giovedì 29 dicembre 2016

E come vide Siena in Montaperti,


nel prendere le palle siamo esperti! Lo cantava Riccardo Marasco in Palle in costume (1990). Si torna a parlare di Montaperti grazie a un libro appena pubblicato dal mio amico Fabrizio Scheggi. S'intitola Il Mugello nel libro di Montaperti. 
Probabilmente la storia la conoscete. Tra le conseguenze della battaglia che il 4 settembre 1260 oppose fiorentini e senesi con la vittoria totale di questi ultimi, ci fu il sequestro come preda di guerra di un corposo fascicolo di fogli pieni di nomi e numeri. Fascicolo di cui per secoli non si comprese il valore. Dopo essere rimasto a Siena per 300 anni, tornò a Firenze nel 1570. Solo nella seconda metà dell'800 lo storico e archivista Cesare Paoli,  cui tutti dovremmo essere grati, lo esaminò, ricompose, riordinò, fino a trascriverlo e farlo stampare dal Gabinetto Viesseux nel 1889. Oggi è scaricabile su Internet e ha avuto una ristampa anastatica nel 2004.
Il Libro di Montaperti non è un volume poetico. È quanto di più prosaico si possa immaginare. È una serie di registri. Elenchi su elenchi, nomi, luoghi. E poi leggi, emanazioni, regolamenti. Ma è anche quasi un elenco telefonico di Firenze & Contado anno 1260, con in omaggio i modelli Unico, 740 e/o 730 di tutti i suoi abitanti, già compilati. Renato Stopani ne analizzò alcune parti in Il contado fiorentino nella seconda metà del dugento (Salimbeni 1979). Scrive Stopani:

Il Libro di Montaperti (...) consta di vari registri, quaderni e carte che servirono ai diversi uffici militari e amministrativi dell'esercito fiorentino nel 1260, in occasione della guerra contro Siena. (...) Alcune parti del libro riguardano in particolare i popoli ed i comuni del contado e costituiscono un documento prezioso, non solo per la determinazione topografica, politica ed ecclesiastica del territorio fiorentino, ma anche per una valutazione comparativa del potenziale economico dei vari popoli. Specialmente due registri ci permettono di delineare l'amministrazione del contado nell'anno 1260: si tratta di una lista che enumera i nomi dei fornitori di pane all'esercito fiorentino, e di un altro elenco nel quale sono registrate le parrocchie rurali e le quantità di grano che ciascuna di esse doveva fornire per l'approvvigionamento di Montalcino assediata dai senesi.

L'analisi che oggi compie Fabrizio Scheggi è diversa da quella compiuta da Stopani (per chiarire: non si fanno concorrenza, peraltro a trentasette anni di distanza), ed è concentrata sulla regione mugellana. Non c'è da sorprendersene: Fabrizio è nato sulla Bolognese, ha abitato per 15 anni a Pietramala (Firenzuola) e adesso vive a S. Maria a Vezzano (Vicchio). La sua mamma nacque a Ripafratta (Le Ville, Borgo S. Lorenzo), il babbo a Marzano, sopra Grezzano (sempre Borgo S. Lorenzo). Suo figlio lavora a S. Piero a Sieve; uno zio, oggi felicemente in pensione, ha fatto per anni il guardiacaccia presso Villa Le Maschere (Barberino).

Fabrizio Scheggi
Appassionato da sempre di storia del Mugello a tutti i livelli, ha già pubblicato diversi libri, tra cui spicca il bel romanzo biografico (o biografia romanzata?) La panacea nella pigola (Noferini 2011). Per la realizzazione del Mugello nel libro di Montaperti è stato necessario un lungo lavoro, i cui risultati sono non di rado sorprendenti ed inediti. Non voglio ovviamente anticipare il piacere della lettura, anche se non è un giallo, ma mi limito a sottolineare un esempio tra i non pochi che ho trovato degni di nota. Fabrizio ha fatto emergere dall'esame (oculato) del testo originale la presenza di roccaforti che andavano a formare una sorta di cintura alla base degli Appennini, da Barberino a Vicchio (che non c'era ancora). Ma diverse di queste postazioni sono state del tutto cancellate, probabilmente non da assalti nemici, bensì da un inarrestabile oblio. Fabrizio ha faticato non poco per riuscire a localizzarle. I loro nomi non compaiono, non solo su testi sacri come il Dizionario geografico storico della Toscana di Emanuele Repetti, pubblicato dal 1833 in poi, ma neanche su testi recenti come il minuziosissimo Forme e strutture del popolamento nel contado fiorentino di Paolo Pirillo (Olschki 2008). Un buon esempio è Capaccio, a nordovest di Vicchio. Nel 1260 doveva costituire una postazione fortificata di importanza strategica non indifferente. Il toponimo è miracolosamente sopravvissuto, ma adesso sta a indicare un unico casolare su un'altura.

La località Capaccio
Ciò che ne consegue è la constatazione del destino imprevedibile subìto nel corso del tempo da luoghi, località, agglomerati, interi paesi. Castelli imponenti, ben presidiati e forse inespugnabili dalle truppe nemiche, furono poi espugnati da una sopraggiunta incuria, causata  da chissà quali cambi di strategie, o da disinteresse, o da mancanza di soldi. Seppelliti. Dimenticati. Laddove gruppi di due o tre case venivano a espandersi per formare comuni(tà) che, quale più quale meno, crescevano sempre più di dimensioni e di rilevanza economica, sociale, strategica. Fino ad oggi? Dipende. Se un'epidemia o una scorribanda o una carestia ne falcidiava gli abitanti, o se a breve distanza veniva fondata una terranova, costruito un ponte, deviata la strada, tutto era rimesso in discussione. Fabrizio elenca a un certo punto tutte le località mugellane rammentate nell'Archivio viatorio, in stretto ordine alfabetico. Hai voglia a essere un grande conoscitore di storia locale. La maggior parte di questi nomi risultano del tutto sconosciuti. Dov'era Rascio? Dov'era Saletta? E Carmignano (non c'entra con il comune pratese)?
Buona lettura. Il Mugello nel libro di Montaperti è al momento disponibile nelle librerie mugellane, e presto - mi si assicura - potrà essere ordinato sul web. Chiedete di più al mio amico Francesco Noferini

sabato 24 dicembre 2016

Buon Natale!


Quando gli uomini vivevano con la natura, nel tempo dell'anno che il Sole ritornava a salire nel cielo, sentivano di dover festeggiare il grande avvenimento adornando un abete nella foresta e, nella radura luminosa, con danze e canti si rallegravano nel cuore. Poi, dal Paese dove il mare non gelava mai, un giorno arrivarono alcuni uomini ad annunciare la grande novella: era nato Uno che portava la luce. La luce dentro di noi, non fuori di noi. Così per festeggiare quest'Uomo unirono la sua nascita alla festa del Sole.
(Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Einaudi 1991)

giovedì 22 dicembre 2016

GABBATO LO SANTO 1. Barduccio Barducci

Ce ne sono parecchi. Molti più di quanto si pensi. Avevano condotto una vita, per l'appunto, santa, ed erano stati dei punti di riferimento per lo più in quelle che oggi chiameremmo singole realtà territoriali. Canonizzati quando ancora il procedimento era relativamente semplice e bastava il parere di un sinodo o addirittura di un solo vescovo, senza trafile, processi e proclamazioni in Piazza San Pietro. Canonizzati dunque, o anche solo beatificati, a furor di popolo. Poi, all'entusiasmo dei primi anni post mortem, faceva magari seguito uno scemare della devozione, in parte arginato dalla presenza di reliquie, se c'erano. Se non c'erano, l'oblio scendeva implacabile come il tempo. Restavano, e spesso restano tuttora, riferimenti su vecchi testi, nomi di qualche località, piccole frazioni di paese, qualche edificio sacro: oratori, chiese, non di rado anche pievi.


