venerdì 28 settembre 2018

Una strada che sale, anelante, al cielo


Al paese di Monte Ripaldi accompagna una strada che ha per nome Via Suor Maria Celeste. È una strada che sale, anelante al cielo, una scia di profumo che vuol portarsi a Dio.

Così inizia Monte Ripaldi, secondo racconto della raccolta Via Toscanella, scritta da Ottone Rosai nel 1930. Veramente non è un racconto, è uno schizzo pittorico realizzato usando la penna anziché il pennello, ed è brevissimo. Una paginetta soltanto.
Queste poche parole mi avevano fatto ripromettere di andare in cerca della via e della mèta. A Monte Ripaldi c'ero già stato alcune volte in passato, ma di Via Suor Maria Celeste non avevo un ricordo preciso. Immaginavo fosse una delle tante stradine collinari che rendono i dintorni di Firenze unici al mondo. Non mi sbagliavo.

Suor Maria Celeste è il nome che assunse Virginia Galilei (1600-1634), figlia illegittima di Galileo, quando entrò nel convento delle Clarisse del vicino convento di San Matteo in Arcetri. Celeste. Anche lei, dunque, anelò al cielo, non meno del padre, anche se da un diverso punto di vista. Ma diverso forse fino a un certo punto. Adorava il babbo, lo rivela il nutrito carteggio epistolare con lui, giunto a noi purtroppo solo in un senso. Le risposte dello scienziato furono distrutte quand'egli ancora non era visto molto bene dalle autorità religiose. Solo nel 1737 si scoprì che padre e figlia erano stati sepolti assieme nello stesso feretro. Altri particolari sulla religiosa li trovate in questo articolo di Luciano Canova.



Lunga e tortuosa, Via Suor Maria Celeste si diparte dal Largo Enrico Fermi, presso il Poggio Imperiale, e, non limitandosi a condurre verso Monte Ripaldi ma anzi dipanandosi e anche sdoppiandosi più volte, finisce per sboccare in Via Gherardo Silvani, non distante dalla Propositura di San Felice a Ema. Io ne ho percorso solo una parte, per raggiungere appunto Monte Ripaldi. Dopo il tratto di Via San Leonardo opposto a quello che conduce al Forte Belvedere, con la bicicletta a mano perché è contromano e, contrariamente a quanto credevo, è trafficatissimo, mi sono letteralmente tuffato nella via anelante al cielo.

Per un ciclista con un minimo di allenamento, Via Suor Maria Celeste è - e ci risiamo - il Paradiso, perché ad ogni salita segue subito una discesa. Dopo il traffico di Via San Leonardo, qui domina il silenzio. Macchine rarissime, passanti ancora di più. Rosai scriveva:

Nei muri, negli alberi e nelle rade case che la costeggiano c'è impressa la fede e i pochi viandanti che passano hanno qualcosa di differente a tutti i viandanti di tutte le strade. Il loro passo è mite, lo sguardo dolce, il loro incedere: di gente tranquilla, serena, vicina agli spazi celesti. 

Io però ho incrociato solo due ragazze che, parlando tra loro fittofitto in americano, hanno proseguito il loro camminare abbastanza frettoloso dopo avermi guardato incuriosite e forse chiedendosi perché scattavo foto.

Coltivazioni. Soprattutto olivi. Muretti che sanno forse meno di Ottone Rosai che di Telemaco Signorini. Una villa chiamata Torre al Pino. Altre ville in lontananza. Boscaglia. Sulla destra della strada vi sono frequenti leggeri slarghi, che permettono alle macchine di sfilarsi, e ai passanti - se ci sono - di affacciarsi sulla valle dell'Ema. La quale compare in lontananza, quasi evanescente. Ha un che  di onirico.  Sarà la forza di suggestione, ma il colore che davvero rimane nella memoria percorrendo questa via è l'azzurro. Il Celeste. Gli olivi, onnipresenti alla vista, fanno quasi da tramite col verde del resto della vegetazione e, dal verde, dissolvono nell'azzurro..

