette di averli trovati male interpretando una qualche lapide o pergamena dedicata a S. Crescenzione, il quale era stato martirizzato insieme con S. Lorenzo.

Biblioteca Moreniana, Inc. 62_01. Cerbone è citato in alto nella pagina di destra.

Diverso il discorso per il nome di Cerbone che, secondo alcuni, originerebbe dal S. Cerbone vescovo di Populonia, vissuto nel VI secolo. Ma, oltre che dalla presenza di una località presso la Pieve di Valcava che da tempi immemorabili si chiama Bosco di S. Cerbone, questa ipotesi sarebbe smentita dalla celebrazione del Santo fin da tempi antichi come risulta anche da un martirologio stampato nel 1486 a Firenze da Benedetto dei Buonaccorsi, e compilato da Don Antonio Vespucci. L'unica copia è conservata alla Biblioteca Moreniana. Qui, alla data del 4 maggio, è specificatamente citato il martirio Cerboni & sociorum eius presso la tomba di S. Cresci in Valcava.


Non molto distante dalla Pieve di S. Cresci in Valcava esiste(rebbe) ancora l'oratorio dedicato a S. Cerbone fatto costruire da Cosimo III, ma è in condizioni disperate. Pericolante da tempo, è stato murato e transennato. Ed è un peccato, perché al suo interno si trova(va) un affresco che mostra(va) appunto la guarigione di Cerbone ad opera di S. Cresci. Questo affresco - la notizia è inedita - fu realizzato nel 1881 su incarico del Pievano Pietro Lorenzi dal pittore fiorentino Ferdinando Folchi (1822-1883) .

venerdì 3 agosto 2018

Niccolò Niccolai: ieri, oggi e (soprattutto) domani.


Il mio amico Niccolò Niccolai inaugurò la sua grande retrospettiva in Palazzo Panciatichi, a Firenze in Via Cavour, l'11 febbraio 2013. Lo stesso giorno, il mondo era rimasto ammutolito dalla notizia delle dimissioni del Pontefice Benedetto XVI. Io mi vanto di essere stato l'unico a comprendere il vero motivo di questo gesto. Lo confidai a Niccolò: "Vedi? Evidentemente anche lui ha saputo che tu di norma fai una personale ogni morte di Papa, sicché ha preferito mettere le mani avanti."
In realtà per Niccolò, nato a Castelfiorentino nel 1948, pittore, scultore, scenografo, insegnante, la ritrosia a esporre che tutti gli amici affettuosamente gli rimproverano non solo è parte integrante della sua indole, ma lo ha tenuto al riparo dai pareri dei critici, che avrebbero potuto indirizzarlo per vie che non sono le sue. Lo affermò Domenico Viggiano (Segretario dell'Accademia delle Arti e del Disegno) proprio in occasione dell'inaugurazione della mostra, e aggiunse: "Troppo spesso si rischia che la storia dell’arte la facciano i critici anziché gli artisti. E invece Niccolò ha dato sempre retta a se stesso, seguendo una strada personalissima e di grande coerenza."

Niccolò nel 2013 accanto a un autoritratto del 1968
Una strada, scrissi anni fa su una nota biografica, scandita soprattutto da incontri. Incontri che, per la loro grande e imprescindibile forza di coinvolgimento, non potevano restare senza conseguenze, tanto meno su un artista la cui formazione personale, va considerato, è stata prevalentemente religiosa. Incontri con svariate personalità piccole e grandi che hanno dunque contribuito al suo divenire umano e artistico. Inutile tentare un elenco che sarebbe sempre e comunque incompleto. Mi piace semmai rilevare la pari dignità che Niccolò assegna loro: a Gino Terreni, insegnante di disegno del commerciale che raccomandò i suoi di mandarlo all'Istituto d'Arte; come a Silvano Piovanelli, all'epoca Vicario della Val d'Elsa e Proposto di Castelfiorentino quando il P.C.I. vi raccoglieva il 78% dei voti, ma tutti andavano alla Messa per sentire le sue omelie. Sempre sul piano religioso, fra gli incontri rimarchevoli di Niccolò si possono ricordare il gesuita Jean Le Quit, Giovanni Lanza Del Vasto detto il Gandhi italiano, Don Luigi Giussani. Sul piano artistico c'è da perdersi. Maestri, colleghi, compagni di percorso, allievi. Da Emilio Greco a Luca Ronconi, dal regista Leo Toccafondi allo scultore Silvano Porcinai, e poi la scenografa Laura Stiattesi, da anni sua compagna di lavoro e di vita. Né si possono dimenticare i quattro anni di Accademia con Primo Conti, al termine dei quali si diplomò col massimo dei voti. L'amicizia con questo artista proseguì fino alla scomparsa di quest'ultimo, della quale sta per ricorrere il trentennale.
Niccolò ha attraversato diverse fasi stilistiche in continuità l'una con l'altra come un piano sequenza cinematografico, in un fluire che è frutto di di una ricerca continua. Il ricorso a più mezzi espressivi fa di lui un uomo del Rinascimento e lo inserisce senz'altro nel novero degli artisti rigorosamente fiorentini.

