mercoledì 26 luglio 2017

Le disavventure di una fontana


Firenze, Oltrarno. Angolo, anzi cuneo tra Borgo S. Jacopo e Via dello Sprone.
Per raccontare una storiella estiva abbastanza divertente, oltre a documentarmi, mi sono recato a fotografare la fontana che ne è protagonista, e l'ho trovata come si vede nella foto d'apertura. Mi sono detto che veramente per la Fontana dello Sprone non c'è pace.

Intendiamoci. Nonostante su alcuni siti sia scritto il contrario, Firenze non ha mai avuto un particolare feeling per le fontane. Nulla in confronto a Roma, che è l'esempio più classico. Se Ottorino Respighi avesse composto un poema sinfonico dal titolo - anziché Roma - Le fontane di Firenze, sarebbe durato due minuti e mezzo! I turisti, non solo e non necessariamente quelli mordi e fuggi, per lo più di fontane fiorentine ne rammentano due: la fontana del Nettuno in Piazza Signoria, che per i fiorentini è la Vasca del Biancone (attualmente del tutto impacchettata per restauri), e la fontana del Cinghiale sotto la loggia del Mercato Nuovo, per tutti Il Porcellino. Possiamo aggiungervi quelle di Piazza SS. Annunziata e il complesso di Boboli.

I motivi ci sono. Per secoli, Firenze fece a meno delle fontane. Dopo la decadenza dell'acquedotto romano, l'approvvigionamento idrico dei fiorentini avveniva dai pozzi. Sarà il Granduca Cosimo I (1519-1574) a rivoluzionare il rapporto della città con l'acqua e a dotarla di un nuovo acquedotto. La collocazione di fontane e vasche ne sarà una delle conseguenze. Scrive Emanuela Ferretti, autrice di Acquedotti e fontane del Rinascimento in Toscana (Olschki 2016):

La rete voluta dal duca per la capitale si componeva di due strutture principali: una che entrava in città nei pressi di porta a San Gallo nel settore nord-est del circuito difensivo, alimentata dalle acque del Mugnone; l’altra, che captava l’acqua da alcune sorgenti a monte della collina di Boboli fuori le mura, era in parte correlata al sistema idrico del giardino della futura reggia di Pitti, a delineare un binomio rafforzato dai successivi interventi di potenziamento e ampliamento dell’infrastruttura attuati dai discendenti di Cosimo I e, in particolare, da Cosimo II e Ferdinando II.

Carlo Cresti, in Le fontane di Firenze (Bonechi 1982), presenta e analizza un totale di cinquanta fontane (più, prese collettivamente, quelle della villa di Pratolino), precisando di essersi limitato a quelle accessibili al pubblico. Di queste, ben sedici fanno parte del Giardino di Boboli, cinque di Palazzo Pitti, quattro di Villa Castello, due di Villa della Petraia.

La prima grande fontana pubblica fiorentina, la già citata Vasca del Biancone, realizzata tra il 1560 e il 1565 da Bartolomeo Ammannati (1511-1592), fu l'elemento più appariscente della trasformazione granducale, anche se non ebbe mai recensioni entusiastiche. Ha varie attribuzioni il celebre Ammannato, Ammannato, che bel marmo hai rovinato! (l'Autore si consolerà ampiamente costruendo il più bel ponte del mondo, quello di S. Trinita).
Vi furono poi due altri periodi storici in cui ci fu una particolare attenzione all'assetto delle fontane e dell'approvvigionamento idrico: quello pur breve del governo napoleonico, durante il quale si procedette soprattutto a restauri di strutture rese obsolescenti sia dal tempo sia dall'incuria; e quello di Firenze Capitale: il piano di Giovanni Poggi, che intendeva dare alla città un degno decoro, prevedeva numerose nuove vasche e fontane, anche se il suo progetto si concretizzò solo in parte: oltre alle vasche del Bobolino, di Piazza S. Gallo (ora Piazza della Libertà) e della Fortezza, è da ricordare il sistema di cascate che scendeva da Piazzale Michelangelo per le rampe fino a Porta S. Niccolò.



Ad ogni modo, il periodo mediceo, in special modo il XVII secolo, fu quello in cui sorsero le fontane più note di Firenze, ed a questo periodo appartiene quella dello Sprone. Era tradizionalmente attribuita al Buontalenti, e secondo Cresti  si poteva "far risalire al 1608, nel quadro degli allestimenti messi in opera per il matrimonio di Cosimo II de' Medici unitamente alle statue poste sul ponte a S. Trinita". Tuttavia, sostiene Claudio Paolini nel Repertorio delle architetture civili di Firenze, "Recentemente si è chiarito come la fontana sia stata in realtà allestita al termine dei lavori dell'acquedotto voluto da Ferdinando II, nel 1638-1639, ed eseguita dallo scultore Francesco Generini."