Via Suor Maria Celeste prosegue a destra. Un gruppo di studenti e studentesse usciti da un portone quasi al bivio ci si avvia chiacchierando. Anche loro parlano americano. Io, dovendo raggiungere Monte Ripaldi, svolto in Via S. Matteo in Arcetri. Le sensazioni non cambiano. Non c'è da sorprendersi: per un buon tratto corre parallela a Via Suor Maria Celeste, a una quota più bassa. Si raggiunge la chiesa che dà il nome alla via. È chiusa. Da dentro si sente una musica d'organo. Il cartello I luoghi della fede ci informa che, dopo essere stato monastero femminile prima delle Agostiniane poi delle Clarisse, dal 1897 è passato ai Carmelitani Scalzi, e che l'attuale costruzione è recente. Poche centinaia di metri più avanti, al trivio di Via S. Matteo con Via del Pian dei Giullari e il Viuzzo di Monte Ripaldi, su una lapide senza data, leggeremo un proclama degli implacabili e Spetabili Otto di Guardia e di Balìa, che proibisce nel modo più assoluto di giocare a gioco di carte di palla palloncino di ruzzola et a qualunque altro simile gioco entro un raggio di duecento braccia dal convento.


Il silenzio quasi surreale che continua a dominare Via S. Matteo viene festosamente sbaragliato dal vocio di bambini proveniente dall'interno della Scuola Galilei - Istituto comprensivo Galluzzo. All'ingresso è rimasta la lapide con su scritto un rassicurante - per un anziano! - Scuola Elementare - maschile e femminile - Galileo Galilei. Siamo proprio all'angolo con Via S. Michele a Monte Ripaldi. Nuovo saliscendi, mentre le voci si affievoliscono rapidamente. Bivio con una strada senza uscita, annunciata da relativo cartello. Discesa. E mi trovo nella piazzetta di Monte Ripaldi, dominata sulla sinistra dalla bassa facciata della chiesa di S. Michele e dall'alto campanile neogotico. Pochi metri più in là, la via termina con la cancellata della Villa La Piccioncina. In un portone di fronte la chiesa entra un signore che aveva appena parcheggiato la sua auto e mi aveva gioiosamente salutato in francese. Sarà frutto del caso, ma in questa mia pedalata - passeggiata non ho incontrato un solo viandante italiano. 

Ci si sente irrazionalmente al sicuro, qui. Si ha come l'impressione che in questo luogo raccolto eppure prospiciente spazi aperti vastissimi nulla possa farci del male. La chiesa, antica ma modificata nel '700, è chiusa. Nel 1548 ne fu rettore il mugellano Monsignor Giovanni Della Casa. Sì, quello che scrisse il Galateo. Sulla bacheca, annunci dei prossimi festeggiamenti in onore del titolare. Il campanile è davvero bello e svetta sulla piazzetta in grande armonia ed equilibrio con la chiesa, la canonica e le altre case. Uno lì per lì s'immagina sia una costruzione antica che da secoli veglia rassicurante sulla piazzetta, e ci rimane quasi male a leggere che è stato costruito solo nel 1871, da un tale ingegner Adolfo Mariani.
Dall'altra parte, tra cipressi, un basso parapetto. Al di là, la valle dell'Ema. Per essere straordinaria, lo è. Eppure, come mai mi accorgo di non esserne così entusiasta come mi aspettavo?

Ero stato qui in un giorno di pausa dagli studi per la maturità (1979!) col mio compagno di liceo Gianni. Lo avevo fotografato seduto sul muretto. Entrambi eravamo rimasti incantati da quanto avevamo visto. Sono riuscito poi a ritrovare la foto. Scattata male e stampata peggio, rivela però, a differenza di adesso, l'ampio e disteso aprirsi di un panorama mozzafiato. Oggi, un folto e fastidioso cespugliame in primo piano ostruisce in gran parte la visione magica della valle, che si perde in lontananza. In questa lontananza, tra gli ondulamenti del terreno, i villaggi, le case sparse, le ville, spicca la Certosa. Ma ecco perché, affacciandomi, la mia ammirazione era disturbata da una perplessità che non sapevo spiegarmi, non ricordando bene.


