domenica 23 dicembre 2018

Buon Natale!


Quando gli uomini vivevano con la natura, nel tempo dell'anno che il Sole ritornava a salire nel cielo, sentivano di dover festeggiare il grande avvenimento adornando un abete nella foresta e, nella radura luminosa, con danze e canti si rallegravano nel cuore. 
Poi, dal Paese dove il mare non gelava mai, un giorno arrivarono alcuni uomini ad annunciare la grande novella: era nato Uno che portava la luce. La luce dentro di noi, non fuori di noi. Così per festeggiare quest'Uomo unirono la sua nascita alla festa del Sole.
(Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Einaudi 1991)

El Greco (1541-1614), Adorazione dei pastori,1612-14, Madrid, Prado




giovedì 20 dicembre 2018

GABBATO LO SANTO 15: Dalla parte delle bambine


Ho conosciuto la figura di Celestina Donati grazie alla lettura di Il babbo era un ladro (Betti Editrice, 2018), un libro splendido come tutti quelli scritti da Paolo Ciampi, in cui si ricostruisce mirabilmente la vita non facile della figlia di un ladruncolo meno poeta romantico che egolatra, nella Firenze del secondo dopoguerra. Nel 1949, la piccola protagonista Bruna fu condotta a Campo di Marte. Scrive Ciampi: "Qui c'è l'istituto delle Calasanziane, le religiose che hanno raccolto l'eredità spirituale della beata Celestina Donati, la suora di Marradi che per missione ha scelto i bambini abbandonati. E chi può essere più abbandonato del figlio o della figlia di un carcerato? È dal 1889 che l'istituto opera, prova provata che a Firenze il cattolicesimo non vive solo di messe e chiacchiere nei salotti, piuttosto sa rimboccarsi le maniche e dare gambe alla carità". Più avanti: "Da parecchio, ormai, qui non c'è più il collegio dei bambini abbandonati, ma una scuola privata di buona reputazione." Non è la sola. I centri educativi delle suore Calasanziane sono oggi sedici, di cui due in Brasile e uno in Romania, uno in Nicaragua e uno nel Congo. La beata Celestina seppe seminare.

Celestina Donati (1848-1925) fu beatificata a Firenze il 30 marzo 2008 da Papa Benedetto XVI. Le testate religiose ne parlarono più o meno diffusamente. Ecco cosa scrisse tra l'altro Toscana Oggi:

In una Cattedrale gremita di religiose e religiosi, di sacerdoti e di fedeli giunti da ogni parte d'Italia, il Cardinale Saraiva Martins ha tratteggiato la vita della nuova Beata: «sotto la sapiente guida del Padre scolopio Celestino Zini, poi diventato vescovo di Siena, maturò la sua vocazione, conoscendo sempre più profondamente la spiritualità calasanziana. Si consacrò totalmente al Signore, dedicandosi al servizio delle bambine più povere e bisognose di cure, fondando per questo la nuova Congregazione di religiose, oggi note come Calasanziane».

Subito dopo, però, il web è diventato decisamente avaro di notizie su di lei. 
Di Celestina sono riuscito a rintracciare solo due fotografie, una delle quali è quella d'apertura che riprendo dal sito delle Calasanziane, e da cui in seguito sono originati tutti i ritratti da santino. Ne troviamo una spiegazione sulla sua biografia, stilata da Aladino Moriconi nel 1949 e stampata a Firenze dalla Direzione Generale delle Suore Calasanziane in occasione del centenario della nascita: "Altra cosa cui era difficile sottoporla per la sua grande umiltà era il ritrattarla: bisognava farlo sempre di sorpresa, e solo qualche rarissima volta lo fece per espresso desiderio dei Superiori."
Come già si può comprendere dalle parole di Paolo Ciampi, la vicenda umana della Beata Celestina Donati, al secolo Anna Maria o Marianna Donati, è esemplare per lo meno quanto la sua attività fu anticonvenzionale. Risulterebbe tale oggi, figuriamoci a cavallo tra XIX e XX secolo. 

La prima sede della Congregazione in via Faenza
Marianna faceva parte di una delle famiglie storiche di Firenze. Nel senso che di Firenze fecero anche la storia: i Donati. Il padre, Francesco, avvocato universalmente stimato, ebbe da Costanza Civinini quattro figli: Gemma (come la moglie di Dante), Alfredo, Corso (come Corso Donati, anche se averlo tra gli avi non era tanto da vantarsene) e Marianna. Francesco cambiò spesso luogo di lavoro, da Marradi a Cortona, Montelpulciano, Castiglion Fiorentino, Siena, e finalmente nella natia Firenze. Marianna nacque quand'era a Marradi.
Dunque, la storia di Marianna parte da un classico: una famiglia benestante, uno dei cui elementi (l'avrete già intuito) sceglierà la povertà e la carità. Ma gli sviluppi avranno tratti del tutto insoliti. Marianna dovette aver ereditato qualcosa anche da un'altra Donati: Piccarda. Non solo la dolcezza e la bontà, ma forse soprattutto l'indipendenza, e un carattere di delicato acciaio.

Avere un carattere forte non significa non avere mai dubbi. Marianna ne aveva, e tanti. La devozione filiale non le consentiva di allontanarsi dal padre, specialmente dopo la morte dell'adorata moglie. Era buono, il babbo. Non era affatto un tiranno. Adorava tutti e quattro i suoi figli. Solo che per Marianna sognava un bel matrimonio. E questo la figlia non lo permise. La determinazione di sposare Gesù Cristo le era nata dopo l'incontro col Padre Scolopio Celestino Zini, che la seguì anche dopo essere stato nominato Arcivescovo di Siena. 

Padre Celestino Zini
Un periodo di prova presso le Suore Vallombrosane non ebbe esito felice. Probabilmente Marianna sentiva di dovere e voler compiere un cammino del tutto suo. Né era fatta per appartarsi dal mondo, ma al contrario per viverci dentro. E ci visse.
Ci vollero ancora anni perché il suo progetto si concretizzasse. Cercò un quartiere con vicina una chiesa e in cui poter alloggiare anche il babbo e la sorella Gemma (i fratelli avevano brillantemente seguito le orme del padre). Finché in via Faenza 62, accanto alla Chiesa di S. Giuliano, Marianna Donati fondò la Nuova Congregazione delle Figlie Povere di S. Giuseppe Calasanzio. La regola fu scritta da Padre Celestino. Da lui Marianna prese il nome e da allora si chiamò Suor Celestina Donati. Era il 1889 e Marianna, ora Celestina, aveva 41 anni. Attenzione: non pensate a questa età com'è vissuta oggi. All'epoca si era irrimediabilmente vecchie. Ma il lavoro per lei era appena iniziato. La strada da seguire - tutta in salita e con una pendenza da Stelvio - le fu indicata da una bambina condotta al convento dalla mamma che voleva sottrarla alle botte del padre perché non vendeva abbastanza fiammiferi. Celestina riuscì a far pentire e convertire l'uomo, e alloggiò la famiglia nel convento. Tra parentesi: quanto ci sarebbe bisogno oggi del suo lavoro!