Ma la nostra fontana non ha avuto solo problemi di attribuzione.
Nel 1815, l'architetto Giuseppe Del Rosso, all'Accademia dei Georgofili, rivendica da parte di una deputazione ad hoc l'avvenuto intervento sullo stato degli acquedotti fiorentini nonché sulle condizioni pietose di diverse fontane di Firenze, tra cui "quella all'imbocco del Borgo S. Jacopo dal lato del ponte a S. Trinita, la cui tazza era stata spezzata". Fu lui, infatti, a restaurarla. Un altro restauro fu necessario dopo il 1944, e non credo occorrano spiegazioni. L'ultimo intervento risale al 2014.
La vicenda tragicomica di cui dicevo all'inizio è datata 1984. Si era dunque in un periodo in cui bisogna ammettere che né cittadinanza né amministrazioni mostravano una attenzione particolare al decoro urbano e/o al nostro patrimonio artistico. Come testimonia la foto tratta dal libro di Carlo Cresti, già da qualche anno si era pensato bene di porre sopra alla fontana e sotto allo stemma mediceo (sì, quello con le palle) un non esteticissimo cartello stradale. Ma quando accanto al cartello stesso venne collocato pure un semaforo pedonale, un anonimo appose nottetempo un quadretto con un pittoresco epigramma:


TU 
CHE LO SGUARDO 
A QUESTA FONTE PONI
NOTA LA DIFFERENZA
FRA LE PALLE 
E I COGLIONI

Pensavo che l'episodio fosse stato del tutto dimenticato, e invece no. Se ne parla sul sito dedicato a quello che solo in seguito si rivelò l'autore del gesto, un estroso artista fiorentino di nome Mario Mariotti (1936-1997), che anche in passato aveva compiuto gesti eclatanti. Ad esempio durante la campagna per il referendum sul divorzio (1974), per una notte proiettò un gigantesco NO luminoso sulla Cupola del Duomo.
Troverete le foto della vicenda narrata qui. Una di esse è un ritaglio di giornale nel quale si riporta che, due giorni dopo la comparsa della poesia, il quadretto e il semaforo vennero rimossi.

P.S. I cartelli attuali parlano di senso unico per Borgo S. Jacopo fino al 15 settembre. La fontana resterà deturpata fino allora?





mercoledì 19 luglio 2017

Vieri Chini e la vitalità del Liberty


Il mio amico Vieri Chini, direttore artistico e deus ex machina del Teatro Idea, è figlio di Augusto Chini e nipote di Chino Chini, che a sua volta era cugino di Galileo Chini. Può ben permettersi di accogliermi nel Villino Chini di Borgo S. Lorenzo (FI), vero tempio e tappa fondamentale di qualunque itinerario liberty mugellano.
Nelle sale del Villino sono di recente tornate al loro posto parecchie opere, dipinti e ceramiche, di Galileo, dopo essere state ammirate in alcune mostre il cui successo di pubblico è stato di dimensioni quasi inaspettate.

Una delle innumerevoli ceramiche
 di Galileo Chini (Museo Chini,
 Borgo S. Lorenzo)
Nel 2016, al Palazzo Reale di Milano e poi al Palazzo Ducale di Genova, opere di Chini hanno contribuito alla grande esposizione dedicata al ceco Alfons Mucha (1860-1939), noto soprattutto come autore di manifesti ma, come tutti gli esponenti dell'Art Nouveau, artista a 360°. "Mantenendo come perno centrale la figura di Mucha", si legge nel blog dedicato alla mostra, "le opere dell’artista sono affiancate in mostra da una serie di ceramiche, mobili, ferri battuti, vetri, sculture e disegni di artisti e manifatture europei affini a quella medesima sensibilità"
La mostra di Reggio Emilia: 'Liberty in Italia - Artisti alla ricerca del moderno', allestita a Palazzo Magnani e aperta dal 5 novembre 2016 fino al 14 febbraio 2017, è stata poi prorogata fino al 2 aprile data l'affluenza.
"Ancora più importante per me" dice Vieri "la mostra 'Magiche atmosfere déco' a Castrocaro, nel Salone delle Feste delle Terme, che fu progettato da Tito Chini con interventi di mio padre Augusto."
Dall'11 febbraio al 18 giugno il Museo di S. Domenico a Forlì ha ospitato la mostra 'Art déco - gli anni ruggenti in Italia'. Oltre 350 opere! Merita riportare un intero passo della relativa presentazione, che ci permette di comprendere una volta di più in quale autentico macrocosmo artistico e culturale si inserisce la figura di Galileo Chini:

Obiettivo dell’esposizione è mostrare al pubblico il livello qualitativo, l'originalità e l'importanza che le arti decorative moderne hanno avuto nella cultura artistica italiana connotando profondamente i caratteri del Déco anche in relazione alle arti figurative: la pittura e la scultura. Sono qui essenziali i racconti delle opere di Galileo Chini, pittore e ceramista, affiancato da grandi maestri, come Vittorio Zecchin e Guido Andlovitz, che guardarono a Klimt e alla Secessione viennese; dei maestri faentini Domenico Rambelli, Francesco Nonni e Pietro Melandri; le invenzioni del secondo futurismo di Fortunato Depero; i dipinti, tra gli altri, di Felice Casorati, Alberto Martini, Cagnaccio di San Pietro, Amedeo Bocchi, Luigi Bonazza, Anselmo Bucci, Giannino Marchig, Ubaldo Oppi, il tutto accompagnato dalla straordinaria produzione della Richard-Ginori ideata dall'architetto Gio Ponti e da emblematici esempi francesi, austriaci e tedeschi fino ad arrivare al passaggio di testimone, agli esordi degli anni Trenta, agli Stati Uniti e al Déco americano.

La primavera che perennemente si rinnova, opera klimtiana 
di Galileo Chini (1914)

 "A Forlì ci sono stato più di una volta. Di sabato c'era veramente la coda fuori dell'ingresso. Ma, e questo mi ha sorpreso, ho trovato anche di martedì un grande affollamento. C'erano diverse scolaresche, e dalle elementari alle superiori, non solo queste ultime come ci si potrebbe aspettare. E tutti attenti e interessati, grazie ai percorsi dedicati. Forlì ha coinvolto anche il Museo delle ceramiche di Faenza che, fino al 1° ottobre, ospita 'Ceramica Déco. Il gusto di un'epoca', dedicato ad artisti prevalentemente faentini. Ma c'è anche Galileo. A Forlì hanno molti fondi. Hanno capito che, investendo 1, ritorna almeno 3."

"Devono aver appreso" continua Vieri "la lezione di Mitchell Wolfson Jr (1939), che iniziò a raccogliere opere e manufatti del periodo Art Déco, pagandoli un boccon di pane quando questo periodo artistico era stato più o meno inghiottito dall'oblio. Nel 1986 Wolfson fondò a Miami, sua città natale, la Wolfsonian Foundation e pubblicò il giornale  The Journal of Decorative and Propaganda Art. Fece fortuna. Nel 1997 donò la collezione - circa 80.000 pezzi - alla Florida International University. Oggi la fondazione ha una succursale italiana a Genova Nervi. Sia a Nervi che a Miami ci sono una quantità di pezzi di Galileo Chini."

Il Wolfsonian Museum a Miami Beach, Florida, U.S.A. © Acroterion

In questo momento, dice Vieri, c'è un attimo di calma. "Ho saputo che un paravento di Galileo esposto a Forlì sarà spostato a Salsomaggiore, alle Terme Berzieri." Le Terme Berzieri furono progettate da Ugo Giusti, architetto di fiducia nonché grande amico di Galileo, e decorate da quest'ultimo. Per creare i manufatti si dovettero ampliare le Fornaci di Borgo San Lorenzo. E a proposito: "Sembra che a Faenza ci sia l'intenzione di allestire una mostra sui prodotti delle Fornaci..."


giovedì 13 luglio 2017

GABBATO LO SANTO 8: la bella & buona Piccarda Donati


Dante Alighieri conosceva molto bene la famiglia Donati. Aveva sposato Gemma, cugina di Forese, col quale il Poeta si batté in una tenzone poetica giunta fino a noi, costituita da sei sonetti, tre per parte. Aveva sicuramente conosciuto molto bene anche la sorella di Forese, Piccarda. Nel Purgatorio, canto XXIV, Dante stesso ne chiede notizie al fratello. Che risponde:

La mia sorella, che tra bella e bona 
non so qual fosse più, triunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona.

