giovedì 13 luglio 2017

GABBATO LO SANTO 8: la bella & buona Piccarda Donati


Dante Alighieri conosceva molto bene la famiglia Donati. Aveva sposato Gemma, cugina di Forese, col quale il Poeta si batté in una tenzone poetica giunta fino a noi, costituita da sei sonetti, tre per parte. Aveva sicuramente conosciuto molto bene anche la sorella di Forese, Piccarda. Nel Purgatorio, canto XXIV, Dante stesso ne chiede notizie al fratello. Che risponde:

La mia sorella, che tra bella e bona 
non so qual fosse più, triunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona.

Era una bellissima ragazza, Piccarda. Fra' Mariano di Ognissanti, in un manoscritto redatto nel 1555 citato dal Richa, la definì la più bella figliuola che in quel tempo fussi in Firenze. Ciò non poteva non inorgoglire i Donati. Ma, e questo li inorgogliva molto di meno, era anche una ragazza indipendente. Decideva per sé. E decise per sé di darsi in sposa a Gesù. Nonostante fosse stata promessa a un tale Rossellino della Tosa. A prometterla era stato un altro fratello: Corso Donati. La sua figura storica è abbastanza nota, e non per particolari qualità umane. Dino Compagni ne fece un ritratto al vetriolo: 

Un cavaliere della somiglianza di Catilina romano, ma più crudele di lui; gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, adorno di belli costumi, sottile d'ingegno, con l'animo sempre inteso a malfare.

Poco prima delle nozze, Piccarda fuggì di casa nottetempo. Approdò al convento delle Suore Clarisse di Monticelli fuori da Porta Romana. Era l'edificio fatto costruire dal Cardinale Ottaviano Ubaldini senza badare a spese, anche perché la superiora era all'epoca Chiara Ubaldini.
Michele Bongini, nel suo La Piccarda Donati: racconto storico fiorentino pubblicato nel 1861, descrive la vestizione - ma soprattutto la spoliazione - di Piccarda, che assumerà il nome di Costanza, fornendo un'idea più che vivida del livello sociale di cui faceva parte la famiglia Donati. Eccone un estratto.

La badessa, suor Chiara degli Ubaldini, cominciò col togliere dal capo a Piccarda, che le stava davanti in ginocchio, tutta vestita di bianco, le filze di perle e le trecciere di filo d'oro tempestate di smeraldi: le trasse di fronte una ricchissima coronella di fiori formata con diamanti, piropi, turchese, spinelli, agate diasprine, calcedonii brizzolati, [lapis]lazzuli, lumachelle, pergmatiti, ofioliti e molte altre preziosissime pietre e con queste messe in perfetto disegno [...] le tolse dalle orecchie i balasci insigni per gli aurei castoni e i lavori di filograna. Le trasse i monili dal collo, le armille dai polsi, e finalmente le scinse dai fianchi un vago scheggiale di tocca di argento, fulgido tutto e grave di diamanti e di gariandri.

La descrizione non si ferma qui, e prosegue con la tonsura dei capelli e la consegna dell'abito e di una candela accesa, lume di Cristo, vera luce del mondo.

Il ratto in un dipinto di Lorenzo Toncini (1802-1884)

Simone, padre di Corso, non la prese bene. Fece rientrare quest'ultimo da Bologna, ove era podestà. Entrambi si recarono al convento una prima volta per cercare di convincere Piccarda, ormai Costanza, a tornare sui suoi passi, prima con le buone, poi con le minacce, ricavandone un - diremmo oggi - cortese ma netto rifiuto. Il fratello reclutò uno ladro scelerato chiamato Farinata e dodici compagni altrettanto poco raccomandabili. Dopo un primo tentativo infruttuoso - il convento era quasi come una fortezza - la notte prima della festa di S. Melchiade Papa, il 9 dicembre, con scale di seta irruppero nel convento pieni di furore come diavoli scatenati e strapparono letteralmente a viva forza Piccarda dalle mani delle altre monache (in apertura la scena in un dipinto di Raffaello Sorbi, 1844-1931). La legarono, la condussero a casa e la rivestirono di abiti secolari. Le nozze furono celebrate ugualmente a forza. 