Giuseppe Maria Brocchi realizzò, a partire dal 1742, le sue ponderose Vite de' Santi e Beati fiorentini in tre volumi. Il secondo e il terzo sono dedicati a Quei Santi e Beati che hanno ab immemorabili il pubblico culto alle loro reliquie ed immagini quantunque di Essi non si faccia memoria nel Martirologio Romano e non se ne celebri la Festa con Messa ed Ufizio. Superano il centinaio. E son solo quelli fiorentini!
Barduccio Barducci, che non è nemmeno chiaro se fosse stato canonizzato, è apparentemente uno dei più sfortunati. Forse per questo mi è rimasto simpatico. Racconterò di altri, in futuro, ma parto da lui. Apparteneva a una famiglia benestante fiorentina che abitava nel quartiere di S. Spirito. Le notizie su di lui sono scarne. Giovanni Villani lo rammenta in un passo delle Croniche. Eccolo.


Sul suo amico e compagno di imprese di carità Giovanni da Vespignano le notizie sono (ma di poco) più ampie, anche perché le sue reliquie sono giunte fino a noi. Ma la Chiesa di S. Spirito de' Padri Eremitani di S. Agostino, dove Barduccio fu sepolto, andò a fuoco il 21 marzo 1470, e della sua salma non rimase traccia. Non rimase traccia neanche del suo operato miracolistico in vita o in morte. Per lui non ci fu scampo. Cadde nel dimenticatoio.
Non ci fosse stato il passo del Villani, non sarei neanche qui a scriverne. Ma c'era, e non si poteva prescinderne. Storici e agiografi ebbero problemi non indifferenti. Silvano Razzi, nelle sue Vite de' Santi e Beati toscani (1593), poté basarsi solo su un manoscritto del Monastero di S. Pier Maggiore, relativo più che altro a Giovanni, in cui è riferito che Barduccio sarebbe venuto a mancare all'età, decrepita per l'epoca, di 96 anni.
Domenico Maria Manni faticò anch'egli non poco per trovare qualche notizia in più su Barduccio. Citò le parole di un contemporaneo, Simone della Tosa (ca. 1300-1380), il quale aveva scritto di "S. Varduccio; che stava di casa oltrarno; e che alla sua morte concorse a vederlo a S. Spirito tutta la città". Personaggio celebre e stimato, dunque. Vi era poi un calendario antico che poneva sotto l'ottava di Pasqua di Resurrezione il Beato Barduccio, ed è la festa a a Santo Spirito. Sempre citate da Manni le parole di Franco Sacchetti. Nella novella n. 157 scrive:

"E così avviene oggi nel mondo, che li signori e gli altri viventi sono sì vaghi di cose nuove che se elli postessono, muterìano la signoria del cielo, come spesso mutano quella delle terre. Abbiamo li santi canonizzati e cerchiamo di quelli che non sappiamo se sono. Abbiamo il nostro Signore Jesu Cristo, la sua Madre, gli Apostoli e gli altri maggiori del Paradiso, e andremo dietro a san Barduccio." 

Parole per nulla lusinghiere, certo. In realtà, Sacchetti poneva un problema che davvero esisteva all'epoca (fine '300): la proliferazione di culti locali che i fedeli sentivano come più vicini e concreti, a scapito però di quelli universali della cristianità. La Chiesa stava già correndo ai ripari, anche per  riaffermare la propria centralità, promuovendo processi di canonizzazione più complessi e severi da un lato, istituendo la figura intermedia del beato dall'altro, in modo da non scontentare i fedeli. A rimetterci è il nostro Barduccio, che qui è usato come esempio di santo da quattro soldi, ultimo arrivato.
Eppure...
Eppure, secondo una interpretazione che peraltro non ebbe seguito, Barduccio, insieme con l'amico Giovanni, ebbe una velata citazione da parte di Dante. Sempre Manni riporta che "di ambedue [l'altro è Giovanni] intendeva a prova il celebre Magliabechi, che avesse parlato Dante nel Canto VI dell'Inferno, quando per la domanda da lui fatta a Ciacco se in Firenze v'era alcun uomo giusto, gli fu risposto: 


Giusti son due, ma non vi sono intesi;

cioè sono incogniti ai popolari". 
Sul celebre verso 73 ci sono state varie interpretazioni, e nessuna accettata unanimemente. Dante si riferiva a qualcuno in particolare? O parlava in senso generico, come dire che di giusti ce ne sarà un paio sì e no? Non è chiaro. Brocchi nota che l'aggettivo giusti è lo stesso usato da Giovanni Villani. All'epoca in cui si svolgono i fatti della Comedia i due benefattori laici dovevano essere in piena attività, e Dante sicuramente li conobbe. La certezza che Magliabechi avesse ragione e che i due giusti fossero davvero Giovanni e Barduccio non si può avere. Ma riconosco che mi piace crederlo.  

lunedì 19 dicembre 2016

Pietro Nelli da Rabatta, dopo l'oblio



Il pittore Pietro Nelli da Rabatta non fu forse un grande innovatore. Fu discepolo – alla lontana - di Giotto, subì l'influenza di Bernardo Daddi e lavorò come un bravo professionista che seppe non solo farsi apprezzare, ma anche far fruttare abbondantemente la sua abilità. Guadagnò senza dubbio cifre ragguardevoli. Fece sposare la figlia a un notaio con cinquecento fiorini di dote, che non erano bruscolini. 
Dopo la morte, però, fu dimenticato del tutto. Capitò anche a Vivaldi. Non compare nelle Vite del Vasari. Il Baldinucci, nel XVII secolo, nelle sue sterminate ‘notizie de’ professori del disegno dal Cimabue in poi’, lo ignorò. Solo nel 1872 Gaetano Milanesi pubblicò una ricevuta di pagamento per la parte superiore di una tavola (foto d'apertura) raffigurante la Beata Vergine con angeli apostoli e santi, custodita allora nella sacrestia della Pieve di S. Maria all’Impruneta e oggi - con vistose ferite causate dall'ultima guerra - sull'altar maggiore. La ricevuta era firmata piero di nello.

S. Caterina d'Alessandria.
Museo di Maastricht
Milanesi ne fece tornare alla luce la figura, pur basandosi su pochi elementi biografici. Scrisse in una breve monografia: “Pietro di Nello o Nelli fu da Rabatta, villaggio presso Borgo San Lorenzo di Mugello, e nacque intorno al 1345. Si matricolò tra i pittori all’Arte de’ Medici e Speziali ai 28 di aprile del 1382, abitando allora in Firenze nel popolo di San Pier Maggiore; e nel 1411 fu scritto alla Compagnia de’ Pittori fiorentini, essendo del popolo di Santa Maria Alberighi.”. Ad ogni modo non dovette perdere i contatti con la terra d’origine, dato che sposò la figlia di uno stovigliaio di Rabatta, dalla quale ebbe a sua volta la figlia di cui abbiamo detto. Possedeva sempre a Rabatta un podere che, non avendo figli maschi, donò alla Compagnia del Bigallo.
La maggioranza delle sue opere era, allo stato delle conoscenze del Milanesi, andata perduta. Lino Chini, nel 1875, citò quasi per intero lo scritto del Milanesi in una rara “Vita di Giotto” (messami gentilmente a disposizione da Aldo Giovannini) e nella sua Storia del Mugello. Niccolai, nella sua Guida del Mugello (1914), riportò: “Soavità celestiale ispirò alle sue figure Piero Nelli da Rabatta (1345-1416), che aveva dipinto per la Chiesa di Santa Maria a Cardetole e per i Frati di San Francesco del Borgo San Lorenzo”. In realtà morì nel 1419, come affermato da Milanesi e confermato da Marco Pinelli in una nota del 1994 su Il Filo.
La riscoperta di Pietro Nelli è andata avanti in epoca recente, e Carlo Celso Calzolai, nel 1974, lo definì ‘il primo fra tutti gli artisti mugellani’. Evidentemente considerava Giotto e l’Angelico come fuori concorso. A Pietro sono ora attribuite numerose opere: ne sono esempi alcuni affreschi di Santi in San Miniato a Firenze (nelle guide degli anni 30 risultavano di autore ignoto).