Era una bellissima ragazza, Piccarda. Fra' Mariano di Ognissanti, in un manoscritto redatto nel 1555 citato dal Richa, la definì la più bella figliuola che in quel tempo fussi in Firenze. Ciò non poteva non inorgoglire i Donati. Ma, e questo li inorgogliva molto di meno, era anche una ragazza indipendente. Decideva per sé. E decise per sé di darsi in sposa a Gesù. Nonostante fosse stata promessa a un tale Rossellino della Tosa. A prometterla era stato un altro fratello: Corso Donati. La sua figura storica è abbastanza nota, e non per particolari qualità umane. Dino Compagni ne fece un ritratto al vetriolo: 

Un cavaliere della somiglianza di Catilina romano, ma più crudele di lui; gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, adorno di belli costumi, sottile d'ingegno, con l'animo sempre inteso a malfare.

Poco prima delle nozze, Piccarda fuggì di casa nottetempo. Approdò al convento delle Suore Clarisse di Monticelli fuori da Porta Romana. Era l'edificio fatto costruire dal Cardinale Ottaviano Ubaldini senza badare a spese, anche perché la superiora era all'epoca Chiara Ubaldini.
Michele Bongini, nel suo La Piccarda Donati: racconto storico fiorentino pubblicato nel 1861, descrive la vestizione - ma soprattutto la spoliazione - di Piccarda, che assumerà il nome di Costanza, fornendo un'idea più che vivida del livello sociale di cui faceva parte la famiglia Donati. Eccone un estratto.

La badessa, suor Chiara degli Ubaldini, cominciò col togliere dal capo a Piccarda, che le stava davanti in ginocchio, tutta vestita di bianco, le filze di perle e le trecciere di filo d'oro tempestate di smeraldi: le trasse di fronte una ricchissima coronella di fiori formata con diamanti, piropi, turchese, spinelli, agate diasprine, calcedonii brizzolati, [lapis]lazzuli, lumachelle, pergmatiti, ofioliti e molte altre preziosissime pietre e con queste messe in perfetto disegno [...] le tolse dalle orecchie i balasci insigni per gli aurei castoni e i lavori di filograna. Le trasse i monili dal collo, le armille dai polsi, e finalmente le scinse dai fianchi un vago scheggiale di tocca di argento, fulgido tutto e grave di diamanti e di gariandri.

La descrizione non si ferma qui, e prosegue con la tonsura dei capelli e la consegna dell'abito e di una candela accesa, lume di Cristo, vera luce del mondo.

Il ratto in un dipinto di Lorenzo Toncini (1802-1884)

Simone, padre di Corso, non la prese bene. Fece rientrare quest'ultimo da Bologna, ove era podestà. Entrambi si recarono al convento una prima volta per cercare di convincere Piccarda, ormai Costanza, a tornare sui suoi passi, prima con le buone, poi con le minacce, ricavandone un - diremmo oggi - cortese ma netto rifiuto. Il fratello reclutò uno ladro scelerato chiamato Farinata e dodici compagni altrettanto poco raccomandabili. Dopo un primo tentativo infruttuoso - il convento era quasi come una fortezza - la notte prima della festa di S. Melchiade Papa, il 9 dicembre, con scale di seta irruppero nel convento pieni di furore come diavoli scatenati e strapparono letteralmente a viva forza Piccarda dalle mani delle altre monache (in apertura la scena in un dipinto di Raffaello Sorbi, 1844-1931). La legarono, la condussero a casa e la rivestirono di abiti secolari. Le nozze furono celebrate ugualmente a forza. 

Suor Costanza pregò intensamente il suo vero sposo Gesù affinché l'aiutasse a conservare per lui la castità, e gli chiese di renderla repellente procurandole piaghe, pustole, corruptione et vermini e tutto quanto rendesse impossibile il solo avvicinarla. Gesù l'accontentò. La fece ammalare in modo raccapricciante e, dopo otto giorni di agonia durante i quali non c'era versi nemmeno di entrare nella stanza dal fetore, volò in cielo e si ricongiunse al suo vero sposo.

Fra' Mariano narra anche come in un poscritto il pentimento di Corso Donati: 

Vedendo questi segni messer Corso fratello di Picharda, che di tanto male era stato lo autore, fu tucto compunto, et per non incorrere nel sudicio divino, venne uno giorno solemne alla Chiesa di Sancta Maria di Monticagli et spogliato di tucti e’ vestimenti colla cintura al collo, dinanzi a’ frati et alle suore et grande moltitudine di populo, salito in sul pulpito dixe la sua colpa et fu per autorità del Papa absoluto della scomunica, et ricevette la condegna penitentia per tanto peccato, et ancora hebbe per divino judicio molte tribulatione come fu manifesto a tucta la Ciptà, perché venendo in sospecto del populo, gli fu messa la casa a saccho, et lui fuggendo la furia del populo uscì fuori della Ciptà per la porta della croce et loro correndogli drieto, lo uccisono nel mezo della strada.