Purtroppo una nota amara conclude dunque la relazione di questa pedalata, che costituisce il post numero 100 del mio blog. Mentre Ottone Rosai chiudeva così: 

Da i muri sgorgano fiori di ogni razza inondando il paese di delicati profumi.
Gli abitanti irreali, il cielo immenso, tutto fatto per lui. 
Tutto è nuovo, giovanile, in questo paese incantato. L'erba sempre verde è un continuo sbocciare di fiori. 
Il sole vi sosta delicato carezzando dolcemente le cose. 
Monte Ripaldi, dal giorno che ti ho scoperto ho trovato Dio. 

giovedì 20 settembre 2018

Incunaboli fiorentini


La stamperia del convento di S. Jacopo a Ripoli, in via della Scala a Firenze, durò solo dal 1476 al 1485, ma ebbe il merito indiscusso di portare a Firenze, diremmo oggi su scala industriale, l'invenzione di Johannes Gutenberg.

La fatidica Bibbia a 42 linee (foto d'apertura, da Rai Storia), oggi visibile on line per esempio qui, uscì il 23 febbraio 1455 e fu, più che un punto di svolta, il punto di svolta per la cultura universale. "Ci sono voluti tre anni per completare la stampa di 180 copie della Bibbia. Il tempo che un amanuense avrebbe impiegato per portarne a termine una", si legge su questa bella pagina in cui, con grande abilità di sintesi, sono spiegati i precedenti e le conseguenze di questa data. E si aggiunge: "La nuova tecnica si diffonderà in poco tempo in tutta Europa: in 50 anni verranno stampati 30.000 titoli diversi per una tiratura complessiva superiore ai 12 milioni di copie. I libri stampati fino al 1500 verranno in seguito chiamati “incunaboli”.

Cesare Cantù, nella sua Storia della letteratura italiana (Firenze 1865), premette:

Pare condizione vitale della società che le scoperte vengano appunto quand'essa ne ha bisogno per ispingersi con nuovo slancio. Allora dunque che l'amore per la letteratura classica volgeva a cercar con passione e riprodurre gli esemplari, e che le grandi controversie dei re e della Chiesa faceano moltiplicare scritture, comparve l'arte più efficace fra le moderne, la stampa. 

E più avanti:

Presto quell'arte giunse in Italia, e del 1465 abbiamo l'edizione di Lattanzio a Subiaco per Corrado Schweinheim e Arnoldo Pannatz, coll'assistenza di Giovanni Andrea Bussi di Vigevano, poi vescovo d'Aleria: ma dicesi preceduta da un Donato. In Roma al 70 eran uscite almeno ventitré stampe di antichi. (...) Fino al 1500 s'erano stampate a Parigi settecencinquantun'opere; in Italia quattromila novecentottantasette, di cui a Firenze trecento, a Bologna dugennovantotto, a Milano secenventinove, a Roma novecenventicinque, a Venezia duemila ottocentrentacinque; e altre cinquanta città aveano stamperie. Anche borgate vollero averne, come Sant'Orso presso Schio, Polliano nel Veronese, Pieve di Sacco nel Padovano, Nonantola e Scandiano nel Modenese, Ripoli presso Firenze.