Gli affreschi di San Miniato

Il tabernacolo ora a S. Maria Mater Dei al Lippi.
Sempre a Firenze l’affresco, precedentemente attribuito a Paolo Uccello, del tabernacolo di Lippi e Macia, e ora nella chiesa di S. Maria Mater Dei al Lippi. All’Impruneta, il polittico Madonna con bambino e Apostoli di cui parlava il Milanesi. Alcuni affreschi nella chiesa di S. Pietro in Palco. Una delicatissima Annunciazione e un Cristo in Pietà nella Pieve di San Pietro a Ripoli.

Cristo in Pietà, Pieve di S. Pietro a Ripoli

A Bagno a Ripoli contribuì agli affreschi nella scarsella dell’Oratorio di Santa Caterina, in collaborazione col Maestro di Barberino. In seguito, Spinello Aretino decorò la seconda navata con uno dei più straordinari cicli affrescati mostranti la storia della titolare dell'Oratorio. Dimenticato dalla storia come Pietro Nelli, anche l’Oratorio andò incontro a un degrado che pareva inarrestabile, al punto che all’inizio degli anni 80 del secolo scorso era adibito a pollaio e fienile. Al termine di un lungo, meticoloso restauro, dal 1998 è stato restituito alla meritata ammirazione del pubblico nonché alle attività culturali (è sede di mostre, concerti, convegni), e ai matrimoni di lusso.

Disputa di Caterina coi filosofi, oratorio S. Caterina, Bagno a Ripoli
Resta poco, invece, del lavoro di Pietro Nelli in patria: del trittico affrescato nella Chiesa di S. Francesco a Borgo S. Lorenzo fu in passato sacrificata la parte destra, e anche per la rimanente i lavori di restauro, pur ammirevoli, non hanno avuto del tutto ragione dei danni causati dal tempo e dall'incuria dei secoli scorsi. Secondo Niccolai era stato realizzato nel 1382 per monna Niccolosa del Maestro Lodovico. "Vi aveva esso pure", continua Niccolai, "per dodici fiorini d'oro, affrescato un'altra parete, come rilevasi anche da un'iscrizione consunta: Petrus Nelli hoc opus fecit". Di quest'ultima opera, purtroppo, come dell'iscrizione, non è rimasta traccia.

L'affresco nella Chiesa di S. Francesco a Borgo S. Lorenzo

mercoledì 7 dicembre 2016

Filippo Benci


Filippo Benci è fiorentino. Si comprende già dal cognome. Sua mamma poi si chiamava Pucci. Vive a Campi Bisenzio, ma, precisa quasi con orgoglio, è la prima casa oltre il confine con il Comune di Firenze in Via Pistoiese.
Classe 1944, è pittore autodidatta.
Il suo arrivo alla Casa di Giotto, relativamente recente, ha portato nuova linfa al lavoro e alla ricerca degli artisti che gravitano intorno all'Associazione Giotto e l'Angelico. Susi La Rosa ha sempre riconosciuto, o meglio rivendicato l'importanza dell'incontro con lui per lo sviluppo del suo percorso.

Locandina della prima mostra
Quanto al percorso di Filippo, parte da lontano. La sua prima mostra risale al 1964, e si tenne in Palazzo Medici Riccardi. Al momento in cui scrivo sono state appena inaugurate due collettive cui ha partecipato: una al Palazzo Ghibellino di Empoli, l'altra ancora a Vespignano. Nel mezzo, un'attività a volte interrotta da ragioni contingenti, come capita a molti artisti, ma poi sempre ripresa nel punto esatto in cui si era fermata, e che evolve da un figurativo quasi astratto per risolversi decisamente verso l'astratto.

Un'opera del primo periodo

Lo si comprese bene in occasione della sua personale tenuta sempre a Vespignano nel maggio 2015, quando feci la sua conoscenza. Filippo fece collocare al piano terra le opere figurative giovanili, e al primo piano quelle più recenti. Appariva inconfutabile che queste ultime erano il frutto di un lungo maturare attraverso lunghe riflessioni dubbi correzioni ripensamenti. E che il salto di espressività era apparente.

Vespignano, 2015

Scrissi allora: "Le realizzazioni degli ultimi anni, ricche di crepe, infiltrazioni, graffiti, spaccature della materia come dell'animo, rimandano a quesiti posti dalla storia agli abitanti del XXI secolo e non ancora risolti, e sono accompagnate da didascalie a volte fondamentali (es. una citazione di Primo Levi)".

Con Fabrizio Borghini
"Nella sua pittura" si legge sulla pagina a lui dedicata sul Catalogo degli Artisti del Mugello curato da Mauro Baroncini e Lucia Raveggi "l'uomo è assente figurativamente eppure nello spazio dei suoi dipinti si apre un mondo pieno di colori, segni, stratificazioni e corrugamenti materici, che trattengono, come impronte simboliche nella loro sintesi estrema, le tracce del suo passato nel tempo".

Je suis Julia - 2011 - contro la violenza sulle donne
Per il prossimo anno, due ulteriori esposizioni di primo livello attendono Filippo Benci. Una al Palazzo dei Congressi di Casole d'Elsa, dove a partire da fine giugno sarà presente con i colleghi Susi La Rosa, Sergio Turi e Silvano Silvani. L'altra sarà una personale particolarmente impegnativa che si inaugurerà il 5 giugno, in un luogo dal fascino straordinario: lo scriptorium dell'Abbazia di San Galgano.  Dice sarà la sua ultima mostra, ma naturalmente nessuno gli crede. Ad ogni modo Filippo vi sta già lavorando, e mi ha inviato in anteprima l'opera qui sotto. Ancora una volta, più che eloquente il titolo: Bomba d'amore. 




sabato 3 dicembre 2016

Fiume di parole accese: Ivo Guasti

Mi giunge, graditissimo, l'ultimo libro di poesie di Ivo Guasti, dal titolo Altrove (ed. Polistampa, presentazione di Alessandro Borsotti).
Conobbi Ivo (Barberino di Mugello, classe 1933) a Borgo S. Lorenzo nel novembre 2011. Per iniziativa dello scrittore Tebaldo Lorini e dell'attore Marco Paoli, suoi grandi amici, era stato allestito in Villa Pecori uno spettacolo dedicato alle sue poesie: ne aveva già pubblicate allora una trentina di raccolte. I suoi brani erano interpolati da citazioni di suoi illustri colleghi. Brecht, Neruda, Pavese, Garcia Lorca, Raphael Alberti, Edgar Lee Masters. E ad ognuno di essi si riallacciavano i (con)seguenti versi di Ivo. Fu un grande successo.

