martedì 29 agosto 2017

Enrico Visani, o il Maestro di Marradi 2.0


“No, ti prego”, mi ha detto al telefono Enrico. “Non paragonarmi al Maestro di Marradi. Lui sì che era un maestro, non c’è confronto, lui è riuscito a produrre opere bellissime, io sto solo cercando di produrre qualcosa, magari qualcosa di valido, e ancora non mi pare proprio di riuscirci, non del tutto per lo meno”. Io ed Enrico Visani siamo amici da anni, e spero perdonerà questo mio tradimento a partire dal titolo. Perché Marradi, dopo il Maestro omonimo, dopo Dino Campana, può tranquillamente annoverare Enrico Visani tra le sue glorie.
Enrico Visani, nato appunto a Marradi nel ’38, ha amato la pittura – come tuttora l’ama – fino al rischio e al sacrificio. Fino a pagare di persona. Sembra retorico, lo so, ma è la storia della sua vita. Enrico non nacque in un luogo né in un periodo in cui la vita era particolarmente facile. A 12 anni fu mandato a lavorare in un pastificio di Prato e, non potendosi permettere un alloggio, ci dormiva dentro. Poi imparò l’arte della pasticceria a Firenze, e a Bologna divenne pasticciere affermato. Non ebbe dunque tempo di acculturarsi, di frequentare scuole e/o accademie. La cultura se la creò da solo, dipingendo e incontrando personaggi del mondo artistico culturale bolognese. Negli anni 70, quando guadagnava più di un milione di lire al mese (e un impiegato medio 120.000), mollò tutto per dedicarsi completamente alla pittura. Decisione che lasciò perplesso anche un personaggio del calibro di Renato Guttuso, il quale tuttavia l’incoraggiò. È scritto nel suo libro “Incontri di Enrico Visani con i grandi maestri del Novecento”, realizzato nel 2007 con l’amico Tebaldo Lorini.

Ex chiesa di S. Antonio, Palazzuolo sul Senio, 2012

Perché di grandi maestri del Novecento, nel corso del tempo, Enrico ne ha incontrati e conosciuti veramente tanti. Il libro è una vera miniera di notizie e aneddoti, di ritratti veri e spesso inediti da cui emergono grandezze e non di rado debolezze di artisti come Guttuso, De Chirico, Manzù, Vespignani, Annigoni… Lui, però, è sempre rimasto inesorabilmente Enrico Visani.

Gli Appennini sono stati la sua prima fonte d'ispirazione: i verdi, i colori dell'autunno, il freddo, e anche la miseria. Durante gli anni si è spinto sempre più lontano dal naturalismo en plein air da cui era partito, approdando all'informale. 
Se, come affermò una volta proprio Tebaldo Lorini, la pittura mugellana è (sempre stata) tutta, rigorosamente, figurativa, Enrico costituisce l'eccezione che conferma la regola. I colori della terra, dalla terra sono stati come catturati per essere riportati sulle tele e sulle ceramiche non più a rappresentarne il paesaggio, ma a riportarne l'essenza. Ispirato e incoraggiato soprattutto da Gastone Breddo e Bruno Saetti, Visani ha voluto sempre essere un uomo e un artista libero, ma per lui libertà non significa certo anarchia: al contrario è una conquista ottenuta senza facili scorciatoie, frutto di disciplina, discussioni, ripensamenti. I suoi dipinti astratti, dice, in realtà non avrebbero bisogno di titoli. "Un'opera d'arte rappresenta se stessa e nient’altro. Ci si può trovare un contenuto, del sentimento, ma spesso è solo un accomodare le cose. In realtà io realizzo un dipinto, poi ci si può entrare dentro e interpretarlo come si vuole. Il titolo è solo un di più."
Visani ha esposto letteralmente ai quattro angoli del globo. Caracas, Salonicco, Anversa, Lima, Santiago, New York, e l'elenco potrebbe continuare. Ma forse è stato nelle sue terre che si è trovato a raccogliere le sfide più stimolanti.

 
Villa Pecori, Borgo S. Lorenzo, 2009
Nel 2009 allestì una personale nelle sale del Museo Galileo Chini a Borgo S. Lorenzo. Mi disse: "L'idea mi ha fatto sentire ancor più motivato a produrre opere in ceramica", l'altra grande passione di Enrico, "e a stare lontano da tutto quello che è il mondo di Chini. Sarei uno stupido se provassi a rifare Chini. Ho preferito, anche in questo caso, fare Visani."