L'ex Convento di S. Jacopo a Ripoli, via della Scala, Firenze

Peccato che, proprio in fondo, Cantù faccia uno scivolone, ritenendo evidentemente che la stamperia di S. Jacopo a Ripoli fosse sorta per l'appunto a Ripoli, sulla Aretina, alla periferia est di Firenze. Mentre, come abbiamo visto, si trovava ben entro le mura cittadine, in via della Scala. Aveva mantenuto il nome di quello che è considerato il più antico monastero domenicano femminile in Toscana. All'inizio del 1200 un mercante dal nome scioglilingua, Diomicitidiede di Buonagiunta del Mercatante, edificò a Ripoli e intitolò a S. Jacopo un romitorio che ospitò nel 1221 i primi frati domenicani, in seguito dei padri francescani e, dopo il trasferimento di questi ultimi in città, fu promosso monastero di monache verso il 1229 (secondo certe fonti il 1250). La distanza da Firenze, l'isolamento del posto e probabilmente i disaccordi tra le occupanti, portarono a un trasferimento entro le mura. Le monache trovarono inizialmente ospitalità in casa dei Cerchi, dopodiché una parte di esse andò nel convento di S. Domenico del Maglio, mentre l'altra si stabilì in via della Scala. Si era intorno al 1300.

Le monache del Convento non tardarono ad acquisire la fama di abili miniaturiste. Un esempio citato da Fineschi (che reincontreremo tra breve) è il manoscritto de Lo Specchio di Croce, opera di Frate Domenico Cavalca (1270-1342), copiato e miniato da Suor Angelica monaca di Ripoli in data 1460. Nel 1474 Frate Domenico da Pistoia e Frate Piero di Salvatore da Pisa furono assegnati al Monastero in quanto provveditori. Avendo appreso, non si è riusciti a sapere dove e quando, l'arte della stampa, installarono in una stanza attigua ai locali del Monastero una tipografia, che iniziò l'attività nel 1477.

La produzione della stamperia Apud Sanctum Jacobum de Ripoli venne completamente dimenticata per trecento anni. Ciò è in parte spiegato - ma non giustificato - dal fatto che il primo testo a stampa prodotto a Firenze fu opera di Domenico Cennini (1415-1498), orafo. Questi, nel 1472, con notevole dispendio di energie fisiche ed economiche, produsse insieme con il figlio Piero i Commentaria in Vergilium di Mauro Servio Onorato. Rimase la sua sola opera stampata, ma il primato oscurò l'attività di gran lunga più intensa della stamperia di Ripoli. Nel 1722 Padre Pellegrino Orlandi scrisse Origine e progressi della stampa o sia dell'arte impressoria e notizie dell'opere stampate dall'anno 1457 sino all'anno 1500. Giunto a parlare di Fiorenza, dopo un ponderoso omaggio a Cennini, nominò sì i Frati Domenico e Pietro, ma citando quattro sole pubblicazioni della stamperia di Ripoli, "le quali non poco mi hanno incomodato nel ricercare qual luogo egli sia, e quali fussero gl'impressori vicino ad esso". Domenico Maria Manni, nel 1761, tenne una conferenza Della prima promulgazione de' libri in Firenze, in cui lodò Cennini e non fece alcun cenno alla stamperia di Ripoli. Non vi fece alcun cenno neanche il Richa, parlando del convento di S. Jacopo a Ripoli nelle Notizie istoriche delle chiese fiorentine (1756).

Nel 1781, Padre Vincenzio Fineschi, archivista di Santa Maria Novella, dette alle stampe le sue Notizie storiche sopra la stamperia di Ripoli. Aveva ritrovato quasi per caso un libriccino di  130 pagine: il libro delle spese della stamperia. Da qui poté ricostruirne la storia. 

I quattro titoli citati dall'Orlandi erano la Vita di S. Caterina, l'Etica di Aristotele commentata da Donato Acciaioli, gli Argonauti di Valerio Flacco e il Libro degli Imperatori e Pontefici di Francesco Petrarca. Ma nell'arco di meno di dieci anni, Apud Sanctorum Jacobum de Ripoli, di titoli, dal 1476 al 1483 ne pubblicò almeno dieci volte tanto: Fineschi ne elenca quaranta. A cui vanno aggiunte "le Immagini principalmente quelle della Madonna del Rosario e di S. Margherita Verg. e Mart." che si tiravano a impronta di legno. Scrive Fineschi:

La prima Partita è sotto il dì 14 di Novembre dell'anno 1476. dalla quale si raccoglie il primo libretto ivi stampato, e che già era principiata la Stamperia da qualche mese; perché nel suddetto giorno furono portate a vendersi alla Bottega di Domenico Cartolaio numero 400 Grammatiche di Donato; lo che è stato ignorato fin qui da tutti gli storici.