La biografia di Aladino Moriconi ha spesso passaggi un po' enfatici a cui non era facile sfuggire dovendo tessere le lodi della protagonista, ma è articolata e dettagliata. In più, a un certo punto traccia rapidamente una biografia, gustosa in quanto dal punto di vista di Satana, di San Giuseppe Calasanzio (José de Calasanz, 1557-1648), fondatore delle Scuole Pie, che creò a Roma nel 1597 la prima scuola gratuita per i poveri in Europa, e al cui nome, come abbiamo visto, è intitolato l'istituto.

Questa donna - diceva il maligno - si picca di far la scimmia a quel Giuseppe Calasanzio che, di certi monelli, che se ne stavan beatamente in piena libertà per le vie e per le piazze, con quelle sue Scuole Pie s'era ficcato in testa di farne della brava gente, senza avvedersi invece che ne faceva degli spostati: ma ebbe a fare in conti con me, ché gliene feci tante da farlo perfino arrestare e portare pubblicamente di pieno giorno al Santo Uffizio con tutto il suo stato maggiore; e poi gli mandai alla malora tutta quell'accozzaglia d'asini pezzenti dei suoi frati, costringendolo infine a morir di bile e quasi disperato, dopo averlo tartassato per quasi tutti i 92 anni della sua sciagurata vita. Così farò anche di questa esaltata piagnucolona, di questa pitocca che non rifinisce di portar della confusione tra i gaudentoni fiorentini per toglierli dalla loro beata indifferenza religiosa. 

L'unica (?) altra fotografia di Suor Celestina
Suor Celestina non si arrese né a Satana né, soprattutto, alla diffidenza dei fiorentini, inevitabile di fronte a principi come quello che sempre Moriconi le fa esprimere, rivolta alle altre suore:

Che ne dite voi, se si aprisse in Firenze un Laboratorio d'Arti e Mestieri per le ragazze del popolo, onde potessero guadagnar qualche cosa durante l'abilitazione  al lavoro, ed intanto avessero modo d'acquistarsi una formazione cristiana per divenir poi buone e brave madri di famiglia, sottraendole così alle speculazioni e alle cupidigie dei poco coscienziosi industriali, che soglion tenerle nei magazzini, ove è sbandito il santo timor di Dio?

Se l'idea può risultarci oggi superata, allora era ai limiti del sovversivo. E, mentre a Napoli il Beato Bartolo Longo (1841-1926) si occupava, anch'egli non esageratamente difeso e favorito, dei bambini dei carcerati, Celestina dedicò la sua attenzione alle bambine in particolare dei carcerati. Ancora Moriconi scrive che Suor Celestina "non con ciance accademiche, ma con la pratica luminosa dei fatti ha dimostrato falsa e crudele la teoria positivista di un Cesare Lombroso e di un Enrico Ferri, i quali pretendono che i figlioli seguano la natura dei padri: in modo che da un padre delinquente o pazzo debba nascere un figliolo delinquente o pazzo."
Non è una cosa rapida, né indolore. Ma è, come afferma Giampiero Pettiti su www.santiebeati.it, "un intervento che ancora suscita diffidenza e scandalo, tanto è poca la considerazione che all’epoca si ha per chi è in carcere. Ci vuole tempo e pazienza perché Madre Celestina riesca a far convergere sulla sua opera la beneficenza dei ricchi fiorentini, trasformando la loro “carità da salotto” in concreti interventi per i bisognosi."

L'interno di San Giuliano
Così, contrariamente a San Giuseppe Calasanzio, Suor Celestina incontrerà grosse difficoltà, non tanto dalla Chiesa, da cui anzi sarà appoggiata, in particolare dall'Arcivescovo Mistrangelo che era Padre Scolopio, quanto nel reperire i fondi. Nel trovare gli sponsor, insomma. C'era da mantenere una congregazione che pareva espandersi da sola. L'apertura di una Casa delle Calasanziane a Livorno fu la prima di una lunga serie. La suora ideò una colonia marina per la salute delle bimbe, sempre a Livorno. Istituì in San Giuliano l'Adorazione Perpetua del Santissimo, tuttora esistente. Era il 1900. Quattro anni dopo s'inaugurò la struttura di via delle Cento Stelle. Celestina non sapeva dire di no alle richieste di accoglienza di bambine bisognose. La sua esistenza fu così un continuo dibattersi tra la gestione delle suore, la ricerca e/o la manutenzione delle strutture d'accoglienza, l'attenzione alle bambine e soprattutto i conti da pagare. Rigidamente contraria ad accettare qualunque forma di sovvenzione fissa, faceva affidamento sulle donazioni da parte di famiglie per lo più nobili di cui doveva superare i pregiudizi e le resistenze. Resta celebre una battuta di Suor Celestina, riportata anche da Moriconi: "Gesù è morto sui chiodi, noi sui chiodi ci si campa". Un fiorentino sa bene che i chiodi in questione sono i debiti. Quando Mistrangelo si rallegrò con lei perché era guarita da una brutta polmonite e ne attribuì il merito anche alle preghiere delle bambine, ribatté: "Dica piuttosto che sono state le preghiere dei miei creditori".

Via delle Cento Stelle

Quando, in mezzo a non pochi ostacoli e dopo non pochi tentativi andati a vuoto, riuscì a realizzare il suo antico desiderio di aprire una casa a Roma, presso Porta Furba, Celestina aveva 75 anni. Avere 75 anni allora era come essere oggi intorno ai novanta. Scrive ancora Moriconi: "Le prime due bimbe là ricoverate si chiamavano Maria ed Angela: eran della Campagna romana ed avevano il babbo a Regina Coeli per molti e gravi delitti. Quelle creaturine, alle mani di un uomo bestiale..., erano in condizioni miserande! Una tra l'altro aveva i denti spezzati e l'altra aveva una gamba fratturata e bisognava operarla...". Un acceso e appassionato articolo sul Messaggero diede come risultato una serie di donazioni che ridussero la precarietà della nuova istituzione. Lo stesso effetto, anche se s'intende non certo risolutivo, ebbe per le strutture fiorentine un articolo sul Nuovo Corriere. Significativa una lettera scritta a Suor Celestina il 7 marzo 1925, quando era già gravemente malata, dall'amico scrittore e poeta Giulio Salvadori (1862-1928), nella quale le riassume il lavoro instancabile suo e della sorella Giuseppina per il sostentamento delle suore romane. Appelli, sottoscrizioni, richieste presso famiglie amiche. Questi sforzi non furono vani, anche se Celestina non fece in tempo a vederli: entro lo stesso anno si venne all'acquisto di un terreno con un casale a Primavalle, dove nel gennaio 1929 si aprì il nuovo asilo romano per le figlie dei carcerati. Quello che oggi è l'Oasi Celestina Donati. 