Da sin. Tebaldo Lorini, Ivo Guasti, Marco Paoli
Ivo ha proseguito la sua produzione poetica, cui è venuta ad aggiungersi, nel 2015, una corposa autobiografia intitolata Finché dura il tempo (Polistampa), scritta in collaborazione & conversazione con Alessandro Borsotti. Scrissi allora: "Guasti racconta le sue vicende personali e familiari in un paese del Mugello che cambia (im)percettibilmente lungo i giorni, i mesi, gli anni; della sua lunga militanza in un Partito Comunista in cui le discussioni e i dissensi erano più numerosi di quanto non si potesse pensare, anche se nessuno allora si sognava di fare sgambetti ai compagni. I suoi incontri (faccio un solo nome: Umberto Terracini) e le sue amicizie (...) Racconta del suo lavoro in Provincia, degli eventi culturali da lui organizzati e conseguentemente della quantità sbalorditiva di personalità da lui conosciute. Anche qui mi limito a nominare Rafael Alberti, la cui influenza sull’attività poetica di Ivo sarà determinante.". Insomma, viene tratteggiata la base umana e culturale da cui origina il rapporto privilegiato di Ivo con le parole (concetto da precisare, come vedremo).
Nel 2015 uscì Scrivere il tempo, edito da Le mimose, illustrato o meglio integrato dalle immagini di sculture di Adriano Bimbi. Lo recensii concludendo che faceva restare col desiderio che presto arrivasse una nuova raccolta di versi di Ivo Guasti. Ed ecco Altrove.
Le dimensioni ridotte del volume mi hanno portato d'istinto a paragonarlo a un bonsai. Non mi sbagliavo. Sfogliandolo, ci si accorge che le quarantanove poesie che si susseguono sono sì di radice inequivocabilmente occidentale, ma si avvicinano, spesso per brevità, spesso per temi, sempre per sensibilità, agli haiku giapponesi. Ne copio una.

alla fine del giorno 
qualcosa rimane
la luna
che canta di luce

Il titolo del post è un altro suo verso. Ancora più essenziale, ancora più scavata, più limata, più smussata, la poetica di Ivo Guasti risulta sconcertante per la capacità di dare nuova linfa vitale a parole abusatissime. Non so se qualcuno ricorda una bella serie di Caroselli, sì: Caroselli degli anni '70, in cui Anna Maria Guarnieri spiegava e soprattutto dimostrava da par suo che "anche la parola più banale, più logorata dall'uso (addio, no, stasera, dimmelo) può esprimere un'emozione, un sentimento, uno stato d'animo". Guasti si muove in modo sovrapponibile. Ci fa comprendere, una volta di più con Altrove, che la poesia non è nelle parole, ma nel rapporto tra le parole. 
Buona lettura!


sabato 26 novembre 2016

Tra Luco, Vallombrosa e Salisburgo. Donato Mascagni


Questo Crocifisso tra S. Sebastiano e S. Ansano si trova nella chiesa parrocchiale di S. Pietro a Luco di Mugello. Quando, nel 1989, fu restaurato, ne emerse la firma: Donato Mascagni. Maria Matilde Simari, allora funzionaria di zona della Soprintendenza, non credeva ai suoi occhi. Succede spesso che non si trovino dipinti citati dalle fonti, quasi mai che si trovino dipinti non citati dalle fonti. E del Crocifisso non parla proprio nessuno, fra gli storici che hanno narrato la vita di questo artista che divenne frate dei Servi di Maria e fu chiamato a lavorare a Salisburgo e a Valladolid.

C'è stata finora incertezza sulla data di nascita di Donato. Il 1579, come sostenuto da Filippo Baldinucci, è stato valutato troppo avanzato per accordarsi con altri documenti. Penso di avere risolto rinvenendo il certificato di battesimo fiorentino di Donato di Matteo datato 21 agosto 1571. Jacopo Ligozzi pittore universalissimo fu il suo maestro. Nel 1605 entrò nel Sacro Eremo di Monte Senario e l'anno seguente fece professione come Frate servita assumendo il nome di Arsenio. La sua attività pittorica era comunque già iniziata da tempo, e il Crocifisso di Luco appartiene a questo primo periodo (si ipotizza il 1600 circa), dato che è firmato ancora con il nome secolare di Donato. Si era immatricolato all'Accademia del Disegno nel 1593 e aveva lavorato in particolare a Volterra. Sue opere sono nel Palazzo dei Priori e nella Pinacoteca civica.

Montesenario
Anche dopo aver preso i voti, Donato ora Fra' Arsenio continuò intensamente l'attività pittorica. Ma era di costituzione troppo debole per sopportare il rigido clima che dominava il Monastero di Montesenario e, per di più, essendo deceduto il fratello maggiore Bartolommeo (muratore "così eccellente che piuttosto passava per architetto" scrive Filippo Baldinucci), doveva correre in aiuto economico della famiglia. Gli fu concesso di trasferirsi nella SS. Annunziata a Firenze. Due lunette del chiostro sono sue: la miracolosa pittura del Volto della SS. Annunziata nel 1252 e il Beato Bonfiglio Monaldi getta la prima pietra della chiesa il 17 marzo 1250. Il convento rimase la sua base di riferimento, ma, anche grazie alle commissioni procurategli dai Serviti impegnati nell'evangelizzazione, il frate si assentò di frequente: oltre che nelle vicinanze, fu chiamato nel 1609 a Innsbruck, e l'anno seguente a Valladolid per decorare il Convento de las Descalzas Reales. Seguì, a partire già dal 1614, il lungo soggiorno a Salisburgo, intervallato da temporanei ritorni in sede, diremmo oggi. Decorò alcune sale del Castello di Hellbrun, su commissione del Principe Arcivescovo Sittikus. Purtroppo sul web non è facile trovare immagini dei suggestivi effetti tra il prospettico e il trompe l'oeil creati da Arsenio. Questa è una delle poche.


Altrettanto difficile reperire immagini ravvicinate dell'altra grande opera realizzata da Mascagni, in collaborazione col suo allievo Ignazio Solari: il Duomo di Salisburgo.

Incaricato stavolta dall'Arcivescovo Lodrone, il frate vi lavorò dal 1622 al 1630. Affrescò in pratica tutta la parte alta dell'edificio, con storie del Vecchio e del Nuovo Testamento, ponendo particolare attenzione alla visione dal basso; e dipinse alcune pale d'altare. Tra queste, ecco la Ascensione. Rappresentazione a dire il vero forse un po' leziosa per i nostri gusti di abitanti del XXI secolo. Ma soddisfaceva quelli dell'epoca. Se comunque volete ammirare quello che veramente si può considerare il dipinto più significativo - per non dire il capolavoro assoluto - di Arsenio Mascagni, sorprendente ancora oggi, non occorre raggiungere l'Austria. Potete recarvi alla Biblioteca dell'Abbazia di Vallombrosa. Qui si trova una tela di dimensioni gigantesche, che mostra La donazione delle terre di Matilde di Canossa a S. Bernardo degli Uberti.


 
 
Ebbi occasione di fotografarla nel 2012. La qualità delle foto non è altissima, ma penso dia un'idea del perché l'Abate Luigi Lanzi, nella sua Storia pittorica della Italia (1808) scrisse che questo dipinto, ad Arsenio, "gli fa onor grandissimo". Oltre a rendere la Biblioteca un luogo indimenticabile. L'Autore lavorò alla tela oltre un anno, fra il 1608 e il 1609. Sì: siamo tornati per un momento indietro nel tempo. Riandiamo al suo soggiorno a Salisburgo, che gli fruttò numerose commissioni anche nei dintorni (Trento, Villa Nogarina). Mascagni vi rimase fino al 1632, anno in cui fece definitivamente ritorno al Convento della SS. Annunziata. Tornò a lavorare per i Frati anche se la lunga assenza lo aveva fatto dimenticare, diciamo così, dal grande pubblico. Secondo Padre Eugenio M. Casalini l'entrata del Convento, sulla sinistra della Chiesa, è comunque stata disegnata e costruita da Frate Arsenio, e risale al 1636. 
Filippo Baldinucci attribuisce all'asma la morte di Arsenio Mascagni avvenuta nel 1637.  

martedì 22 novembre 2016

23 novembre: Fibonacci's day!