Frate Domenico e Frate Pietro costituirono società con esperti tipografi, sopratutto tedeschi, per gli aggiornamenti e i miglioramenti della produzione. 
Un erudito dei nostri giorni, il Dr. Paolo Piccardi, scrive:

Historia d'Alexandro Magno, con
iniziali miniate
La stamperia era dotata di vari reparti, che si occupavano, rispettivamente, di tutte le fasi di composizione dei libri, compresa la fusione dei caratteri da stampa, che avveniva nella cosiddetta “getteria”, dove lavorò anche l’orafo Benvenuto di Chimenti, per il quale esistono mandati di pagamento per un totale di 110 lire, per la composizione di tre alfabeti, due di carattere antico e l’altro moderno. Per la “getteria” venivano acquistati vari metalli, fra i quali il rame, che serviva per fare le “madri” delle lettere, ossia quei piccoli pezzi, nell’estremità dei quali vi è un’ intaccatura, per fare i segni di punteggiatura e di abbreviazione. Poiché la scultura del rame richiedeva punzoni di acciaio, anche di questo metallo troviamo registrazioni di acquisti, così come di piombo, di stagno, e di “marcassita”, un additivo della lega, che veniva acquistato presso la Spezieria di S. Marco. Venne acquistata una tavola di marmo, che serviva per tenere in squadra i caratteri come uscivano dalla fusione, per essere rinettati accuratamente. Si compravano anche strumenti di lavoro, fra i quali un trapano “fatto a guisa di succhiello”, e una “gallinella”, che serviva per tenere fermo il punzone durante il lavoro. C’è l’acquisto, ovviamente, del “fornello” per la fusione e la “Tafaria”, ossia un vaso di legno dove venivano riposte le lettere.

Si servivano, per l'acquisto della carta, dei cartolai che all'epoca erano concentrati in particolare nella Via del Garbo, l'attuale Via Condotta, probabilmente nel tratto da Via Calzaioli a Via dei Magazzini. Prosegue Piccardi:

(...) La carta più comunemente usata era quella del Colle, che veniva pagata lire 2.6 la risma. La carta di Prato costava lire 2.10. La carta di Fabriano (la migliore era quella col segno del Balestro) era venduta da Andrea cartolaio e costava 3 lire. C’era poi la carta all’uso Bolognese, di due tipi, uno di qualità inferiore che costava lire 3.10 e l’altro, di qualità superiore, che costava lire 6.8 la risma.

Gli Argonauti di Valerio Flacco: incipit

Alla cura nella produzione del prodotto corrispose altrettanta cura nella promozione, grazie alla quale si avviò una vera rete di distribuzione, costituita da eruditi e religiosi, entusiasti dell'opera compiuta dai frati e si suppone per nulla restii a fare da spedizionieri. Da un tale Antonio de' Nerli che andava a vendere i libri fuori Firenze, a "i Monaci della Badia Fiorentina, i Monaci degli Angioli, i Monaci di S. Salvi, i Frati di S. Bernardo, il Priore dello Spedale della Scala, e altri, che erano interessati ad estendere questo commercio virtuoso", un po' tutti divennero clienti e a loro volta distributori.
La citata Vita di S. Caterina da Siena, di Fra Raimondo da Capua, uscita già all'inizio del 1477, fu probabilmente il best seller. Costava una copia 2 lire e 10 soldi, ed esisteva la versione con le iniziali miniate manualmente da maestri miniatori, a 3 lire. I guadagni della tipografia consentirono l'acquisto di nuovi locali adiacenti al convento e di un mulino presso Brozzi. 
Frate Pietro morì nel settembre 1479. L'attività della stamperia proseguì condotta da Frate Domenico insieme con il tipografo Lorenzo Veneziano. Il libretto in mano del Fineschi termina nel 1483. Frate Domenico morì nel 1489.