Moriconi descrive l'agonia della Suora con eccessiva enfasi retorica, ma la morte di Suor Celestina, avvenuta il 18 marzo 1925, fu in effetti motivo di costernazione sincera per tutta Firenze, e non solo. È morta una santa, fu la frase più ricorrente. Antonio Borrelli, sempre su www.santiebeati.it, scrive: "una decina d’anni dopo si cominciò ad istruire la causa per la sua beatificazione, il 12 luglio 1982 uscì il decreto d’introduzione; il 6 aprile 1998 si ebbe quello sull’eroicità delle virtù e il titolo di venerabile." Insomma, c'è voluto il suo tempo perché si arrivasse alla beatificazione, proclamata, come abbiamo visto, nel 2008. Da Elena Giannarelli, sul suo prezioso Donne di pietra (II ediz. Giorgi & Gambi 1999), veniamo infine a sapere che era stata approvata, da apporre sulla facciata della sede di via Faenza, una lapide che in realtà non è mai stata affissa. Diceva:


QUI LA FIORENTINA SUOR CELESTINA DONATI
VISSE SILENZIOSAMENTE SUI CHIODI 
PER ASSISTERE LE FIGLIE DEI CARCERATI


















mercoledì 12 dicembre 2018

I segreti di Giotto, ma anche no



"L'autoritratto di Giotto in Esaù respinto da Isacco" titola un articolo pubblicato dall'ANSA il 10 novembre. La notizia riguarda il celebre affresco (foto d'apertura) situato nella parte alta della Basilica superiore di Assisi, è ripresa dal Giornale dell'Arte e mi è stata inviata dall'amico Mauro Baroncini. La sedicente straordinaria scoperta che, diciamolo subito, fa acqua da tutte le parti, si deve a uno studioso di cui mi ero già occupato anni fa: Luciano Buso. Questi detiene un sito, www.lucianobuso.it, peraltro totalmente autoreferenziale, e afferma da anni di avere scoperto una tecnica di scrittura criptata, invisibile e/o mimetizzata, all'interno di una quantità di dipinti delle epoche e degli stili più disparati. Afferma Buso nello stesso comunicato: 


Leonardo firmò la Gioconda nascondendo nel ritratto più enigmatico della storia l'iniziale del suo nome nonché la data di composizione del dipinto, il 1501, e addirittura l'intera scritta 'Gioconda'. Ma non fu il solo. Lo stesso usavano fare in quel secolo Giorgione e Raffaello. E quasi duecento anni prima anche Giotto riempiva i suoi affreschi di scritte celate, iniziali, cifre. Il segreto? Una tecnica di scrittura nascosta nata come sorta di incancellabile autentica delle opere e tramandata di bottega in bottega, forse come protezione dai falsi, per oltre 700 anni, tanto che la conoscevano e la praticavano persino Klimt e Picasso.

Il Polittico Baroncelli in S. Croce a Firenze
Veramente le contraffazioni, artistiche e non, come oggi le concepiamo sono fenomeno relativamente recente. Come abbiano fatto poi i pittori a trasmettersi questo segreto senza che per 700 anni nessun non addetto ai lavori ne sia mai venuto a conoscenza prima di lui e tranne lui, Buso non lo spiega. Ma sorvoliamo su questo particolare. Buso non è nuovo ad annunci che riguardano uno degli affreschi più controversi della storia della pittura. Già nel 2008-9, sempre in Esaù respinto da Isacco, riteneva di scorgere “in basso al centro, dove il lenzuolo rosso che avvolge le gambe di Gesù si raggruma sotto il sedere, un volto, una faccia che spunta dalle pieghe; il volto ha lo sguardo serio, è schiacciato dal corpo di Gesù e pare voler uscire dalle pieghe che lo imprigionano, allusione forse questa al male che viene imprigionato e schiacciato dalla forza del bene! Personalmente penso sia proprio questo il messaggio esoterico che Giotto ha voluto tramandarci.” Buso scambiò allora Isacco per Gesù, ma anche questi sono evidentemente dettagli secondari. Però ammettiamolo: per scorgere il volto di cui parla Buso nell’affresco in questione, ci vuole veramente parecchia fantasia.
Stimmate di S. Francesco
Parigi, Louvre

Nel giugno 2011, un flash ANSA così diceva: "Non l'autentico sudario del Cristo e nemmeno l'opera di Leonardo, come qualcuno ha azzardato. Celata nel volto di Gesù morto, nella Sacra Sindone, ci sarebbe addirittura la firma di Giotto. Con tanto di data, 1315, perfettamente in linea con le analisi al carbonio 14 fatte negli anni Ottanta. A sostenerlo è uno studioso veneto, Luciano Buso". 
Su questa pagina del sito dell'Unione Cristiani Cattolici Razionali è riportata un'ampia sintesi delle confutazioni, più o meno sarcastiche, di questa teoria, e in più si ribadisce che Buso "ci aveva provato qualche tempo fa anche con la “Gioconda” di Leonardo Da Vinci, sostenendo di aver trovato negli occhi della donna numeri e lettere, legati alla tradizione ebraico-cabalistica, quella cristiana e quella dei templari, quella magica e quella naturalistica (cfr. Italiamagazine 3/2/11), ricevendo ovviamente risposte ironiche dai grandi esperti dell’arte e di Leonardo."

Il 10 novembre 2018, alla Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli ad Assisi, Buso ha tenuto il convegno dal titolo "Giotto si rivela", durante il quale ha rivelato - appunto - il risultato dei suoi studi, eseguiti su foto ad alta risoluzione (!!!) dell'affresco. Copio dal suo sito. 


“Quanto ora emerso nell’affresco di Assisi – sostiene Buso – fa risultare inesatta l’attribuzione sinora suggerita al Maestro di Isacco perché svilisce l’opera del grande Giotto, padre assoluto della pittura moderna. Essa ci ha rivelato anche i suoi contenuti segreti e sottolineato la straordinaria qualità, la complessità dell’impianto e le sue meravigliose cromie. Fu quindi certamente Giotto di Bondone a firmare l’affresco nel 1315 e lo fece celando ovunque le sue firme ‘Giottvs B’, ‘Giottvs IV aprilis 1315’ e ‘GB’. Una di esse pare essere la firma ufficiale in quanto apposta a forma di semi lunetta in basso al centro, appena sopra la grande decorazione floreale, firma oggi sgranata e in parte consunta ma ancora leggibile. Oltre le molteplici firme segrete sono emerse le date ‘1315’ e ’15’ le quali stabiliscono in modo sicuro la corretta datazione dell’opera che non fu dipinta nel 1291-1295, ma quasi venticinque anni dopo.


Il Polittico di Bologna

L'affresco poi risulterebbe brulicare di figure aliene che nessuno, in oltre 700 anni, aveva notato. Così la nota ANSA: 


Quanto a queste altre figure ritrovate, scrive Buso, "alcune rappresentano volti demoniaci con addirittura il corno, altre paiono rappresentare un re e una regina dell'epoca".