La morte di Corso Donati in una miniatura illustrante le Croniche del Villani

La storia, con poche varianti, è narrata da parecchi agiografi, da Rodolfo da Tossignano nella Historia Seraphica (non dimentichiamo che le suore erano dell'Ordine delle Clarisse, fondato da Santa Chiara, e Monticelli ne fu il primo convento dopo quello di San Damiano) a Silvano Razzi nel secondo volume delle Vite dei Santi e Beati Toscani, a Giuseppe Maria Brocchi nel secondo volume delle Vite dei Santi e Beati Fiorentini. Quest'ultimo, inspiegabilmente, si perde in una confutazione, lunga e pesante, dell'ipotesi da taluni avanzata che Piccarda fosse morta intorno al 1320. Quando bastava scrivere: impossibile, già nel 1300 Dante l'aveva collocata in Paradiso. La vicenda si svolse invece probabilmente nel 1288, quando appunto Corso Donati era podestà a Bologna. L'uccisione di Corso avvenne nel 1308. La data del pentimento non è chiara.


Gustave Dorè: Dante incontra Piccarda
Ma Dante, nel III Canto del Paradiso, smentisce implicitamente l'ultima parte della storia di Piccarda, quella splatter. Se ciò che riguarda il ratto e il matrimonio forzato ha fondamento storico e all'epoca fu per i fiorentini un bell'argomento di discussione e di gossip, la malattia orribile di Piccarda è un'invenzione posticcia risalente ai secoli seguenti. Fubini, nell'Enciclopedia dantesca, ne fa una lunga e luminosa dissertazione. Sarà sufficiente qui un breve riassunto.
Dante così fa parlare Piccarda (la giovinetta, naturalmente, è Santa Chiara):

Io fui nel mondo Vergine sorella,
e se la mente tua ben mi riguarda, 
non mi ti celerà l'esser più bella. 
Ma riconoscerai ch'io son Piccarda,
che posta qui con questi altri beati, 
beata son nella spera più tarda.
(...)
Dal mondo per seguir la giovinetta
fuggimmi e nel suo abito mi chiusi, 
e promisi la via della sua setta.
Huomini poi, a mal più ch'a ben usi, 
fuor mi rapiron della dolce chiostra. 
Dio lo sa, qual poi mia vita fusi. 

Dante colloca Piccarda nella spera più tarda: la sfera più bassa, che accoglie coloro che in vita, contro la loro volontà, non poterono adempiere un voto. Sono beati lo stesso perché fanno la volontà di Dio. Ma se fosse stata vera la storia del corpo putrescente, maleodorante e quant'altro, Piccarda non sarebbe stata sfiorata da Rossellino e avrebbe adempiuto il voto di castità formulato presso il convento. L'ultimo verso qui citato, poi, fa comprendere che la sua vita durò forse non molto, ma certo più degli otto giorni narrati.

La parte leggendaria della storia di Piccarda, ad ogni modo, le valse l'inserimento nel Martirologio francescano, alla data del 17 dicembre, con le parole B. Constantiae Virginis. La sua salma viene rammentata, senza precisarne l'ubicazione, tra i corpi santi elencati da Fedele Onofri nel suo Sommario historico la cui prima edizione risale al 1631.





mercoledì 5 luglio 2017

I capi firmati degli Umiliati


L'origine degli Umiliati, che approdarono a S. Donato a Torri (foto d'apertura) nel 1239, resta abbastanza nebulosa. Una leggenda, diffusasi non prima del '400 e ignota alle cronache precedenti, narra che l'Imperatore tedesco Enrico II (ca. 973-1024) fece catturare e deportare oltralpe alcuni nobili lombardi, carbonari ante litteram. Qui, convertiti, rinunciarono alle loro ricchezze e impararono dai maestri locali a lavorare la lana. L'Imperatore li convocò e disse loro: "Ora siete veramente umiliati". Difficile dire se vi sia un fondo di verità. La possibilità che l'arte di trattare i tessuti sia stata imparata nel nord Europa non è da scartare. Si è pensato inoltre che la storiella potesse tornare utile al momento in cui gli Umiliati avevano da trattare vendite di tessuti con la nobiltà e potevano così vantare (o millantare) una del pari nobile ascendenza.
La figura di S. Giovanni Oldrati, alla cui opera altri fanno risalire la nascita o la riforma degli Umiliati, è talmente asfissiata da elementi agiografici leggendari da far mettere talvolta in dubbio la sua reale esistenza.