Palazzo dei Vicari, Scarperia, 2012

Nell’aprile 2012 espose nel Palazzo dei Vicari di Scarperia. Nella prima sala i suoi dipinti si confrontavano con lo splendido affresco raffigurante la Madonna in trono e Santi datata 1501 e, laddove per istinto verrebbe da pensare allo scontro di due universi estetici inconciliabili, Visani mi fece notare, non senza un giustificato orgoglio, come invece in opere così diverse si riusciva a ritrovare una specie di radice ancestrale comune. In quell'occasione volle consegnare a tutti i visitatori un cartellino con su scritto:

“L’autore consiglia: non cercare il soggetto, immagina il mio gesto e vola con me nel profumo del colore”

L'attività di Enrico come organizzatore di mostre, non solo di opere sue, è sempre stata del pari incessante. Al momento in cui scrivo, è in corso a Molinella (BO) una iniziativa intitolata Sportivamente per la quale ha lavorato a lungo in collaborazione con Valentina Volta. Oltre a dibattiti, proiezioni di film, letture, saranno esposte nell'Auditorium fino al 10 settembre opere d'arte dedicate allo sport di Maestri del Novecento. Boccioni, Carrà, Sironi, Boschi, e naturalmente Visani.





sabato 26 agosto 2017

Maestro di Marradi chi?


Il concetto, in fondo, è semplice. Anche se sottintende una competenza, un occhio clinico, una sensibilità, un lavoro di analisi la cui portata sfugge a profani come me. Nondimeno, un fenomeno classico per gli storici dell'arte è il rinvenimento un certo numero di opere artistiche antiche che, per epoca, tecnica, materiali, stile, indubbiamente provengono dal medesimo Autore. Solo che non si riesce a trovargli un nome, per quante ricerche d'archivio si facciano. Gli si assegna allora un nome fittizio. Un nome che può prendere il nome dalla località in cui sono situate una o più opere significative: il Maestro di Marradi, appunto. O il Maestro di Figline. O di Varlungo. Altrimenti, ci si può basare su una sua opera per qualche motivo memorabile, ed ecco il Maestro della Madonna Strauss, o il Maestro della Santa Cecilia. Intanto si lavora nella speranza di riuscire a trovare il nome vero su, chessò, un qualche documento di pagamento (difficilissimo), oppure che un bravo storico sia in grado di associare le opere dell'anonimo a quelle di un altro autore conosciuto. E che la comunità scientifica degli storici riconosca l'ipotesi come plausibile e accettabile. Difficile, ma è capitato più volte. Tra gli esempi si possono citare il Maestro del Bambino Vispo, identificato pressoché in modo unanime (ma Federico Zeri dissentiva) con Gherardo Starnina. Oppure il Maestro del 1419, di recente accostato al miniaturista Battista di Biagio Sanguigni.

La Crocifissione Griggs
Vi è poi il caso curioso del Maestro della Crocifissione Griggs, che prende(va) il nome dal dipinto proveniente dalla collezione omonima. Lo storico Luciano Bellosi riconobbe nei suoi dipinti Giovanni di Francesco Toscani, e i colleghi furono d'accordo. Solo che lo stesso Bellosi, riesaminando la Crocifissione, concluse che questa non doveva essere un'opera tarda di Toscani come lui stesso aveva in passato diagnosticato, ma - pur con aggiunte estranee nelle figure in primo piano - un'opera giovanile di Fra' Giovanni Angelico. Di modo che si ebbe il paradosso che la Crocifissione Griggs non era opera del Maestro della Crocifissione Griggs.



Il Maestro di Marradi non ha mai avuto un nome. Inutili tutti gli scavi nei meandri più riposti degli archivi, inventari, libri mastri, nei diari di viaggio, nelle visite pastorali, negli scritti degli storici. E questo nonostante sia vissuto in pieno Rinascimento: si parla della fine del Quattrocento. Non solo: è stato un pittore più che prolifico. I dipinti a lui attribuiti si trovano oggi veramente dappertutto. Ce ne sono a Dayton, Ohio (U.S.A.), a Londra, ad Ajaccio, a Rouen e via elencando. La bellissima Madonna in trono col Bambino e Santi della foto d'apertura è a Firenze nella chiesa di S. Maria a Novoli. Qui sopra è la Madonna col Bambino tra gli arcangeli Raffaele e Gabriele conservata al Museo d'Arte sacra di Tavarnelle in Val di Pesa. In proposito, Federico Zeri scrisse:

Fra le opere della seconda metà del Quattrocento che meritano speciale attenzione, la 'Madonna in trono' di S. Lorenzo a Cortine [dove si trovava allora] offre lo spunto per il ritrovamento di una nuova entità dell'ambiente fiorentino fra l'ottavo decennio e la fine del secolo. Questo dipinto appartiene infatti a un gruppo assai folto ed omogeneo, che consente di seguire le vicende stilistiche di una notevole persona uscita dalla cerchia di Domenico Ghirlandaio intorno al 1475 e operosa sia in Firenze che per alcuni centri del contado. 