Ma non solo. Perché tra le tante figure "aliene", sostiene Buso, c'è un volto che sembra proprio essere un autoritratto di Giotto. "Si trova in alto a sinistra, proprio sopra la tenda con la fascia azzurra", dice, vicino alla grande data '15'. "Il volto reca a cappello la data e questo mi ha indotto a pensare che esso rappresenti qualcuno di importante, ritenuto dall'artista trecentesco degno di attenzione". Quel volto, sottolinea, sembra riportare "una certa somiglianza" con un ritratto di Giotto eseguito nel XVI secolo.

Un volto, dunque, criptato (a che scopo?), che dev'essere l'autoritratto perché somiglia a un ritratto di Giotto eseguito duecento anni dopo la sua morte. Sarà. Ma andiamo avanti.
Di Giotto abbiamo tre opere firmate: le Stigmate di San Francesco, firmato OPUS JOCTI FLORENTINI, il Polittico Baroncelli, firmato OPUS MAGISTRI JOCTI) e il Polittico di Bologna firmato OP[US] MAGISTRI IOCTI D[E] FLOR[ENTI]A. Nessuno dei tre è firmato Giottvs, tanto meno Giottvs B (Bondone?).

La Croce dipinta in Santa Maria Novella a Firenze

Quanto alla datazione al 1315 (lo stesso anno in cui Giotto avrebbe fatto pure la Sindone), si aggiudica la palma dell'impossibilità assoluta, dato che sconquasserebbe tutte le conoscenze storiche e documentali dell'intera vicenda non solo relativa alla Basilica Superiore di Assisi, ma in un certo senso all'intera storia dell'arte. Nel 1315 la Cappella degli Scrovegni era già stata ultimata da tempo, la Madonna di Ognissanti lasciava senza fiato chiunque entrasse nella Chiesa omonima a Firenze e, grazie a Giotto, la pittura era stata mutata dal greco al latino, per usare le parole di Cennino Cennini. Di questa mutazione, Isacco respinge Esaù fu il capostipite.
Luciano Bellosi, nel 2007, citò una fonte scoperta di recente, un trattatello del 1310, scritto dai frati francescani conventuali, in cui si dichiarava che la Basilica di Assisi era stata fatta affrescare da Papa Niccolò IV, il quale regnò dal 1288 al 1292. Scrive Bellosi: 

Giotto dovette incominciare a lavorare ad Assisi intorno al 1290. Le arti della decorazione della Basilica superiore dovute a lui e alla sua bottega si distinguono nettamente da quelle precedenti non solo per caratteristiche personali, ma perché rappresentano un ordine di idee completamente nuovo. Le prime figurazioni eseguite dal grande pittore fiorentino sono le due Storie di Isacco (Isacco che benedice Giacobbe e Isacco che respinge Esaù) dove la casa del patriarca è un vano architettonico dalle articolazioni sottili, ma robuste e razionali, che creano uno spazio chiaramente delimitato e ricco di punti di riferimento per visualizzare ciò che sta davanti e ciò che sta dietro. 

La Madonnina di Borgo San Lorenzo
Non è vero infine che, come afferma Buso, "l’attribuzione dell’affresco è stata elusa per lungo tempo a causa delle incertezze accademiche, oggi superate con l’avvento della nuova scienza, del nuovo metodo d’indagine, dei nuovi studi." Al contrario, l'attribuzione dell'affresco è stata un vero terreno di battaglia tra storici dell'arte, che si sono combattuti a lungo anche aspramente. Si erano fatti i nomi, oltre che del Maestro d'Isacco inventato ad hoc, del romano Pietro Cavallini, di Gaddo Gaddi, di Arnolfo di Cambio, e naturalmente di un giovane ma prorompente Giotto. Oggi si assegna quasi unanimemente a quest'ultimo, senza bisogno di incursioni criptico esoteriche. In particolare dopo il restauro della Madonnina di Borgo San Lorenzo (1985 circa), le cui affinità con l'affresco di Assisi sono risultate sbalorditive. Scrive Angelo Tartuferi (2007):

L'identificazione del cosiddetto Maestro di Isacco con Giotto appare pressoché certa alla luce della sorprendente affinità che lega queste pitture murali alle opere su tavola che la critica riconosce come i più antichi esemplari autografi del maestro fiorentino a noi pervenuti: il frammento di una grande Maestà conservato nella pieve di Borgo San Lorenzo, nel cuore del Mugello, luogo d'origine della famiglia di Giotto, e la grande Croce dipinta della basilica di Santa Maria Novella a Firenze. 








sabato 8 dicembre 2018

Giuliano Vangi e il Papa



Mi giunge notizia della mostra che si inaugurerà al Palazzo dei Vicari di Scarperia (FI) sabato 15 dicembre 2018 alle 15.30. Si intitola: Bergoglio. 80 anni in 40 tavole. Papa Francesco nei disegni di Giuliano Vangi per il volume: Francesco. Il Papa Americano. UTET Grandi Opere – FMR’.
Troverete su questo articolo tutti i particolari.
Giuliano Vangi, diciamolo subito, è il più grande scultore vivente. Nato a Barberino di Mugello nel 1931, può vantare un museo a lui personalmente dedicato in Giappone, a Mishima. A questo link troverete una sua biografia. Ne riporto un estratto:

Fa parte dell'Accademia del Disegno di Firenze, dell'Accademia di San Luca e dell'Accademia dei Virtuosi al Pantheon di Roma. Ha esposto in molte sedi prestigiose in Italia e all'estero, tra cui ricordiamo la prima importante esposizione Italiana a Palazzo Strozzi nel 1967. Negli anni successivi si susseguono numerose mostre in Europa a Monaco, Vienna, Stoccarda, Asburgo, Francoforte, Londra. Nel 1981 inaugura la sua prima personale a New York presso la Sindin Gallery, e nel 1988 invece porta le sue opere in Oriente per la prima mostra a Tokyo presso la Gallery Universe. In Italia sono state allestite sue personali a Milano, Firenze, Bologna, Parma, Trieste, Grosseto, Roma, Carrara, Lucca, Ancona, Bergamo, Brescia.

L'interno del Museo di Mishima dedicato a Vangi
Il 13 febbraio 2011, a Vicchio, fu consegnato a Giuliano Vangi il Premio Giotto e l'Angelico. Fu una cerimonia cui partecipò, si può dire, l'intero Mugello artistico. Scrissi allora sul Galletto: "Le qualità umane oltre che artistiche di Vangi (...) hanno trovato puntuale conferma quando l’artista ha preso la parola [durante la cerimonia di consegna nella Pieve di Vicchio] e, sinceramente commosso, ha ringraziato il Mugello per questo premio che costituisce uno dei più bei riconoscimenti da lui ottenuti lungo una carriera lunga ormai sessant’anni, proprio perché proveniente dalla sua terra d’origine. Ha parlato poi di quello che continua a ritenere un mestiere (molto tra virgolette), ché richiede anche energia fisica data la quantità di lavoro manuale necessaria, ma che non ha mai smesso di amare e di praticare con passione, e senza mai scendere a compromessi. Terminata la cerimonia, ci si è spostati al Circolo Il Paese, dove si è tenuto lo squisito pranzo in onore di questo artista che, pur vivendo da tempo altrove, non ha perso del tutto il suo accento toscano; che non ha nulla, ma proprio nulla del divo; e che si è concesso volentieri alle domande di Fabrizio Borghini (Toscana TV), di Paola Leoni (Tele Iride), e del sottoscritto."
Ebbi davvero la fortuna di intervistare Giuliano Vangi. Il Maestro era molto rilassato e felice, al termine del pranzo in suo onore. Pubblicata anch'essa sul Galletto, l'intervista mi pare ancora perfettamente attuale e, in attesa di poter ammirare le 40 tavole su Papa Francesco, ve la ripropongo. Eccola di seguito.