Oggi tutto il mondo celebra la figura di Leonardo Fibonacci. Non vi ricordate chi è? Il nome non vi è nuovo ma ogni ulteriore tentativo di collegamento mentale è fallito? Non c'è da vergognarsi. Anche per Paolo Ciampi (Direttore di Toscana - notizie, giornalista, autore di una ventina di libri, blogger, organizzatore di iniziative culturali di livello nazionale, insomma uno che, se si reca sull'isola di Vulcano, i turisti le foto le scattano a lui), anche per Paolo Ciampi il nome di Leonardo Fibonacci è stato a lungo nulla più che una via di Campo di Marte a Firenze, nei pressi della quale tuttora abita. Poi un bel giorno si è incuriosito, e ha iniziato a indagare e documentarsi. Il risultato è il suo nuovo libro, freschissimo di stampa con i tipi di Mursia, presentato sabato 19 novembre alla Biblioteca di Vaglia.

Paolo Ciampi con Sebastiana Gangemi (Pro Loco di Vaglia)
Il titolo è: L'uomo che ci regalò i numeri - la vita e i viaggi di Leonardo Fibonacci. E abbiamo capito, o ci siamo ricordati, di avere a che fare con un matematico. La sua biografia è tuttora in parte oscura. Visse a cavallo tra il 1100 e il 1200. La data di nascita precisa è ignota. Lo stesso cognome glielo hanno appioppato in seguito, ai suoi tempi i cognomi in pratica non c'erano. E anche lui fornisce pochissime notizie su se stesso nel suo libro più importante. Ciampi ha faticato non poco a cercare di ricostruire la storia di questo genio per caso, nato a Pisa e che quando era ancora un ragazzino - egli racconta - raggiunse il padre a Béjaïa (Cabilia, Algeria), per essere istruito alla scuola di calcolo. Calcolo che avrebbe dovuto semplicemente imparare a utilizzare per essere un bravo mercante come il babbo. Si era in un'epoca in cui bastava attraversare un fiume per cambiare unità di misura, criteri di valutazione, metodi di calcolo, forme di valuta. Leonardo forse un bravo mercante lo diventò davvero, ma non si fermò qui. Grazie a un non meglio identificato maestro e ad altri incontri con saggi, matematici, filosofi, teologi, astronomi, parla e ascolta, ragiona e discuti, rifletti e àpplicati, nel 1202 scrisse il ponderoso Liber Abaci, che va tradotto non come libro dell'abaco, ma come libro dei numeri. 
Paolo traccia l'evanescente biografia di Leonardo interpolando aneddoti autobiografici, non per narcisismo e tanto meno per pontificare, ma per aiutare il lettore a capire. Per esempio a capire la portata di una frase contenuta nel libro, che oggi ci sembra un primato di ovvietà:

I nove numeri indiani sono 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3, 2, 1. Con questi nove e con il segno 0, che in arabo viene chiamato sifr, si può scrivere qualsiasi numero si voglia. 

Ma siamo appena entrati nel XIII secolo, e questa frase porterà a rigirare l'Occidente come un calzino. Anche se non avverrà certo di punto in bianco. Un Occidente abituato ai numeri romani e ad altre forme di conteggio. Non era facile, non poteva essere facile né veloce assimilare un sistema di numerazione decimale (fin qui ci si può stare), in cui i simboli cambiano di valore a seconda della loro posizione in una sequenza (X è sempre dieci, il valore del 5 in 951 è ben diverso da quello in 519: e qui è già più complicato) e in cui esiste lo zero: questa è l'innovazione più ostica, ma decisiva. Ci fu dapprima molta ostilità. Qualcuno diceva che dietro questi simboli si celava Satana (bah, ancora nel 2002 dissero la stessa cosa del testo di Aserejé). Più concretamente si argomentava la maggiore facilità a falsificare i simboli: che ci voleva a trasformare un 3 in un 8? Ma se la frase sopra riportata ci pare scritta da Monsieur de La Palisse, si capisce chi alla fine ha avuto partita vinta. Anche se fu poi dimenticato.

Leonardo continuò probabilmente a viaggiare finché fece ritorno a Pisa, e dai (pochi) documenti risulta che mise insieme un gruzzolo non esagerato ma consistente, e soprattutto acquisì una fama tale che, quando approdò nella sua città, l'Imperatore Federico II, stupor mundi, volle convocarlo a corte. Era - pare -  il 1225. L'ultima testimonianza della sua esistenza in vita è datata 1241. La città di Pisa lo ringrazia ufficialmente in considerazione dell'onore e del profitto portati alla nostra città e ai suoi cittadini dall'insegnamento e dalla diligente obbedienza di maestro Leonardo. Non sappiamo quando morì. Per secoli rimase seppellito dall'oblio. Fu riscoperto nell'800. La statua in suo onore nel Camposanto di Pisa fu inaugurata nel 1863.

Pagina dal Liber abaci. Sulla destra i
numeri della Serie 

Statua di Leonardo, Camposanto di Pisa.
Foto di Hans-Peter Postel, da Wikipedia 
Avrete notato che mi tengo abbastanza sul vago: non voglio correre il rischio di intaccare il piacere della lettura del libro di Paolo, che è un vero e proprio viaggio: geografico, interiore, storico. Avvincente. Con una messe di notizie inaspettate, in particolare sulla civiltà dell'Islam, da noi troppo spesso fraintesa a causa di terribili fatti storici recenti. Sarà un caso se il suo blog si intitola 'I libri sono viaggi'?
Avrete notato anche che ho evitato accuratamente di scendere nei particolari matematici, per non infilarmi in un campo pericoloso di cui ho un'idea abbastanza vaga, esattamente come Paolo Ciampi per sua stessa ammissione. Ma parlando di Leonardo Fibonacci non si può non ricordare la celebre serie che porta il suo nome, in cui ogni numero è pari alla somma dei due numeri che lo precedono: 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144 e così via. Le implicazioni di questa sequenza sono di una quantità e importanza impressionanti. La ritrovi in natura, in architettura, nell'arte, in economia, nella vita di ogni giorno, dappertutto. Non è questa la sede per trattarne in modo esauriente, né chi scrive è la persona più adatta allo scopo. Ne troverete in parecchi siti, ad esempio questo o questo. Se ho voluto citare la serie è solo per ricordare che il Fibonacci's Day non è stato scelto a caso: è il 23 novembre, ovvero il giorno 11.23 (negli Stati Uniti il mese precede il giorno), ovvero i primi numeri - a parte lo zero - della serie. 
Buona Giornata di Leonardo Fibonacci a tutti!


giovedì 17 novembre 2016

Ritratto di Diana

Scattai questa foto a una felice Diana Polo, con gli amici e colleghi Mauro Baroncini ed Enrico Pazzagli, alla Casa di Giotto a Vespignano (Vicchio). Era il 14 agosto scorso, quando si aprì una sua personale dal titolo Dal bianco al nero per infiniti grigi. Questa esposizione costituiva il primo premio del 1° Concorso d’Arte tenutosi nel novembre 2015, e organizzato dall’Associazione Giotto e l'Angelico. E il primo premio se l'era aggiudicato lei. Ma di personali a Vespignano Diana ne aveva già tenute altre due, una nel maggio 2010 e un'altra nell'aprile 2014. Se ho contato bene, le mostre cui ha partecipato a partire dal 1971, da sola o collettive, sono sessantuno. 
Diana c'è. Da tempo. Da quando pur restando, come avrebbe detto Nanni Loy, sarda a ogni richiamo, è approdata in Toscana. Era il 1970. E della Toscana ha saputo trarre le premesse e le coordinate per il suo percorso artistico. Artistico nel senso più totale. Citiamo Bernhard Berenson


Il significato dei nomi veneziani s'esaurisce nel significato degli artisti come pittori. Non così i fiorentini. Quando si dimentichi che furon pittori, essi rimangono grandi scultori; e dimenticando che furon scultori, rimangono architetti, poeti ed insino uomini di scienza. Non lasciarono forma intentata; e di nessuna avrebbero potuto dire: 'Questa esprimerà pienamente quello che intendo'. 