Abbazia di Viboldone (San Giuliano Milanese): Madonna col Bambino
tra Sant'Ambrogio e San Giovanni Oldrati

Nel documento più antico giunto sino a noi riguardante l'ordine si afferma che gli Umiliati e le Umiliate, che abitavano la casa posta nella brera del Guercio a Milano, si liberano da una decima gravante sul loro possesso. Il documento porta la data del 7 novembre 1173, e la nascita degli Umiliati può essere anteriore al limite di qualche lustro. La storia di questo ordine nato in terra lombarda ha tratti comuni con i movimenti religiosi, più o meno ortodossi, che sorgevano allora come funghi. Il proposito degli Umiliati di vivere secondo i dettami della Chiesa primitiva senza possedere nulla personalmente, traendo i mezzi di sussistenza dal proprio lavoro e costituendo comunità di uomini e di donne che vivevano insieme in continenza, non aveva toni estremi(stici) che sconfinassero nell'aperta ostilità alla Chiesa. Tuttavia, furono scomunicati nel 1184 da Papa Lucio III, che li accomunò ad altri movimenti eretici. La scomunica durò fino al 1201, quando Innocenzo III li riabilitò e anzi ne approvò la regola.
L'Ordine si componeva di tre categorie: i chierici, che pur senza prendere i voti praticavano il celibato e vivevano in comunità, i laici (uomini e donne), che potevano sposarsi ma vivevano in comunità ed i laici (uomini e donne) che potevano vivere in casa propria. Fu dunque un ordine laicale, e il termine frati talvolta aggiunto è improprio.
Se è vero che gli Umiliati vivevano in povertà e solo del loro lavoro, è altrettanto vero che il lavoro in questione era decisamente remunerativo. L'Ordine non impiegò molto tempo a diventare una vera e propria industria. Dalla Lombardia si estese fino a Roma. I conventi - fabbriche raggiunsero, nel momento di maggior fulgore, il numero di 389, di cui 150 in Lombardia.


Sul ruolo e sull'importanza dell'ordine nell'evolversi dell'industria laniera nella città del Giglio i pareri sono discordi. Si era ipotizzato che l'Arte della Lana fiorentina fosse stata fondata dagli stessi Umiliati. In realtà esisteva già dagli inizi del '200, mentre - abbiamo visto - essi ebbero dal Vescovo Ardingo la chiesa e il convento di S. Donato a Torri (o in Polverosa) nel 1239. Lo storico Luigi Zanoni, in un ponderoso studio pubblicato nel 1911 e ristampato nel 1970, sostiene che quella degli Umiliati fu una grande e fiorente industria, la cui casa madre era nel nostro caso quella di S. Michele di Bergoglio (!) in Alessandria, che creò succursali ad Asti, Tortona, Genova e Firenze allo scopo di espandere la propria attività e i propri introiti, non diversamente da una catena di fabbriche o di negozi odierna. La strategia è riassunta da Zanoni: "Domandano un posticino fuori le mura, anche lontano dalla città, una chiesa abbandonata, anche diroccata, un ospedale. Una volta giunti sul posto, presto o tardi troveranno modo di entrare in città mediante oblazioni, prestiti, voti provocati durante pestilenze e guerre, e di collocarsi su un ampio sito."

A Firenze andò esattamente così. S. Donato era in netta decadenza, forse per un corrispondente decadimento di gestione nonché di costumi da parte degli Agostiniani che l'avevano occupato in precedenza. Sicuramente gli Umiliati sapevano fin dall'inizio che come location non era la più adatta, troppo lontana dalla città e da un corso d'acqua necessario per il trattamento della lana. Ma appena possibile acquisirono un oratorio in riva all'Arno e, nel 1251, ottennero dal Vescovo Giovanni de' Mangiadori la cappella di S. Lucia sul Prato, in permuta con S. Donato. Il possesso dell'oratorio risulta nel diploma vescovile, in cui si legge la concessione di S. Lucia "quae quidem continuata est et propinqua cum vestro Oratorio, et Ecclesia quam aedificare intenditis ad honorem Sanctorum Omnium". Ed ecco dunque anche l'impegno a costruire la futura Chiesa di Ognissanti, che -acquisiti terreni dal Comune e dalla famiglia Tornaquinci - probabilmente fu ultimata verso il 1260 insieme con il convento (Bargellini ipotizza una data di completamento più tarda, dopo il 1278). Gli Umiliati ottennero anche il diritto di sfruttamento delle acque dell'Arno, dal ponte alla Carraia alla confluenza (di allora) col Mugnone.