Gli Argonauti: colophon
Ancora oggi si può rimanere sbalorditi, nel leggere i titoli delle opere prodotte dalla stamperia Apud Sanctum Jacobum de Ripoli. Dalla tipografia di un convento ci si aspetterebbe - ingenuamente - una produzione esclusiva, o almeno una prevalenza assoluta di opere sacre. Le opere sacre c'erano, ma accanto ad esse ne figuravano altre come il Morgante di Luigi Pulci, alla cui stampa contribuì e ne fu retribuita tale Suor Marietta del Convento. Come un Computo della Luna. E poi le Regole grammaticali di Giovanni Battista Guerrino, che ebbero una ristampa (fate caso all'attenzione dei produttori per l'argomento grammatica!). La Historia d'Alexandro Magno di Quinto Curzio Rufo tradotta da P. Candido. Abbiamo già visto l'Etica di Aristotele tradotta da Donato Acciaioli. Il Libro delle Selve di Stazio Papinio, tradotto da Ser Bartolommeo Della Fonte (Fonzio), umanista che pubblicò sempre per Ripoli (1477) l'Explanatio in Persium Poetam, con dedica a Lorenzo de' Medici, e lavorò anche in stamperia come correttore di bozze.
Francesco di Niccolò Berlinghieri e Filippo di Bartolommeo Valori, discepoli di Marsilio Ficino, "desiderando di rendersi grati al suo Maestro" scrive Fineschi, "il quale aveva tradotto l'Opere di Platone convennero con F. Domenico nostro, e Lorenzo Veneziano, perché nella Stamperia di Ripoli si stampassero più Dialoghi di Platone in numero di mille venticinque esemplari".
Una copia tradotta in latino del De regimine sanitatis ad soldanum babyloniae di Maimonides (Moses Ben Maimon) (1135-1204) è andata aggiudicata nel 2015 da Sotheby's per 25.000 dollari. Ma è leggibile on line, anche se certo non è la stessa cosa, quella conservata alla Nazionale, a questo indirizzo. Tra i testi non citati dal Fineschi, ho rintracciato un Decamerone, datato 13 maggio 1483, e La morte degli uomini famosi - Nessun si puote felice chiamare (agosto 1484).
Altri esemplari originali sono consultabili on line e per lo più scaricabili. Leggere questi incunaboli è come pilotare un'auto del 1902 o pedalare una bicicletta del 1850. Difficile e faticoso. Per forza. Eravamo ai primordi. Caratteri tutti uguali, pochi capoversi, italiano - se italiano - dell'epoca. Ma ammettiamolo: hanno un fascino esagerato.
Il ruolo della stamperia Apud Sanctum Jacobum de Ripoli nel progresso della cultura e del sapere ci si immagina all'epoca fenomenale. Nonostante il periodo di oblio cui ho accennato, della sua certo immensa eredità ancora oggi ne giunge forse qualche traccia a tutti noi. Tutti noi che amiamo i libri quasi con furore e cerchiamo disperatamente e quotidianamente di essere meno ignoranti. O, volgendo il concetto in positivo, di sapere oggi sempre qualcosina di più rispetto a ieri. Frate Domenico da Pistoia e Frate Piero di Salvatore da Pisa meritano la nostra più profonda e sincera gratitudine.















sabato 8 settembre 2018

Su questo ponte passò Annibale (mah, forse, dice)


Nonostante alle elementari i sussidiari ci avessero inculcato tanto odio e disprezzo per il bieco e sanguinario cartaginese Annibale, acerrimo nemico di quella Roma i cui generali spesso non erano da meno, la toponomastica a lui dedicata supera ogni immaginazione. Proviamo a cercare su Google "ponte d'annibale", virgolettato. Troviamo nella prima pagina notizie di quattro ponti con questo nome: quello sulla Sieve a Sagginale presso Borgo S. Lorenzo, favorito per avere anche una via ad esso intitolata; il ponte sull'Arno a Bruscheto tra Reggello e Incisa val d'Arno; il ponte tra Rapallo e Santa Margherita Ligure; a sud, il ponte a Ricigliano, in provincia di Salerno ma quasi al confine con la Basilicata. 