Le opere più significative del Maestro di Marradi sono però in effetti - appunto - quelle di Marradi. Ciononostante, la scelta del nome non è stata affatto una cosa scontata. L'interesse per questo artista si risvegliò verso la fine degli anni '50 del secolo scorso, ed erano stati proposti nomi come Maestro dell'Apollini Sacrum, da una scritta su un tempietto dipinto in un pannello di forziere oggi al Museo di Atlanta, Georgia (U.S.A.); oppure, su idea di Roberto Longhi, Maestro Tondo o Maestro Tondino per via di una certa rotondità dei volti. Si impose poi Federico Zeri, che aveva avuto modo di esaminare le opere allora presenti nella Badia del Borgo presso Marradi. Era il 1963 e, in un'altra parte dell'articolo sopra citato, Zeri propose appunto Maestro della Badia del Borgo oppure Maestro di Marradi. Alla fine, prevalse quest'ultimo.

Tutto questo è raccontato in quello che, salvo errori, è l'unico libro monografico sul nostro Artista, intitolato Alla scoperta del Maestro di Marradi, a cura di Livietta Galeotti Pedulli, edito da Polistampa nel 2009. Vi si narra tra l'altro della Badia vallombrosana, dell'Abate Taddeo Adimari che commissionò al Maestro di Marradi la Pala di S. Reparata e, si suppone, in accordo con l'illuminato Abate generale Biagio Milanesi, gli altri quattro dipinti oggi trasferiti nella Chiesa di S. Lorenzo a Marradi.
Cinque opere, analizzate singolarmente nel testo, che costituiscono un corpus straordinario, e fanno di S. Lorenzo una meta obbligata per chi conosca o voglia conoscere questo Autore senza nome.

La Pala di S. Reparata
Elenchiamole rapidamente. Si tratta della Pala di Santa Reparata, che Livietta Galeotti Pedulli e Danila Calderoni confrontano giustamente con la Sant'Anna Metterza di Masolino & Masaccio, in particolare per la resa anatomica del Bambino. Del Paliotto di Santa Reparata; della Pala di San Sebastiano; del San Giovanni Gualberto (che si trova nella sacrestia) e, infine, della Madonna della Misericordia (sotto). In quest'ultimo dipinto si è avanzata l'ipotesi, ben difficile da confermare o da smentire ma quanto meno intrigante, che la figura del primo uomo inginocchiato all'estrema sinistra sia un autoritratto del Maestro di Marradi.


sabato 19 agosto 2017

La lunga rivincita di Bernardo Daddi


Nel 1870, Gaetano Milanesi pubblicò per Le Monnier una memoria di 16 pagine dal titolo Della Tavola di Nostra Donna nel Tabernacolo d'Or San Michele e del suo vero Autore. 
Sull'attribuzione di questo capolavoro erano state avanzate fino ad allora numerose ipotesi: da Ugolino (probabile autore della tavola preesistente, che a sua volta sostituì quella, ritenuta miracolosa, distrutta nell'incendio del 1304) fino a Lorenzo Monaco, passando per lo stesso Orcagna autore del monumentale tabernacolo.

Milanesi, in un registro della Compagnia di Orsanmichele, rinvenne scritto al 16 giugno 1347: A BERNARDO DI DADDO DIPINTORE PER PARTE DI PAGAMENTO DE LA DIPINTURA DE LA TAVOLA NUOVA DI NOSTRA DONNA, fiorini quattro d'oro.
Risolta in modo irrefutabile la disputa sull'autore della bellissima tavola, Milanesi nella stessa memoria tracciò una biografia breve e insicura, data la scarsità di documentazione allora disponibile, di Bernardo. “Il nostro Bernardo" scrisse tra l'altro, "nato negli ultimi anni del secolo XIII, fu figliolo d’un Daddo di Simone, il quale ho ragione di credere che venisse in Firenze da un luogo di Mugello chiamato Il Salto.” Si tratta di una località non distante da Borgo S. Lorenzo. Non fornì ulteriori spiegazioni, ma l'origine mugellana di Bernardo Daddi è stata da allora unanimemente accettata dagli storici.

Grazie a Gaetano Milanesi, la figura di questo artista venne così risvegliata da un torpore lungo secoli. A questo torpore avevano contribuito due grandi ma a volte poco attendibili biografi dell’arte, Vasari e Baldinucci: entrambi lo liquidarono in poche righe e, quel che è peggio, non ne azzeccarono una. Il primo lo disse allievo di Spinello Aretino (poteva esserne stato casomai il maestro), autore tra l’altro dell’affresco nella Cappella di San Lorenzo in Santa Croce (e qui aveva ragione), e degli affreschi delle lunette interne di alcune porte fiorentine (quello di Porta San Giorgio, per esempio, è di Bicci di Lorenzo), morto nel 1380 (in realtà nel 1348; la data di nascita non è mai stata accertata) e seppellito a Firenze in Santa Felicita (nessuna conferma). Baldinucci fece una specie di copia incolla ante litteram e aggiunse che era pittore aretino. Tutte queste notizie furono distrattamente considerate valide fino all'Ottocento.