Uomo nel canneto, Forte Belvedere 1995
- Maestro Vangi, nel 1989 fu allestita una sua mostra di disegni presso il rinnovato Museo Beato Angelico di Vicchio. Come si sente oggi, rispetto ad allora?
- A marzo faccio ottant’anni, e dovrei sentirmi più saggio e maturo. Dovrei. Però ho molta energia anche fisica, molta volontà, lavoro sempre 8-10 ore al giorno e faccio lavori molto grandi, come una scultura per la Corea, lunga 8 metri alta 3.60 e larga 4, in pietra. Ho molto entusiasmo, come quando avevo vent’anni, forse di più. A una certa età si cerca di non perdere un minuto, ciò a cui magari da giovani non si pensa. 
- In generale le piace di più scolpire o fondere?
- Tutt’e due. Non ho una materia preferita. Ogni soggetto porta la materia con sé, certe sculture si adattano alla pietra, altre al metallo, e a me piacciono tutte perché mi aiutano a rappresentare certe idee che ho. Una scultura in metallo, molto aperta, non potrei realizzarla in pietra, una scultura tutta bloccata in pietra non s’adatta al metallo.

Vangi intervistato dalla compianta Paola Leoni

- Nelle sue opere quanto c’è di passione e quanto di abilità e preparazione tecnica? 
- L’abilità è sicuramente necessaria, come per un musicista, che so, un violinista, che deve avere una grande bravura nel suonare e poi una grande sensibilità per trasmettere la musica che produce. Per realizzare le proprie idee ci vuole una certa bravura, altrimenti uno pensa, pensa e non sa concretizzare. Le due cose devono essere combinate insieme. 
- Come si pone nei confronti di un’opera di arte sacra? 
- Le opere di arte sacra mi vengono solitamente commissionate, ad esempio da architetti che progettano edifici religiosi. Quando le lavoro mi pongo in effetti in un modo diverso, nel senso che comincio a vedere la chiesa, leggo testi sacri, in modo da entrare in questo tema così grande e importante, anche se io non sono un grande frequentatore di chiese. Poi però uno si immedesima e cerca di capire più possibile, di portarsi al di fuori delle cose terrene.

Forte Belvedere 1995
- Le ultime opere d’arte che hanno fatto, diciamo così, notizia sono state ad esempio happening come la fontana di Trevi colorata di rosso. Secondo lei esiste oggi un margine perché un’opera d’arte ‘faccia notizia’ perché è bella e non perché fa scandalo? 
- Oggi si corre talmente, si va così di furia, che tutti hanno bisogno di farsi pubblicità, di uscir fuori immediatamente, e non solo nell’arte: magari una donna va a fare la velina per entrare in Parlamento! Non c’è più la pazienza dello studio, si fa tutto con facilità e, non avendo dietro molti studi, qualità, preparazione, è più semplice imbrattare una scultura antica o rotolare le palline colorate giù per la scalinata di Trinità dei Monti, non c’è bisogno di grandi sacrifici, è una strada breve e veloce. 
- Ci sono in arrivo giovani artisti validi? 
- Ce ne saranno, ma non ne conosco molti. È un po’ sparito il mestiere, l’arte di saper lavorare certe materie. L’artigianato dell’arte si può dire che non si insegna quasi più. 
- E infatti, immagino un bambino che le chiede: Maestro Vangi, io da grande voglio fare lo scultore. Da dove comincio? 

- Ci vuole un sacco di pazienza e sacrifici. Se uno pensa di diventare subito famoso e fare soldi parte col piede sbagliato e non arriverà lontano. Deve lasciar perdere denaro e arrivismo, mettersi con molta umiltà a imparare, a studiare la natura, a cercare di capire cosa ha davanti, cosa vuole dire, perché lo vuole fare.
- Oltre all’opera per la Corea ha altri progetti cui sta lavorando?
- Sto facendo sculture anche per me. Lavoro dei graniti, e poi una scultura in bronzo lunga 12 metri. Non penso: questa scultura non la venderò mai perché è grande o perché è pesante o non piacerà. Ho sempre fatto ciò che mi piace fare. 
- Ultima domanda, Maestro: cos’è il Mugello per Giuliano Vangi? 
- Beh, intanto ci sono nato e qui ho ancora dei cugini. È una terra talmente bella, eccezionale, ove, come si sa, sono nati Giotto, l’Angelico, Andrea del Castagno, la mamma di Masaccio. È una terra fertile, colline bellissime, popolata da gente in gamba, gente semplice ma quadrata e sincera. Ho una vera mania per il Mugello e posso confermarle, come le avevo accennato, che, anche grazie alla nascita dell’Associazione Culturale Amici di Vangi, ho intenzione di tornarci molto più spesso di quanto non abbia potuto fare finora.

Penso che questa sia l'occasione per il ricordo commosso di una amica carissima: un'amica mia, del mondo culturale non solo mugellano, e di tutte le persone di buona volontà: Paola Leoni, scomparsa il 24 ottobre 2018 al termine di una lunga guerra contro un cancro implacabile. Come in mille altri eventi, anche in quel giorno di febbraio 2011 non fece mancare la sua professionalità di giornalista, la sua bravura, la sua gentilezza, la sua straordinaria umanità, che per me costituiranno sempre una delle più importanti lezioni di vita.







mercoledì 28 novembre 2018

Maurizio Biagi: evoluzione di un artista



Maurizio Biagi vive all'Impruneta (FI) dall'età di 4 anni, quando la sua famiglia vi si trasferì da Greve in Chianti. Era il 1953. Una grande famiglia di mezzadri: sotto lo stesso tetto vivevano in dieci, fino al suo biscugino. Il piccolo Maurizio fece amicizia col coetaneo figlio del padrone. Me ne parla all'indomani della partenza da questo mondo di Bernardo Bertolucci, e non è possibile non ripensare a Depardieu e De Niro in Novecento. "Da bambini le differenze, di qualunque genere, non si sentono." chiosa. Ma, cresciuto, Maurizio cerca una strada diversa da quella familiare. Lavora per 6 anni alle fornaci dell'Impruneta, poi trova un impiego alla Manetti & Roberts, ove rimane fino alla pensione. 