Pentecoste, 1972. Chiesa di S. Paolo a Soffiano, Firenze
Ho la sensazione - mi spiegò - che adesso si dia più importanza al mezzo che alla finalità dell'opera d'arte. La modernizzazione rischia così di rimanere fine a se stessa, e su se stessa arroccata. Il mezzo - il colore, il video, la performance, l'installazione - ha una sua ragion d'essere in funzione di ciò che si vuole esprimere. Dovendo intraprendere un viaggio, solo una volta stabilito dove si vuole andare avrà un senso scegliere se usare un Jumbo o un DC9, o una barca a vela, o un treno. Il mezzo è un veicolo utile, ma si può proseguire anche a piedi e a mani nude, purché la meta sia intravista. È la meta che fa grande e duratura la ricerca.

Il Monumento alle Vittime Civili del Bombardamento di Borgo S. Lorenzo

Dopo una fase di approfondimento sulle contaminazioni tra futurismo e cubismo, che raggiunse l'acme negli anni 70 (e ne riparleremo), Niccolò tornò al figurativo, sia in pittura che in scultura. Dal 1984-85 al 2005 è stato titolare della cattedra di pittura al Liceo Artistico. Le altre attività, in particolare quella di scenografo, lo coinvolsero e assorbirono, ma mai al punto di fargli tralasciare l'insegnamento. I suoi allievi ancora oggi gli dimostrano per questo una straordinaria gratitudine.


Quando lo andai a trovare per la prima volta, dieci anni fa, nella sua casa-studio di Vespignano, mi mostrò con più che legittimo orgoglio la sua scultura di S. Francesco Predicatore, che adesso è situata nel natìo Castelfiorentino di fronte alla Chiesa dedicata al Poverello d'Assisi.


Son tornato i giorni scorsi a trovarlo nell'altra casa-studio, sempre nei pressi di Vicchio ma di là dalla Sieve, sul Poggetto dell'Uliveta. Niccolò mi ha mostrato le sue ultime creazioni, compiute e non. Non ancora, s'intende.

In particolare, il suo Transito di San Francesco è strettamente imparentato con il Predicatore, di cui sembra rappresentare la logica, mistica conclusione. Il Transito è stato di recente esposto per tre mesi ad Ascoli Piceno nel Palazzo del Capitano del Popolo all'interno di una collettiva. Gli 8 artisti che vi hanno preso parte sono coinvolti in un progetto di riesame e riconsiderazione dell'arte sacra, nell'intento di conferire nuovi valori a questo genere. "La dipartita di San Francesco" spiega Niccolò "ebbe un che di quasi scandaloso. Il suo ultimo desiderio fu di essere privato del saio, e nudo essere seppellito nella nuda terra. Come suo ultimo gesto ho voluto evidenziare quel suo tentativo di proteggere le stigmate.".

Niccolò ha poi ripreso in mano e ricostruito una sua scultura realizzata molti anni fa, che era stata danneggiata. Rappresenta il mito di Hermaphrodita secondo Platone. Lo riassumo testualmente da una citazione su www.filosofico.net: "Un tempo gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v'era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna all'antica perfezione."

Avevo accennato alla ricerca compiuta da Niccolò negli anni '70. Quest'opera sembra esserne quasi un paradigma. "Lavoravo con Primo Conti, e grazie a lui approfondii i rapporti tra futurismo e cubismo. Questa scultura ne è un po' una sintesi. Al di là della logica ambiguità sessuale, ciò che a distanza di anni trovo maggiormente interessante sono queste spigolosità che s'intromettono nella forma a scomporla in elementi geometrici, dandole movimento e dinamicità. La strada che percorrevo è stata fondamentale, così come il rapporto con Conti, per tutto il mio lavoro a seguire. Voglio dire che il figurativo cui sono poi tornato discende in via diretta dalle ricerche compiute a quell'epoca."

Riprendo ancora dalla nota biografica: con le logiche distinzioni date dai relativi contesti, l'intera opera di Niccolò Niccolai lascia sempre e comunque all'osservatore una componente estetica da dedicare in effetti al momento puramente contemplativo. I modi e gli aspetti variano a seconda del linguaggio usato, ma si tratti dell'allestimento di una grande mostra culturale come Renaissance de la Mode Italienne; della scenografia di una Tosca; del Monumento alle vittime civili del bombardamento di Borgo S. Lorenzo (a sua volta vittima della maleducazione); della grande pala della Pentecoste; o viceversa delle sue acqueforti o degli innumerevoli disegni, acquerelli, schizzi sui suoi altrettanto innumerevoli album, una realizzazione di Niccolò chiede sempre allo spettatore una partecipazione contemplativa, da affiancare e spesso anteporre a ogni altro tipo di considerazione estetica, artistica, storica, funzionale, culturale. È questo forse l'elemento che accomuna i tre linguaggi dell'arte di Niccolò, che si trovano poi a esprimersi in modi apparentemente così diversi.

La sedia di Berenson nello studio di Niccolò
Niccolò è a buon punto nel completamento de La sedia di Berenson, che si ricollega perfettamente a quanto sopra. Era partito da uno schizzo che aveva fatto ritraendo l'amica Cristina Falcini, e da cui ha poi tratto la scultura. "Sono riandato con la memoria alle lezioni di uno dei miei maestri, Del Bravo. Questi citò una volta un concetto espresso da Bernhard Berenson: l'arte ha bisogno di una sedia. Una sedia dove posarsi comodamente rilassati, in modo da poter contemplare l'opera nella migliore delle condizioni possibili". "Sembrerà strano, ma l'elemento di partenza per la scultura, che poi è quello che mi ha incuriosito di più, è stata la posizione delle gambe. Da questa dipende tutto il resto. Non chiedermi perché, ma di solito disegno dal vero, e poi modello a memoria."