Diana, frequentando fra l'altro la Scuola di arti grafiche Il Bisonte, corsi di modellato del Liceo artistico e di acquerello presso la Scuola Martenot, deve aver assorbito questo concettoe lo ha per certi versi portato alle estreme conseguenze. Di lei non puoi dire esattamente che è una pittrice, né che è una scultrice, né che è una grafica. Non è nemmeno tutte e tre le cose insieme! Vogliamo allora azzardare che è una donna del Rinascimento, seppure trovatasi ad agire nel XXI secolo? Scrive Diana sulla home page del suo sito: "I miei occhi e la mia mente sono sempre rivolti verso il mondo esterno, pronti a coglierne qualsiasi sfumatura. L’essere umano è un insieme di pulsioni che io cerco di afferrare, per poterle imprimere istintivamente nei miei disegni. In questo modo ho tutto il tempo di decidere in seguito, come sviluppare quel disegno senza perderne l’essenza. La matita è stata per me e lo è tuttora, una compagna di vita e i colori sono la mia musica."
Ma per me si sottovaluta. La matita non è certo il suo unico mezzo espressivo, anche se magari il più importante. Guardate le due opere presenti in San Lorenzo a Firenze per l'esposizione Artigianato è arte, che rimase aperta fino allo scorso 27 novembre. S'intitolano Fasce e Nascita di un angelo. Tecniche (complesse) del tutto differenti, uno stile. E inconfondibile.


 
Del bellissimo bassorilievo, la parte delle mani ingrandita è stata esposta il 18 e 19 novembre nella Sala d'Arme di Palazzo Vecchio, in occasione della Biennale del Premio di tutte le Arti 2016, organizzata dalla Fondazione Elisabetta e Mariachiara Casini on-lus.

Diana ha ottenuto il premio per la scultura in terracotta, ed è stata presente con altre due opere:  Paternità e Libera, quest'ultimo forse il suo lavoro più noto. La donna dalla testa piumata fu presentata anche alla grande collettiva Artisti dal Mondo a Firenze, organizzata in occasione dell'Expo 2015, e aveva ottenuto consensi unanimi.



sabato 12 novembre 2016

"Io Arcivescovo? No, grazie!" disse l'Angelico al Papa.

"Madonna delle ombre", Museo di S. Marco, Firenze
Se non si può certo esaurire la figura di Fra' Giovanni Angelico in un solo post, neanche vi si possono esaurire tutti i luoghi comuni di cui è stato prigioniero per secoli. E prigioniero in buona parte lo è ancora, nonostante l'inizio della sua rivalutazione e riconsiderazione risalga al 1940. Fu allora che Roberto Longhi,  all'interno della storica monografia "Fatti di Masolino e Masaccio", compì la prima analisi moderna dell'opera dell'Angelico. Vennero poi la grande mostra fiorentina del 1955 per il 500° della sua morte, due studi di Miklós Boskovits del 1976, quelli di Diane Cole Ahl del 1980 e 1981. L'elenco potrebbe continuare. Ma a tutt'oggi non si è riusciti a spazzare via del tutto l'effetto di un passo del Vasari che fece più danni della grandine: "Dicono alcuni, che Fra Giovanni non avrebbe messo mano ai pennelli, se prima non avesse fatto orazione. Non fece mai Crucifisso, che non si bagnasse le gote di lacrime". Da due frasi, un fiume di cliché. Il fraticello mite e ingenuo, fragile e un po' sfigato, giottesco fuori tempo massimo, chiuso nel suo convento, occupato a fare santini - un po' meglio della media - e ignaro di quanto accade nel mondo.
Non fu così. Ne riparlerò a più riprese, ma stavolta vorrei smontare l'idea del misero fraticello fuori dal mondo.
Guido di Pietro, poi Fra' Giovanni, entrò non a caso nell'ordine mendicante dei Domenicani, per i quali la cultura e la conoscenza avevano un ruolo non secondario nell'opera di evangelizzazione. Il suo intento era di diffondere la Parola di Dio attraverso la pittura, sfruttando il talento smisurato che il Medesimo gli aveva concesso (altro che santini). Sul finire degli anni '30 del '400, dopo l'immatura scomparsa di Masaccio, era il pittore più noto e stimato di Firenze. Analisi accurate delle sue opere hanno ultimamente messo in luce un retroterra culturale di assoluta eccellenza, influenzato dai nomi più importanti dell'umanesimo fiorentino, che sicuramente Fra' Giovanni aveva conosciuto e frequentato (altro che chiuso nel convento).

Esempi ce ne sono parecchi, ma basti pensare allo straordinario Giudizio finale, oggi nel Museo di San Marco. Purtroppo, sia detto tra parentesi, penalizzato da una pessima illuminazione.
Il dipinto, realizzato verso il 1425-1430, fu commissionato per il monastero camaldolense di S. Maria degli Angeli, ed è con ogni probabilità frutto di lunghe conversazioni con Ambrogio Traversari, che nel monastero viveva. Alcuni elementi, senza dubbio ispirati dall'erudito umanista, sono rivoluzionari dal punto di vista della rappresentazione religiosa: come la presenza di Abramo e Mosè ai lati del Cristo. La danza dei beati nel giardino fiorito anticamera del Paradiso (rappresentazione rimasta insuperata) si rifà alla Repubblica di Platone. E a quei tempi un testo del genere non è che potevi ordinarlo su amazon.com.  La fuga verso l'orizzonte dei sepolcri scoperchiati cela dei significati ancora oggi non chiariti.
Fra' Giovanni ebbe rapporti molto stretti con Papa Eugenio IV. Nel 1439, sotto il suo pontificato si tenne a Firenze il Concilio che sancì una purtroppo effimera riunificazione della Chiesa Cattolica con la Chiesa di Costantinopoli. Fu uno dei massimi successi diplomatici di Cosimo de' Medici, che aveva voluto fortemente la sua città come sede dell'evento. In quei giorni Firenze fu capitale mondiale della cultura. Il convergere di umanisti laici e religiosi, artisti, architetti, musicisti, scienziati, matematici, occidentali e orientali diede vita a un consesso forse irripetibile. Fra' Giovanni dovette sguazzarci come un pesce nell'acqua.

Trasfigurazione.
Cella 6 corridoio est Convento S. Marco.
Nello stesso anno iniziò la ricostruzione della Chiesa e del Convento di S. Marco, finanziata da Cosimo, il quale incaricò per i lavori l'architetto Michelozzo e per le decorazioni Fra' Giovanni.
Questi, oltre a dipingere la monumentale Pala di S. Marco per la chiesa, in massima parte dipinse, e comunque coordinò, l'affrescatura dei locali del Convento, compiendo una delle più grandiose e belle imprese pittoriche della storia. 54 composizioni con oltre 320 figure umane, realizzate tra il 1438 e il 1445. Alla consacrazione della Chiesa (6 gennaio 1443) era presente il Papa.

Non c'è da sorprendersi se Eugenio IV convocò Fra' Giovanni a Roma perché contribuisse con altri artisti del calibro di un Filarete a una sorta di rinnovo e ristrutturazione artistica dell'Urbe. Il frate pittore vi si recò verso la fine del 1445.
Qui s'inserisce l'episodio della proposta fatta dal Papa a Fra' Giovanni di divenire Arcivescovo di Firenze, cui quest'ultimo oppose un cortese rifiuto caldeggiando il nome di Antonino Pierozzi. Non tutti sono concordi sulla sua veridicità. Vasari lo riporta sbagliando il nome del Papa. Secondo Frosino Lapini, che redasse nel 1569 una biografia di S. Antonino, Fra' Giovanni non ricevette dal Papa alcuna proposta, ma solo una richiesta di parere su chi nominare. Umilmente ma con forza, suggerì l'ascetico Priore del Convento di S. Marco, autore della monumentale Summa moralis. Eugenio IV gli dette ascolto.
Venturino Alce, nel suo volume Angelicus pictor (1993), riporta tuttavia una deposizione al processo di canonizzazione di S. Antonino, datata 1516. Il sessantaquattrenne Carlo de' Gondi dichiarava:

Essendo l'Arcivescovado fiorentino privo del suo pastore, un certo fra Giovanni dell'Ordine dei Predicatori, frate professo del convento di S. Domenico di Fiesole, il quale era molto eccellente nell'arte della pittura, era in quel tempo presso il sommo Pontefice, cui era grato e accetto, il sommo Pontefice voleva creare lo stesso fra Giovanni Arcivescovo.
Il detto fra Giovanni, avendo ciò saputo, rifiutò e non volle accettare, e, scusandosi, persuase il Pontefice che la diocesi fiorentina aveva bisogno di un pastore più dotto e più prudente di lui; che se la sua Santità desiderava provvedere la diocesi di Firenze di un un buon pastore, creasse ed eleggesse in Arcivescovo e pastore Fra Antonio da Firenze, frate professo del convento di S. Domenico di Fiesole, religioso veramente dotto e buono.