Il talento e l'urgenza di creare, intanto, bussano alla sua porta fin dall'inizio degli anni '70. Extra lavoro, produce ceramiche, partecipando a mercatini. Finché non sorge il Gruppo Pittori Imprunetani, in seguito il gruppo Art Art di cui oggi è consigliere, e che lo vedrà sin dall'inizio tra i suoi protagonisti. È degli stessi anni l'incontro con Gianfranco Mello. "Di estrazione ben diversa dalla mia" racconta Maurizio. "Era figlio d'arte, il babbo era stato un importante scenografo teatrale, e lui aveva già esposto anche negli Stati Uniti, mentre io ero agli esordi e venivo da una famiglia contadina. Ma anche in questo caso, come fossimo stati ragazzi, nessuno dei due sembrò accorgersene. Si interessò ai miei lavori. Apprezzava, diceva, il mio spiccato senso del colore. Lavorammo insieme, andavamo a dipingere en plein air. Ho imparato tantissimo da lui, e non solo sul piano strettamente pittorico, ma anche su quello umano e filosofico. Finché mi raccomandò di camminare con le mie gambe e seguire la mia strada".

Questa strada conduce Maurizio a una serie di partecipazioni a esposizioni in compagnia di alcuni dei nomi più attivi e celebri a cavallo tra anni '80 e '90. Una soddisfazione la ebbe quando fu tra i segnalati del Premio Pittura di Panzano 1983, vinto da un artista del calibro di Ugo Attardi. La sua prima personale, nel 1986, ebbe la presentazione di Carmelo Mezzasalma, oggi Superiore di quella Comunità di San Leolino che da dicembre 2017 gestisce fra l'altro la Certosa fiorentina. Scrisse tra l'altro Mezzasalma:

Perché la pittura di Maurizio Biagi non nasconde le metafore dell'esistenza, le piaghe del vivere, l'acuto grido della carne: il ritmo del suo canto e il colore che si dispone nell'esatta e cangiante metamorfosi di quel presente l'accende e lo placa nell'intrecci d'un movimento così fisso e mosso al contempo da non tradire mai il fondo della sua espressione. Quel fascio di ginestre, nell'improbabile e pallido cobalto del cielo, nasce da un groviglio di radici naufragate nello spazio profondo e senza nome che rimanda, per opposizione, nell'immobile presenza dell'astro teso a racchiudere le avvolte penombre della natura, una natura della mente e dei sensi.

Il 1990 sarà forse l'anno d'oro per Maurizio: parteciperà alla mostra di affreschi su cotto nella Sala d'Armi Buondelmonti all'Impruneta, e alla 17^ Rassegna sestese di pittori grafici scultori. Esporrà insieme con artisti quali Silvio Loffredo, Enzo Faraoni, Gualtiero Nativi, Vinicio Berti, Sergio Scatizzi.
Maurizio mi porge il catalogo di una mostra dal titolo Pittori e scultori imprunetini, senza data, e neanche lui la ricorda con precisione. Devono essere gli stessi anni, e sfogliandone le pagine mi rendo conto una volta di più di quanto la vita artistica in provincia sia (sempre stata) viva e ricca di idee, non di rado innovative e stimolanti. Non tutto è naturalmente dello stesso livello, ma non c'è da sorprendersi se l'attività del gruppo Art - Art è dal 2005 addirittura frenetica, e nel relativo sito vi sono le galleries di - salvo errore - 71 Autori tra pittori, grafici, scultori e fotografi.

Il Nuovo iter 

Allo scadere del millennio Maurizio Biagi attraverserà un momento di crisi artistica. "Dal 2000 al 2010 ho prodotto poco, e pensato tanto. Da un lato, il figurativo mi era diventato stretto." E mi mostra Nuovo iter, dipinto che fece per lui da spartiacque. Mi torna alla mente il Primo acquerello astratto di Kandinskij, ma lui si schermisce, e continua: "Dall'altro, avevo iniziato una riflessione sul secolo appena terminato. Questo secolo in cui gli artisti si erano definitivamente liberati dal vincolo della produzione su commissione. Questo secolo che aveva prodotto l'informale, la pop art, lo spazialismo, l'action painting, il materico... te li dico alla rinfusa, ma sono tutti stili dopo la cui comparsa non ci si può più permettere di dipingere come duecento anni fa. Il mio intento, forse un po' ambizioso, era diventato quello di trovare una forma stilistica che racchiudesse, che sintetizzasse tutto il '900, almeno attraverso e secondo la mia visione."

Maurizio Biagi e i suoi monocromi all'Impruneta. Foto di Enzo Correnti

Una ricerca, dunque, preparata da anni con cura, riflessioni e continui ripensamenti, ma iniziata realmente intorno al 2012, e che prosegue tuttora. In modo del tutto naturale, quasi come in una dissolvenza incrociata, lo stile di Maurizio è approdato all'informale. Lo spiccato senso del colore di cui parlava Mello, oltre a una continua e autentica meditazione sul pigmento, ha originato le sue opere monocrome. "Sul cotto è possibile fissare il pigmento puro, senza bisogno di solventi. Ci pensi? Pigmento, nient'altro che pigmento. Colore, nient'altro che colore." Ed ecco i monocromi che in certe sue installazioni sembrano talvolta atomi di un organismo di proporzioni immense. Atomi. Elementi base. Punti di partenza. Mentre i suoi affreschi ci parlano, volendo proseguire la similitudine, di molecole. Più o meno complesse. Che diventano, su grandi superfici, altrettanto grandi molecole organiche. Punti d'arrivo? Non ancora. Il viaggio di Maurizio è ancora lungo e, nonostante le numerose, splendide tappe compiute, promette nuove mete.


Nel gennaio 2018 Maurizio, insieme con Manila Bennati e la collaborazione dell'architetto Rosy Goia, ha allestito la mostra Living d'autore, alla Roccart Gallery di Via delle Ruote a Firenze. Ecco cosa dichiara per l'occasione: “In questo contesto oltre a presentare i miei monocromi realizzati con pigmento puro, introduco anche il nuovo ciclo delle scritte sui muri: isolando una parola o una frase su un frammento di muro intendo ridare a loro il giusto peso e significato in un mondo affollato di immagini e parole.”

Maurizio accanto a una sua opera, con Susi La Rosa
E, mentre pensa alla sua prossima personale, "tutta ancora da concepire. Volevo allestire una mostra a tema, ci sto pensando. Te ne parlerò...", Maurizio ha creato una sorta di opera natalizia, usando una tecnica sfruttata non di rado in passato, il collage. Ne sta preparando un'altra per una collettiva, sempre alla Roccart Gallery. Un apparente disimpegno, ma la cura cromatica con cui è realizzato ne rende l'autore immediatamente, e inequivocabilmente, identificabile. 




sabato 10 novembre 2018

Futuristi in chiesa?!?


Davvero: Futuristi in chiesa! Vi aspetto la sera del prossimo sabato 24 novembre nell'Oratorio di S. Omobono - di fronte la Pieve - a Borgo S. Lorenzo, dove io e la mia amica Marilisa Cantini racconteremo la vicenda del Futurismo e di alcuni suoi protagonisti.
Dice: ma i Futuristi non mandavano bestemmie da far venir giù i lampadari? Eccome! Si 'deve' a Filippo Tommaso Marinetti (sotto), nella sua opera Gli amori futuristi - programmi di vita con varianti a scelta (1922), a pagina 108 la prima bestemmia stampata nella storia della letteratura italiana. Che non rimase certo l'unica.