Suor Costanza pregò intensamente il suo vero sposo Gesù affinché l'aiutasse a conservare per lui la castità, e gli chiese di renderla repellente procurandole piaghe, pustole, corruptione et vermini e tutto quanto rendesse impossibile il solo avvicinarla. Gesù l'accontentò. La fece ammalare in modo raccapricciante e, dopo otto giorni di agonia durante i quali non c'era versi nemmeno di entrare nella stanza dal fetore, volò in cielo e si ricongiunse al suo vero sposo.

Fra' Mariano narra anche come in un poscritto il pentimento di Corso Donati: 

Vedendo questi segni messer Corso fratello di Picharda, che di tanto male era stato lo autore, fu tucto compunto, et per non incorrere nel sudicio divino, venne uno giorno solemne alla Chiesa di Sancta Maria di Monticagli et spogliato di tucti e’ vestimenti colla cintura al collo, dinanzi a’ frati et alle suore et grande moltitudine di populo, salito in sul pulpito dixe la sua colpa et fu per autorità del Papa absoluto della scomunica, et ricevette la condegna penitentia per tanto peccato, et ancora hebbe per divino judicio molte tribulatione come fu manifesto a tucta la Ciptà, perché venendo in sospecto del populo, gli fu messa la casa a saccho, et lui fuggendo la furia del populo uscì fuori della Ciptà per la porta della croce et loro correndogli drieto, lo uccisono nel mezo della strada.

La morte di Corso Donati in una miniatura illustrante le Croniche del Villani

La storia, con poche varianti, è narrata da parecchi agiografi, da Rodolfo da Tossignano nella Historia Seraphica (non dimentichiamo che le suore erano dell'Ordine delle Clarisse, fondato da Santa Chiara, e Monticelli ne fu il primo convento dopo quello di San Damiano) a Silvano Razzi nel secondo volume delle Vite dei Santi e Beati Toscani, a Giuseppe Maria Brocchi nel secondo volume delle Vite dei Santi e Beati Fiorentini. Quest'ultimo, inspiegabilmente, si perde in una confutazione, lunga e pesante, dell'ipotesi da taluni avanzata che Piccarda fosse morta intorno al 1320. Quando bastava scrivere: impossibile, già nel 1300 Dante l'aveva collocata in Paradiso. La vicenda si svolse invece probabilmente nel 1288, quando appunto Corso Donati era podestà a Bologna. L'uccisione di Corso avvenne nel 1308. La data del pentimento non è chiara.


Gustave Dorè: Dante incontra Piccarda
Ma Dante, nel III Canto del Paradiso, smentisce implicitamente l'ultima parte della storia di Piccarda, quella splatter. Se ciò che riguarda il ratto e il matrimonio forzato ha fondamento storico e all'epoca fu per i fiorentini un bell'argomento di discussione e di gossip, la malattia orribile di Piccarda è un'invenzione posticcia risalente ai secoli seguenti. Fubini, nell'Enciclopedia dantesca, ne fa una lunga e luminosa dissertazione. Sarà sufficiente qui un breve riassunto.
Dante così fa parlare Piccarda (la giovinetta, naturalmente, è Santa Chiara):

Io fui nel mondo Vergine sorella,
e se la mente tua ben mi riguarda, 
non mi ti celerà l'esser più bella. 
Ma riconoscerai ch'io son Piccarda,
che posta qui con questi altri beati, 
beata son nella spera più tarda.
(...)
Dal mondo per seguir la giovinetta
fuggimmi e nel suo abito mi chiusi, 
e promisi la via della sua setta.
Huomini poi, a mal più ch'a ben usi, 
fuor mi rapiron della dolce chiostra. 
Dio lo sa, qual poi mia vita fusi. 

Dante colloca Piccarda nella spera più tarda: la sfera più bassa, che accoglie coloro che in vita, contro la loro volontà, non poterono adempiere un voto. Sono beati lo stesso perché fanno la volontà di Dio. Ma se fosse stata vera la storia del corpo putrescente, maleodorante e quant'altro, Piccarda non sarebbe stata sfiorata da Rossellino e avrebbe adempiuto il voto di castità formulato presso il convento. L'ultimo verso qui citato, poi, fa comprendere che la sua vita durò forse non molto, ma certo più degli otto giorni narrati.

La parte leggendaria della storia di Piccarda, ad ogni modo, le valse l'inserimento nel Martirologio francescano, alla data del 17 dicembre, con le parole B. Constantiae Virginis. La sua salma viene rammentata, senza precisarne l'ubicazione, tra i corpi santi elencati da Fedele Onofri nel suo Sommario historico la cui prima edizione risale al 1631.





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