Il ponte d'Annibale a Bruscheto. Sandro Fabrizi ne parla qui
Esistono poi non distanti da quest'ultimo almeno altri due ponti d'Annibale: uno sul Titerno a Cerreto Sannita (Benevento); l'altro che incredibilmente, nonostante l'antichità, il terremoto del 1980 non riuscì ad abbattere, è posto sul fiume Melandro che scorre tra le province di Potenza e Salerno.
Siamo già a sei ponti intitolati al condottiero cartaginese, e sempre con la motivazione che secondo un'antica tradizione vi transitò Annibale. Di sicuro ce ne sono altri, ma fermiamoci pure qui, e anzi restiamo nella zona appenninica.

Il ponte d'Annibale su Titerno a Cerreto Sannita

In un reportage storico dedicato appunto ad Annibale (poi divenuto un libro intitolato appunto 'Annibale', Feltrinelli 2008), il giornalista Paolo Rumiz stila un breve e certo anch'esso non esaustivo elenco di siti relativo al centro nord: 

Casteggio: fontana di Annibale. Modigliana: pozzo di Annibale. Due ponti d'Annibale sull'Arno e due sulla Sieve. Un canto d'Annibale nel Mugello. Un monte Annibolina verso le spiagge di Rimini. Una singolar, popolarissima tenzone medioevale a Faenza, chiamata 'palio del Niballo'. Pievepelago passa ogni limite: passo di Annibale, ponte d'Annibale, via d'Annibale, campi d'Annibale. Poi un paese di nome Magona (da Magone, si dice, il fratello minore di Annibale), una frazione di nome Tàrtago e un'altra di nome Zerba, fantasticamente attribuite a Cartago e Djerba dai valligiani piacentini.
Pazzesco. Nella sua Blitzkrieg [guerra lampo] il Nostro ha attraversato Emiia e Toscana quasi di corsa, eppure il suo nome è ovunque. Perché? (...) Come sulle Alpi, dove almeno venti passi si contendono la palma dell'attraversamento, anche in Appennino tutti vorrebbero far passare il Cartaginese da casa loro. Ma mentre sulle Alpi la memoria si sorregge anche su dibattiti accademici, qui essa affonda soprattutto nell'immaginario - nel subconscio quasi - della nazione. Entra nella carne del paese, diventa leggenda.  

Il ponte d'Annibale sul Melandro

Annibale come Garibaldi, insomma: un suo passaggio e magari una bella lapide commemorativa non si nega a nessuna località. Tanto, se non si può dimostrare con certezza che c'era stato, come si fa a smentire con certezza che non c'era stato?

Il ponte di Sagginale, tra Vicchio e Borgo San Lorenzo (foto d'apertura), colpisce l'immaginazione, data la sua architettura forse esagerata rispetto al corso d'acqua che permette di superare. Pur essendo piuttosto stretto - in definitiva a una sola corsia -, poggia su ben sei ampie arcate. Giorgio Batini, nel suo bel libro Toscana fuoristrada (Bonechi 1969), afferma: "risulta dai documenti che il ponte fu ricostruito in pietra nel 1331, con il concorso della gente di vari paesi, sopra le pile di un ponte romano.", confermando quanto scritto da Brocchi (1748): "fabbricato sopra le pile del Ponte antico, il quale dicono, che vi fosse fino (d)a tempo de' Romani". Ciò renderebbe per lo meno plausibile una tradizione secondo la quale il condottiero in persona fece costruire il ponte; o più semplicemente sfruttò il ponte già esistente, per attraversare la Sieve con il suo esercito (40.000 soldati, più cavalli, carriaggi ecc.). In realtà si tratta di una tradizione impossibile sia da dimostrare, sia da smentire. Certo, il viadotto sagginalese è ben più corposo e robusto rispetto agli altri 'ponti d'Annibale' - alcuni di essi poco più che passerelle, per quanto suggestive -, e ci s'immagina istintivamente che avrebbe sopportato un transito così abnorme. Il problema è che non si saprà mai con precisione il tragitto che Annibale compì dopo varcate le Alpi e prima di giungere al Trasimeno, dove nel 217 a.C. vinse una delle battaglie cruciali della Seconda Guerra Punica. I testi storici di riferimento (Tito Livio e Polibio) sono stati interpretati in vari modi dagli studiosi, senza giungere a una conclusione certa. Le conseguenze ce le dice ancora Rumiz: 