Affidabile? Forse. Ma proviamo ad affermare che si trattava solo della riproposizione di un pettegolezzo, e a prendere per buona la versione del Lapini. Emergerebbe lo stesso in modo inequivocabile la considerazione in cui Fra' Giovanni era tenuto dal colto e illuminato Eugenio IV. Purtroppo i lavori fatti dall'artista per questo Pontefice (secondo le fonti, in San Pietro e nel Palazzo Apostolico) sono andati perduti. Ancor maggiore stima ebbe per il frate il Papa che successe a Eugenio. Tommaso Parentucelli, che prese il nome di Niccolò V, era uomo di cultura ancor più vasta, oltre che fautore di un ritorno della Chiesa ai valori protocristiani della povertà e della carità. Aveva collaborato nella realizzazione della biblioteca del Convento di S. Marco quando ancora era Cardinale, e così aveva conosciuto Fra' Giovanni. Salito al soglio pontificio nel 1447, anch'egli lo volle nel suo team, diremmo oggi, e commissionò, a lui e ai suoi collaboratori tra cui Benozzo Gozzoli, la decorazione dello studiolo (anch'esso perduto) e della Cappella Niccolina.

Martirio di S. Stefano, Cappella Niccolina, Roma
Di questo capolavoro assoluto dell'Angelico e dell'arte rinascimentale, nonché delle relative non poche implicazioni artistiche, teologiche, culturali, Antonio Paolucci parla con l'efficacia e semplicità che gli sono proprie in questo bel video girato dal mio amico Mauro Baroncini nel 2010. Fra' Giovanni dipinse nella Cappella anche la pala d'altare, oggi perduta. Doveva trattarsi di una Deposizione. Ne resta una sola, flebile traccia in questa illustrazione su un periodico intitolato L'album - giornale letterario e di belle arti, datato dicembre 1853.


  

martedì 8 novembre 2016

Quando Dante ingaggiò una ciofeca


  

Presso Borgo S. Lorenzo, nel cuore del Mugello. La faticata che si fa a raggiungere, dal Poggio di Ronta per una stradina erta e stretta, la rocca di Pulicciano, è ampiamente compensata dal panorama mozzafiato che quasi ci aggredisce una volta affacciati al parapetto. Oggi possiamo approfittare di questa posizione per bearci pacificamente della magnificenza del paesaggio mugellano.

In passato, invece, esisteva un castello. Lo storico Carlo Celso Calzolai riporta una tradizione, di cui però non ho trovato conferme, secondo cui sarebbe stato fondato dalla Contessa Matilde. Federico II lo confermò agli Ubaldini nel 1220, ma nel 1254 lo acquistò il Comune di Firenze. Padre Lino Chini (1875) lo descrive in pochi tratti: "Questo castello (…) era uno de' più belli e più inespugnabili del Mugello. Circondato di forti mura, guernito di bastite e di torri mirabilmente serviva a tenere in rispetto i feudatari dell'Alpi, e guardare il passo degli Appennini tra le Romagne e l'agro fiorentino dalla parte di Val di Lamone. Campeggiava sublime da lungi, e parea a chi lo guardava il guardiano de' monti mugellani, dominandoli da ogni lato."
Pulicciano fu per molto tempo un luogo la cui importanza strategica era ben nota agli eserciti, e fu testimone di numerosi assedi. Sulla facciata della superstite chiesa di Santa Maria, una lapide ricorda il più importante di questi, che risale al 1303, ed ebbe tra i protagonisti indiretti Dante Alighieri. Il Divino Poeta, allora già esule, aveva aderito alla fazione dei Guelfi Bianchi, i quali insieme con i Ghibellini stavano armandosi per fare ritorno a Firenze. Alla guida del riminese Scarpetta degli Ordelaffi, 6.000 fanti e 800 cavalieri occuparono il contado fiorentino ed espugnarono il borgo, ma non la fortezza di Pulicciano. Il podestà fiorentino Fulceri da Calboli intervenne immediatamente, sconfiggendo Scarpetta e provocando lo scompiglio generale del suo esercito, la maggioranza dei cui componenti fuggì a precipizio. Degli altri, Fulceri fece poi una carneficina.


La frase sulla lapide che vuole la rocca lieta dello scampo di Dante richiede almeno due precisazioni. Innanzitutto lascerebbe supporre una presenza del Vate a Pulicciano durante l'assedio, ma non fu così: nessuno degli storici ne fa menzione, mentre è data per certa la sua partecipazione all'adunata dei Bianchi nella chiesa di San Godenzo l'anno precedente. In secondo luogo, la letizia per il suo scampo non fu immediata: dapprima, al contrario, i Bianchi gli avrebbero fatto volentieri la pelle o giù di lì, perché era stato lui a suggerire come capitano Scarpetta, poi risultato del tutto incapace. Dante si trovò insomma nella situazione di tanti odierni presidenti di squadre calcistiche, i quali sbandierano di avere acquistato lo straniero eccezionale fenomeno super campione, che poi si rivela una ciofeca. Anche allora c'era bisogno di qualcuno cui dare la colpa, e toccò al Sommo Poeta. Dante non fu certo l'unico responsabile della disfatta, ma fu allora che abbandonò la militanza nei Bianchi, dopo un anno scarso, e fece 'parte per se stesso'.



E Pulicciano? Resistette ad almeno altri due assedi degni di ricordo da parte degli storici. Nel 1351, durante l'assedio di Scarperia, una parte dello schieramento guidato da Giovanni Oleggio, braccio armato dell'Arcivescovo milanese Giovanni Visconti, tentò di espugnare la rocca, ma, nonostante la superiorità numerica, fu respinto dalla tenacia dei popolani. Sempre i Visconti, nel 1440, inviarono Niccolò Piccinino alla conquista di Firenze. Anch'egli tentò l'assalto al castello di Pulicciano. Anch'egli inutilmente, nonostante la sua abilità militare e nonostante un assedio di 28 giorni. Non ci fu scampo invece nel 1529, l'anno dell'assedio di Firenze, quando Pulicciano, al pari di Ronta, Vicchio e Gattaia, subì il saccheggio delle truppe di Balasso Naldi.
Ancora secondo Carlo Celso Calzolai ('Ronta Pulicciano Razzuolo nel Mugello', 1973), il forte fu distrutto quando il dominio della Romagna passò ai Medici e le fortificazioni al di qua dell'Appennino si resero vane. La data in cui fu raso al suolo, tuttavia, non è nota. Oggi, sul terrapieno, rimane la Chiesa di Santa Maria a Pulicciano, la cui data di fondazione è pure incerta (1220?), e che è stata più volte ricostruita e restaurata. 




sabato 5 novembre 2016

Un artista di Vaglia (e un mistero risolto): Domenico Pugliani

Nella biografia del pittore di Vaglia Domenico Pugliani (1589-1658) era sempre esistito un enigma. Nel 1628 partì per la 'Germania' e vi rimase fino al 1633. Ma dove andò esattamente, e cosa fece? Nessuno era riuscito a dare una risposta.
Una monografia del 2013 (Barbora Klipcová – Petr Uličný, Domenico Pugliani: A New Face in the History of Wallenstein Palace in Prague, Umění 61, 2013, pp. 206–220), citata dal Bollettino dell'Istituto Storico Ceco di Roma (n. 9, 2014), ma passata finora apparentemente inosservata ai più, ha chiarito definitivamente il mistero.