Per di più, Marinetti parlava di svaticanizzazione dell'Italia, progetto preso in consegna dal fascismo delle origini. Né fu il solo del gruppo a non nutrire particolare simpatia nei confronti della Chiesa, e della religione in generale. Nondimeno, le vicende umane di alcuni esponenti del movimento futurista ebbero sviluppi inattesi e poco noti. Ve ne parleremo. 
Sarà poi l'occasione per superare alcuni cliché di cui il Futurismo è ancora prigioniero, e con i quali viene per lo più liquidato da chi, dopo averlo studiato al liceo, non se ne occupa più. È accaduto anche al sottoscritto. 

Nel 2007, alla Fiera del Libro di Torino, Umberto Eco tenne una straordinaria lectio magistralis dal titolo Le avventure di un bibliofilo. Potete leggerne la trascrizione integrale (se lo fate, poi mi ringraziate!) a questa pagina. Sul finire, elenca tutta una serie di epiche cantonate prese da sedicenti esperti riguardo autori, artisti, musicisti e quant'altro, e che saranno in seguito clamorosamente smentite. Nomi illustri compresi: Virginia Woolf in una lettera stronca l'Ulisse di Joyce, Ciaikowskij definisce Brahms un bastardo privo di qualità. Poi Eco dice:

Finiamo con una sola citazione dallo show business. Un dirigente della Metro, dopo un provino di Fred Astaire, nel 1928: “Non sa recitare, non sa cantare ed è calvo. Se la cava un po’ con la danza.” Che poi, a pensarci bene, non era del tutto sbagliato. Eppure era un errore. 

Allo stesso modo i Futuristi vengono ricordati dai più come un gruppo di facinorosi arroganti e maneschi, che volevano distruggere il passato, la grammatica, i musei e le biblioteche, erano dei guerrafondai e diventarono tutti fascisti. Anche in questo caso, a pensarci bene, non è del tutto sbagliato. Eppure è un errore. 
Perché si tratta di un errore contiamo di farvelo comprendere in S. Omobono. Non solo: su parecchi siti e non pochi libri, anche di notevole livello, si legge che il Futurismo è stata la prima avanguardia artistica italiana. Vi spiegheremo perché questa va considerata un'autentica boiata.
Alla fine della storia, sarà chiaro che parlare di Futuristi in chiesa, anche se a quanto ne so non ci aveva ancora pensato nessuno, ha una sua logica, e neanche tirata per i capelli. Al contrario.
Il racconto avrà un nutrito supporto di immagini, di letture e di musica, quest'ultima naturalmente suonata da Marilisa. Tranquilli: la musica non sarà eseguita con l'intonarumori, un ingombrante marchingegno inventato e usato negli anni '10 del XX secolo da Luigi Russolo. 

Russolo (coi baffi) e il suo intonarumori nel 1920 (Wikipedia)
Il Comune di Borgo S. Lorenzo patrocinerà l'evento. Un ringraziamento particolare va alla Cama Ascensori di Borgo S. Lorenzo per la sponsorizzazione.  Il ricavato della serata finanzierà il restauro dell'Organo Secentesco Stefanini. L'appuntamento è dunque per sabato 24 novembre alle ore 21 nell'Oratorio di S. Omobono a Borgo S. Lorenzo. Io e Marilisa vi aspettiamo!

Io e Marilisa in una foto scattata da A. Giovannini al Museo di Vicchio nel 2013







venerdì 2 novembre 2018

Primo Conti secondo Niccolò Niccolai


Il prossimo 12 novembre saranno trent'anni esatti da che Firenze e il resto del mondo sono senza Primo Conti. Nato il 16 ottobre 1900, il babbo l'aveva chiamato Umberto Primo, scosso dall'assassinio del sedicente Re buono. Umberto poi si perse per strada e rimase Primo Conti, musicista, scrittore, poeta, pittore. Fiorentinaccio. Uomo del Rinascimento nato nel '900, insomma. Anche se per la sua intera, lunga esistenza è rimasto prima di tutto, e fino al midollo, un pittore. Di questo è certo il mio amico Niccolò Niccolai. Gli credo, dato che Niccolò (nella foto d'apertura) è stato un allievo di Conti, e instaurò con lui una grande amicizia. Ed è stato Niccolò a farmi da guida alla grande e bellissima mostra (andateci!) dal titolo Fanfare e silenzi - viaggio nella pittura di Primo Conti, nella parte allestita a Villa Bardini - una seconda è alla Fondazione Primo Conti a Fiesole, una terza nella Sala del Basolato sempre a Fiesole, e tutt'e tre saranno aperte fino al 13 gennaio -, curata da Susanna Ragionieri e della quale Polistampa ha realizzato uno splendido catalogo. 

Vecchio dal turbante bianco, 1913 (!)
Niccolò conobbe Conti nel 1967. All'epoca, avere 67 anni voleva dire essere anziani. Primo Conti, anziano ma non domo, continuava allora imperterrito sul suo percorso. Un percorso iniziato quando, tredicenne, si presentò in pantaloncini corti all'Esposizione futurista di Via Cavour a Firenze. Era il novembre 1913. Attirò inizialmente le ironie e gli sberleffi degli espositori. Ironie e sberleffi che svanirono d'incanto quando questi iniziò a parlare, espose i suoi pareri, si mise a discutere con loro e, testimoniò Aldo Palazzeschi, pareva davvero Gesù fra i dottori. Li trascinò allo studio che già aveva in Via dei Della Robbia, e rimasero senza fiato nel vedere sul cavalletto il Vecchio dal turbante bianco. Divenne amico di tutti gli esponenti del futurismo, e di tutti conobbe e seguì le vicende umane e artistiche.

Marinaio ubriaco, 1919
Avrebbe poi detto a Niccolò della sua sensazione di essere stato allora un vecchio pittore che si era reincarnato in un bambino. E di essere tornato, in là con gli anni, alla ricerca di certe intensità e slanci che caratterizzarono la sua adolescenza. Conti, poi, si può dire che incontrò esponenti di tutte le avanguardie che hanno dominato il secolo da lui attraversato.  Il suo stile fu di volta in volta cézanniano, fauve, cubista, futurista, espressionista, metafisico, surrealista, dada, informale. Ciononostante, salvo errore, non ricordo di aver mai incontrato, nei testi da me consultati che parlano di lui, l'aggettivo eclettico. Perché non lo era.