Non c'è una delle valli da Piacenza a Cesena che non rivendichi il blasone del transito illustre. (…) Giogo della Scarperia! Ma no, non esiste, il posto giusto è il Sasso di San Zenobio. La Futa! Fu sicuramente la Futa! Macché Futa, a quei tempi la strada migliore per l'Arno era il valico di Porta Collina, poco oltre Porretta. Niente affatto, giurano alcuni: la strada è Forlì, Meldola, passo del Muraglione. No, no e poi no, giurano altri, Lui è passato per Castel dell'Alpi. Oppure in Val Lamone.

Il tabernacolo al centro del ponte d'Annibale a Saggnale


Ad ogni modo, secondo Emanuele Repetti (1846) "non lascia più dubbio [eh, magari] il passaggio d'Annibale per il toscano Appennino, escluso quello del Lucchese e della Lunigiana (…) dopo tutto ciò devesi convenire, che tale traversa non poté aver luogo altrove fuori che per la montagna di Pistoja o per l'Appennino del Mugello". Chini, nella sua Storia antica e moderna del Mugello (1875), formula l'ipotesi più precisa di un passaggio "dalla valle del Santerno ascendendo l'Appennino e calando co' suoi feroci affricani in mezzo alla val di Sieve. Piegando quindi a levante e prendendo la via che ora dal Borgo S. Lorenzo conduce a Vicchio (…)". Non si sono tuttavia trovati - tanto per cambiare - riscontri sicuri a questa tesi. Né alle altre. Nondimeno, Chini prosegue: "Che Annibale passasse di Mugello è anche costante tradizione popolare", ma il ponte di Sagginale, da lui come dagli altri storici, non viene nominato. Cita invece un non meglio precisato 'Canto d'Annibale' - quello citato anche da Rumiz - di cui però oggi non è rimasta memoria. Il ponte di Sagginale, nei secoli, ha assistito certamente a parecchi eventi storici oltre che naturali. Può darsi che chissà, in antico, una quantità di individui guidati da un africano lo abbiano superato.

Di sicuro altri individui, oltre settant'anni fa, riuscirono per la prima volta, in parte, a distruggerlo. Venne subito ricostruito. La lapide sotto al tabernacolo posto al centro del ponte è datata 8 settembre 1947. La (ri)costruzione di un ponte è sempre qualcosa che induce alla speranza e oggi, qualunque sia il suo passato, il ponte d'Annibale collega ancora le due sponde della Sieve, tra Borgo San Lorenzo e Vicchio.
La collocazione di un tabernacolo su un ponte è peraltro retaggio di una usanza fatta risalire al medioevo, quando - ce lo ricorda la mia amica Beatrice Pucci nel suo prezioso Le romite del Ponte alle Grazie - "Le cappelle costruite sugli attraversamenti fluviali in onore della Madonna e dei Santi Patroni garantivano l'intervento divino che neutralizzava il pericolo delle acque sottostanti". Pericolo che in tempi recenti si è manifestato almeno due volte, nel marzo 2013 e nel febbraio 2017, quando la Sieve si ingrossò in modo preoccupante, lambì le arcate e costrinse alla chiusura al traffico del ponte. Ma in entrambi i casi la minaccia rientrò senza danni rilevanti. Non fu così nel febbraio 2014, quando la Sieve esondò. Il campo sportivo finì sotto 70 centimetri d'acqua. La piazza di Sagginale, giardini e orti, scantinati, alcune case, furono allagati.

La lapide sul tabernacolo (8 settembre 1947)