Ognissanti

Le notizie sugli anni seguenti sono contraddittorie. Da un lato lo storico Ferdinando Balazzi parla dell'acquisizione di sempre maggior prestigio da parte degli Umiliati, i quali esercitarono più volte gli uffici di camarlinghi del Comune. Dall'altro sappiamo che nel 1277 avevano ceduto del terreno in enfiteusi a un gruppo di uomini d'affari  perché vi costruissero un complesso laniero. Nel 1278 si dichiararono disposti a cedere altri terreni ove costruire case per gli artigiani, un porticciolo, la postierla sull'Arno, la gora e le Mulina. Evidentemente gli affari non erano andati espandendosi come sperato.

Gli Umiliati avevano sviluppato una tecnica chiamata ars drapporum meçalane, con cui produceva un tessuto appunto di mezza lana grossolano, di alta qualità, diverso da tutti e immediatamente identificabile, al punto che si parlava di panni humiliati o anche solo di humiliati, come una sorta di griffe. I primi capi firmati ante litteram? Difficile dare una risposta certa, ma sicuramente in questo furono dei pionieri.

Come ancora accade oggi, probabilmente gli Umiliati subirono i cambiamenti, spesso imprevedibili, dei gusti e delle mode. Vi si aggiunse magari lo sviluppo della concorrenza. Tutto ciò non fece venir meno la stima che Firenze continuò a portare a questo ordine religioso che lavorò onestamente e - salvo errore - non tradì la sua regola. Né può essere dimenticato il contributo indiretto dato dagli Umiliati all'arte. Giotto realizzò ben tre opere per la Chiesa di Ognissanti: il Crocifisso - oggi situato nel transetto sinistro -, la Dormitio Virginis e la Madonna di Ognissanti che, e non è un'esagerazione, cambiò la storia dell'arte sacra.

L'interno di Ognissanti

La decadenza vera e propria degli Umiliati iniziò con il XVI secolo. Nel 1561 nel Convento di Ognissanti i Frati Minori subentrarono agli Umiliati, i quali si trasferirono nel Monastero di S. Caterina, nell'odierna via omonima. Nel 1571, quando si erano creati notevoli contrasti tra la Chiesa e l'ordine entrato in sospetto di calvinismo, un Umiliato, a Milano, sparò all'Arcivescovo, il futuro San Carlo Borromeo. Non lo uccise. La repressione che ne seguì culminò con la soppressione dell'ordine da parte di Papa San Pio V.

sabato 1 luglio 2017

Nano Campeggi, o del Rinascimento a Hollywood



Conobbi Nano quando, il 21 giugno 2014, presso la Casa di Giotto a Vespignano gli fu consegnato il Premio Giotto e l'Angelico e venne inaugurata una sua mostra (ad essa sono relative le foto). Fu uno degli incontri più belli della mia vita, e non è retorica (che Nano detesta). Sull'evento scrissi per Il Galletto un articolo che uscì sul numero del 28 giugno e che ripropongo integralmente. Anche se vi sono molti riferimenti specifici alla giornata, il ritratto che cercai di realizzare del più grande autore di cartelloni di film hollywoodiani penso possa essere ancora valido.


TUTTI STRETTI INTORNO AL GRANDE 'NANO'
“Anno scorso ho avuto una grande festa in Palazzo Vecchio per i miei novant’anni, ma qui, ecco, direi che siamo davvero all’altezza!”. A queste parole di Silvano ‘Nano’ Campeggi è seguito un attimo di silenzio quasi imbarazzato.
Un elogio del genere non se lo aspettava nessuno. Non se lo aspettavano il gruppo dirigente (Giuliano Paladini, Marisa Cheli, Mauro Baroncini) né gli artisti dell’Associazione dalle Terre di Giotto e dell’Angelico che, sabato 21 giugno ’14, c’erano praticamente tutti, a Vespignano, per stringersi intorno al Signore dei Cartelloni Cinematografici in occasione della consegna di un più che meritato Premio Giotto e L’Angelico. Non se l’aspettava l’Amministrazione comunale di Vicchio, presente nelle persone del Sindaco Roberto Izzo, con fascia tricolore, e degli Assessori Carlotta Tai e Angelo Gamberi.