Giotto e Cimabue, 1923
Dice Niccolò: "Conosceva bene il suo valore, e tuttavia aveva una grande umiltà, anche nei confronti degli altri artisti. Da tutti quelli che conobbe, e furono tanti - non solo pittori, ma anche scultori, architetti, registi, musicisti, scrittori, poeti -, seppe assorbire qualcosa. Era poi un lettore accanito e attento. Era insomma una spugna, e tutto ciò che percepiva e acquisiva andava ad arricchire il suo stile. Che restava suo. Guarda il Marinaio ubriaco, del 1919. Ci puoi trovare le tracce di Ottone Rosai, di Lorenzo Viani, il cubismo, il futurismo. Ma fai la sommatoria e ottieni ineluttabilmente Primo Conti. Guarda Giotto e Cimabue, del 1923. C'è ancora Rosai, vi si individua un'eco del Picasso del periodo Ingres, siamo calati in un'atmosfera  metafisica dominata però da una sorta di monumentalità che ancora si rifà al Rinascimento. Ma fai la sommatoria e ottieni ineluttabilmente Primo Conti."


Oltre la notte, 1976; Partire di sera, 1971; Luna blu, 1984; Grande figura seduta, 1966

Niccolò Niccolai ha avuto la fortuna di vedere Conti al lavoro. Molte delle opere esposte nella sala dei dipinti estremi le ha viste nascere. "La sua gestualità conservava una grande capacità di struttura disegnativa proveniente dalla tradizione fiorentina che si può far risalire al '500. Si alzava la mattina presto per riproporre i colori dell'alba. Ne otteneva delle opere non figurative, non materiche, non informali, che erano come delle Maestà. Maestà laiche. Ma il suo sentimento nei confronti del fenomeno fisico dell'alba era religioso!"

Veronica, 1931
Continua Niccolò: "Poneva al centro della tavolozza uno strato di olio di lino, e i colori ai lati. Mescolando volta a volta colori e olio, poteva dipingere con quella maggiore fluidità che rende i suoi dipinti inconfondibili. Si rimise in gioco a 70 anni e divenne amico di Rauschenberg, che dipingeva usando scope di saggina a mo' di pennelli. Primo continuò a usare i suoi pennelli, non potendo dimenticare il suo passato e le sue radici, ma il modo di usarli, diciamo così, tenne da allora in considerazione anche le scope! Conti non ha mai dimenticato né rinnegato nulla. Voglio dire che il futurismo se lo è portato dietro per tutta la vita. Ne trovi traccia nelle opere della 'vecchiaia', così come nella Veronica (1931): d'accordo, è un soggetto religioso. Ma la reminiscenza futurista c'è: è nella veste della donna in basso a destra. Se invece le circostanze esigevano quella somiglianza che non era nelle sue corde, nondimeno lui non si tirava indietro. Guarda questo ritratto di Luigi Pirandello, del 1928. E ne vidi un altro sempre di Don Luigi, che non è in mostra, e a mio parere è ancora più bello." Se possibile, aggiungo io.

Luigi Pirandello, 1928



sabato 20 ottobre 2018

Artisti (non) per caso


Sabato 27 ottobre 2018, alle 10.30, avrò il gradito compito di presentare, presso la sala del Comune di Dicomano (FI), la mostra di due amici artisti: Daniele Passiatore e Carlo Tesori.
Acquarellista il primo, mosaicista, scultore e, diremo così, assemblatore il secondo, come spesso capita hanno trovato una perfetta intesa nella loro totale diversità di stili. In realtà i punti che li accomunano non mancano. A cominciare dal fatto che l'approdo all'arte e alla creatività è stato per entrambi casuale, ed è avvenuto in età matura.

Daniele Passiatore
Daniele, classe 1954, di Contea (FI), ha gestito per anni con successo una ditta di attrezzature per la refrigerazione. Gli capitò un giorno, rovistando nel suo garage, di imbattersi in una cassetta di colori, impolverata e mezza scassata, che apparteneva al suo babbo. L'affidò a un falegname perché gliela riparasse. Era il 2006. Iniziò tutto quasi senza che Daniele se ne accorgesse. L'appassionarsi all'uso dei colori a olio, l'accorgersi che i risultati c'erano nonostante non avesse mai dipinto né frequentato scuole di sorta fino allora. Nel 2008 il colpo di fulmine per l'acquerello. "Era più difficile", racconta, "con l'acquerello non puoi permetterti di sbagliare, il tratto non si può correggere, non ci si può ridipingere sopra. Una distrazione e il lavoro è rovinato. Una sfida che ho voluto raccogliere."

Quotidianamente rivedendosi e migliorandosi, con umiltà e caparbietà Daniele ha saputo raggiungere risultati espressivi di straordinaria poesia e suggestione. Aggiunge talvolta un tocco di originalità, dipingendo su una pagina di giornale imperniata sul soggetto raffigurato: il tram, ad esempio, o il treno, che ricorre non di rado nella sua opera e, complice l'uso dell'acquerello, pare quasi farsi immagine onirica, ricordo evanescente, memoria da non lasciar scivolare via. Poche pennellate, invece, sono sufficienti per tratteggiare atmosfere agresti, paesaggi rurali sospesi, la natura al lavoro col tramite dell'attività umana. Daniele andrà ancora avanti nella sua ricerca, e continuerà a sorprenderci. 



Carlo Tesori
Per tutt'altre vie continua a sorprenderci Carlo Tesori. Un anno più di Daniele Passiatore, nativo della Rufina (FI), ha lavorato in un'azienda di ceramiche. Nel 2003, andando per funghi nella sua amata campagna, rinvenne un blocco di castagno. Gli venne voglia di scolpire e ricavarne una figura. Ci riuscì. Il resto venne quasi da sé. Si appassionò sempre di più alla creazione artistica, iniziò a dipingere a olio, ma in seguito si diresse verso una via assolutamente originale: quella che lui stesso chiama le cose strane
Non serve, accanto alle sue 'sculture' (capirete il perché delle virgolette), apporre cartellini con su scritto si prega di non toccare. Perché il suo stupefacente ragno è ricoperto di spine di acacia dipinte, e si lascia ammirare ...senza avvicinarsi troppo. Opere come questa, Carlo ne ha realizzate parecchie, con una pazienza certosina. All'esposizione vedrete una pantera nera che ha richiesto un qualcosa come 90.000 spine, una quantità imprecisata di vinavil, una tenacia non indifferente nell'apporle una dopo l'altra e un non esiguo numero di punture e tagli alle dita. 

È valsa la pena? Chi vede i risultati non avrà dubbi. Una volta passata quella sorta di inquietudine ancestrale dapprincipio generata dai soggetti, tra i quali spicca anche un drago, lascerà lo spazio a una incondizionata ammirazione. E non crediate che i mosaici siano un lavoro più tranquillo. "Un mio amico realizza vetrate artistiche, per le chiese e per appartamenti privati. Mi lascia sempre gli elementi scartati, che io poi assemblo, e pure qui magari ci scappa il taglietto al dito". 
Anche in questo caso, se è valsa la pena ve ne potrete rendere conto visitando la mostra. 


La quale mostra, ripeto, s'inaugura sabato 27 ottobre alle 10.30 e resterà visibile fino al 25 novembre durante gli orari d'apertura del Comune di Dicomano. In più, il sabato con orario 9-12.30, 15-19, 21-22.30 e la domenica 10-12 e 16-18.