Domenico Pugliani nacque a Vaglia nel 1589 da una famiglia abbastanza facoltosa di lavoratori della lana, e fu uno dei non pochi allievi di Matteo Rosselli. Iniziò la carriera come brachettone per conto di Bartolomeo Corsini (1545-1613), il quale non gradiva "certe pitture fatte in Fiandra di donne ignude". Iscritto nel 1612 all'Accademia del Disegno, lavorò molto fianco a fianco col suo Maestro. Si guadagnò la stima (e le commesse) del Cardinale Carlo, fratello del Granduca Cosimo II. Risale al 1620 una delle sue opere più celebri: Il beato Salvatore da Orta risana gli infermi, nella chiesa francescana di Ognissanti.
Salvatore da Orta, Chiesa di Ognissanti, Firenze

Tutta Vaglia era probabilmente fiera del suo figlio artista, il quale non dovette dimenticare la sua terra natale. La Compagnia della Madonna della Neve, i cui capitoli furono redatti nel 1579, ebbe fin dall'inizio tra i suoi iscritti i membri della famiglia Pugliani. Il nome di Domenico compare nei registri dal 1620 al 1628. Quando si decise, per abbellire i locali, di realizzare una serie di tredici tele raffiguranti Cristo e gli Apostoli, l'incarico non poteva che andare a lui.
Ma Domenico dipinse solo S. Pietro e S. Paolo.

S. Pietro. Sacrestia Pieve di S. Pietro a Vaglia

Dovendo partire per la Germania, non fece in tempo a terminare l'incarico. Volle però indicare, con lungimiranza, chi avrebbe potuto portarlo a termine nel migliore dei modi. Si trattava di un giovane anch'egli allievo di Rosselli, che avrebbe in seguito fatto parlare di sé: Lorenzo Lippi.
Dei tredici dipinti, solo sei sono tuttora esposti nella sacrestia della Pieve di S. Pietro. Quattro andarono perduti, tre furono rubati nel 1971.
Dunque, Domenico Pugliani parte per la Germania. Ma allora il termine Germania era estremamente vago. Per anni ci si è chiesto: ove andò, cosa dipinse, e per chi? Ed eventualmente cosa è rimasto? La risposta data da Barbora Klipcová e Petr Uličný è sorprendente, ma documentata. Praga! E non solo. Il committente era un pezzo da novanta: Albrecht von Wallenstein, uno dei protagonisti della Guerra dei Trent'Anni. Neanche l'incarico era secondario: la decorazione del suo Palazzo. Quel palazzo che oggi è sede del Senato ceco.
D'altronde, se Wallenstein era indubbiamente, come scritto su Wiki, un "abile stratega e grande organizzatore, [che] costituì e comandò un efficiente esercito di mercenari tedeschi con il quale ottenne molte vittorie sconfiggendo numerose volte gli stati protestanti nemici dell'Impero", ciò non sottintendeva in lui una particolare affabilità e bonarietà. Oggi è descritto come "inusualmente ambizioso, privo di scrupoli ed irascibile, un valido esempio di arrivismo patologico." Il suo Palazzo doveva rispecchiare la sua megalomania.
Aveva dato un primo incarico a un sedicenne Baccio del Bianco, che era al seguito di Giovanni Pieroni, architetto di fiducia di Wallenstein. Baccio lo portò avanti ...finché resistette al carattere del committente, cioè molto poco. Sentite cosa scrisse in seguito Baccio stesso al suo amico Biagio Marmi, in una lettera riportata da Filippo Baldinucci: "Il Principe di Bolenstain (sic.), che fu poi Duca Di Fridland, e Generalissimo, che fu morto per Ribello: quell'uomo, che a' suoi giorni fece impiccare più uomini di quel che non ne fussero nati in cent'anni; quello, che faceva tremare i campanili, non che le persone; quello, che per benemerito d'avere rotto lo Sveco, morto il re, e messo in pace l'Impero; quello, che nel servizio di tanti anni, con tanta fedeltà s'era acquistato nome di Generalissimo, di povero Signore e privato soldato ch'egli era; fu miseramente morto da' sua più interni amici (così vanno le grandezze del mondo) e quel che è peggio, col nome di Ribello". Era vero. Avrebbe fatto una brutta fine nel 1634, ucciso perché scoperto a trattare con i nemici dell'Imperatore.
I lavori iniziarono alla fine del 1623, ma nell'autunno 1624 Baccio se l'era già squagliata. Fu probabilmente ancora Pieroni a suggerire a Wallenstein di ingaggiare Pugliani. Il contratto stipulato con il pittore vagliese porta la data del 16 marzo 1627 (in realtà 1628), e prevede la decorazione della sala, dell'uditorio, di 2 gallerie, 2 oratori, la cappella compreso l'altare, per un compenso di 2.205 fiorini. Secondo gli studiosi, Pugliani in alcuni casi dipinse sopra a quanto realizzato da Baccio del Bianco. Non sappiamo come Domenico si trovò con l'isterico Duca. I lavori terminarono ad ogni modo nel 1630.
Non sono riuscito a trovare fotografie delle sue opere all'interno del Palazzo se non nella monografia stessa di Barbora Klipcová e Petr Uličný che, se siete iscritti a academia.edu, potete scaricare da qui.
Pugliani rimase a Praga e probabilmente fu lui il pittore italiano che ancora Wallenstein richiese per la decorazione del suo Palazzo Jičin. Quest'ultimo ha avuto troppi restauri e ristrutturazioni per poter confermare o smentire che Pugliani vi abbia veramente lavorato. Di certo nel 1633 era di nuovo a Firenze, dove riscosse l'onorario per i dipinti di Vaglia realizzati cinque anni prima.
Domenico Pugliani continuò a lavorare a Firenze e nei dintorni. Il suo stile si ammorbidì e in parte adattò alle nuove tendenze di cui Francesco Furini era l'esponente più valido. Risale al 1636 la Comunione di Santa Maria Maddalena in S. Maria Maggiore a Firenze. Degli stessi anni il contributo allo Studio di Casa Buonarroti, commissionato da Michelangelo Il Giovane e realizzato di nuovo in collaborazione col suo maestro Matteo Rosselli, oltre che con Cecco Bravo. Nel 1640 affrescò l'Oratorio dei Vanchetoni, ancora insieme con Cecco Bravo, Lorenzo Lippi e il Volterrano. Sono solo alcuni esempi.
Ma il suo stile iniziava a risultare forse ugualmente superato. Fatto sta che le commissioni si fecero sempre più rare, e Domenico dovette chiedere incarichi pubblici per mantenere la sua numerosa famiglia. Ottenne il posto di Podestà di Montespertoli (1646) e, in seguito (1648), di Reggello. Morì a Firenze nel 1758.
Domenico Pugliani fu artista di grande talento, cultura e sensibilità, pur senza avvicinarsi alle vette di un Furini o di un Lorenzo Lippi. Filippo Baldinucci non gli dedicò che poche righe, e questo contribuì a farlo restare per secoli nell'oblio. Ancora oggi meriterebbe una rivalutazione, anche se si è tornati a parlare di lui in particolare grazie al lavoro dello storico dell'arte Riccardo Spinelli, e dopo la mostra sul Seicento fiorentino allestita a Firenze nell'ormai lontano 1986.