Né il Sindaco di S. Godenzo Alessandro Magni, i figuranti del Gruppo Storico Dante Ghibellino di San Godenzo, l’ex Assessore del Comune di Pontassieve Alessandro Sarti, il Consigliere regionale [oggi Presidente del Consiglio Regionale] Eugenio Giani (“Dietro i cartelloni di Nano c’è la storia della pittura italiana. Con Campeggi il genio del Rinascimento è entrato a Hollywood”), Tiziano Benvenuti della Pro Loco di Vicchio, la dott.ssa Giovanna Giusti, Polo Museale, Direttore dip. pittura dell'Ottocento, dip. dell'arte contemporanea e dip. degli arazzi agli Uffizi. Non se lo aspettava la gente che, nei locali della Casa di Giotto, si è incantata di fronte ai dipinti di Nano esposti per l’occasione, dopodiché ha affollato il retro della Casa di Giotto di fronte a un panorama che non smette(rà) mai di levare il fiato. Dopo i discorsi di saluto delle autorità sopra nominate (“I film americani ” è stato detto “restano nella storia per i divi che vi recitarono. Ma se ce li ricordiamo è a partire dai cartelloni. E i cartelloni li ha dipinti quasi tutti Nano”) e la consegna da parte del Sindaco del Premio Giotto e L’Angelico, rappresentato da una scultura appositamente realizzata da Mario Meoni, Nano ha preso la parola quasi riluttante, non certo per sussiego, al contrario per timidezza, direi.
Questo ragazzo di novantuno anni che studiò con Ardengo Soffici e Ottone Rosai, che ha conosciuto e chiacchierato praticamente con tutti i divi dell’età d’oro del cinema americano, che ha ricevuto il Fiorino d’oro nel 2000, che ha un autoritratto nella Galleria degli Autoritratti degli Uffizi, ha dimostrato ancora una volta di aver saputo restare sempre con i piedi ben calcati sulla terra, laddove quanti altri si sarebbero creduti onnipotenti. Senza per questo sminuire il valore suo e delle sue opere, che ha contrapposto a quelle di un tanto più blasonato Andy Warhol: “Lui pigliava e metteva un paio di ritocchini sulle fotografie, io le facevo da capo” ha detto.
Dopo i complimenti alla straordinaria moglie (e manager!), ha tenuto a ricordare la sua collaborazione, meno nota ma per lui non meno importante, con l’Arma dei Carabinieri, per i quali ha realizzato alcuni grandi dipinti di battaglie: “Essendoci da inserire tanti combattenti anonimi, gli mettevo i visi dei miei amici!”. Nano si è concesso poi volentieri alle telecamere sia di Toscana Tv (Fabrizio Borghini) sia di Tele Iride (Paola Leoni), alle chiacchiere, agli autografi e alle foto di chi gliele chiedeva. Un sontuoso rinfresco ha concluso una giornata di solstizio d’estate alla Casa di Giotto, in cui i tanti intervenuti hanno avuto l’impressione di una sintesi rara di solennità e di allegria, di protocollo e di normalità. Ho udito dire a una signora tra gli spettatori: “Nano non si è mai montato la testa. Tutti i grandi, quelli veri, sono così”.

Nano con la moglie Elena

Qui si chiudeva l'articolo. Da allora ho incontrato più volte Nano. Mi piace ricordare in particolare quando, il 16 settembre 2016, all'Hotel Michelangelo di Firenze, io e la mia amica Marilisa Cantini tenemmo un incontro - conferenza organizzato dall'Associazione culturale Imparalarte. L'argomento era Jan Vermeer, integrato da musiche olandesi coeve. Nano era tra i numerosi ascoltatori e, al termine, ci colmò di complimenti. E realizzò su due piedi nel libro delle presenze un disegno che rappresentava una sua stilizzazione della Ragazza dall'orecchino di perla.



Poscritto del 29 agosto 2018. Nano è partito per il suo ultimo viaggio. Sapere che non lo incontreremo più ci fa sentire veramente più poveri, e come mutilati di un qualcosa. La perdita di Nano è una perdita non colmabile. Non soltanto per noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo; non soltanto per chi, a tutti i livelli, ama la cultura, l'arte, la bellezza e magari nel suo piccolo si dà da fare per produrne un po', e rendere così il mondo un briciolo migliore; no, quella di Nano è una perdita non colmabile per tutte le persone di buona volontà, anche per chi non ne conosceva neanche il nome ma aveva visto i suoi cartelloni, anche per i più giovani che non hanno potuto vedere neanche quelli. Con la dipartita di Nano si chiude un'epoca. Alla signora Elena le condoglianze e la gratitudine di tutti.