Il Trittico di Ognissanti, oggi agli Uffizi,
è la prima opera datata di Bernardo Daddi (1328)
Eppure, un sospetto che non si trattasse di un artista minore poteva nascere dal fatto che Daddi fu tra i primi consiglieri, nel 1339, della neonata Compagnia di San Luca, una sorta di sindacato pittori. Il Sacchetti poi, nella novella 136 (circa il 1390), narrava di una disputa su chi fosse il miglior successore di Giotto, e si faceva tra gli altri il nome di Bernardo.

Dopo che Milanesi ebbe gettato il sasso nello stagno, s'iniziò una riconsiderazione dell'opera di Bernardo Daddi, che fu oggetto di studi da parte dei massimi storici dell'arte, da Mario Salmi a Bernhard Berenson fino a quel Richard Offner autore del gigantesco progetto A critical and historical Corpus of florentine paintings, iniziato nel 1930 e, dopo la sua morte avvenuta nel 1965, proseguito da Miklós Boskovits fino al 2011, e ancora oggi in corso. Dei 27 volumi finora pubblicati, ben quattro sono dedicati a Bernardo Daddi, alla sua bottega e ai suoi allievi. Il dibattito sul valore e sul ruolo di Bernardo nella vicenda artistica fiorentina è stato acceso per tutto il '900, andando da un "dilettissimo quanto mediocre usignolo meccanico" (Roberto Longhi) a un "after Giotto (...) certainly the greatest master in Florence in his days" (Richard Offner).

Nel frattempo venivano alla luce nuovi documenti che delineavano meglio la vicenda umana di Bernardo, immatricolato presso i Medici e Speziali prima del 1320 e morto, lo abbiamo detto, nel 1348 in modo meno originale che terribile: di peste.
Ne emerge un artista che, inizialmente giottesco di stretta osservanza (chi, avendone il talento, non lo sarebbe stato allora?), si avvierà poi verso un percorso stilistico non rivoluzionario ma personalissimo che procurerà, a lui e alla sua fiorente bottega, un consenso notevole e un conseguente successo anche finanziario.


La sua attività verteva da un lato sulla creazione di piccole opere commissionate da facoltose famiglie della borghesia fiorentina, trittici e polittici di dimensioni ridotte, non di rado portatili, o destinati a ornare altari di altrettanto piccoli oratori privati, all'interno di ville da signore; dall'altro sulla realizzazione di opere di grandi dimensioni. Un buon esempio del primo genere è dato dall'Altarolo conservato al Museo fiorentino del Bigallo (sopra).
Le grandi opere fecero senza dubbio di Bernardo Daddi una vera superstar dell'epoca a Firenze. Il suo nome doveva essere celebre anche ben al di fuori della cerchia degli artisti. Tutti i fedeli potevano ammirare nelle chiese i suoi capolavori. L'esempio più classico, ma non certo l'unico, è proprio la tavola di Orsanmichele. Diversi di essi hanno subito, in tempi recenti, restauri accuratissimi che hanno riportato così alla luce, e che luce, qualità pittoriche straordinarie non di rado offuscate dal tempo, facendo moltiplicare gli studi e l'interesse su Bernardo, completando insomma in un certo senso quella rivincita sull'oblio iniziata nell'ormai lontano 1870.

Nel 2010 è stato pubblicato un trattato (ed. Centro Di) a cura di Antonella Nesi e Ginevra Utari sul restauro della grandiosa Croce dipinta del Museo Bardini, per la quale si è ipotizzata una destinazione al centro della Cattedrale fiorentina di S. Reparata. Mentre sull'altare maggiore era collocato l'altrettanto imponente polittico.
Nel 2013 un altro grande polittico, Madonna in trono col Bambino e quattro Santi (sotto), dipinto per i Domenicani di S. Maria Novella e destinato al cosiddetto Cappellone degli Spagnoli, ha subito un ultimo intervento conservativo, al termine di una lunga serie di restauri, necessaria per un'opera che subì i danni dell'Alluvione. Oggi è nel percorso del Museo di S. Maria Novella.


Nel 2000, Angelo Tartuferi pubblicò per le edizioni Sillabe un saggio sul restauro di quella che è considerata una delle opere più tarde - e belle - di Bernardo Daddi, l'Incoronazione oggi alla Galleria dell'Accademia ma anch'essa realizzata per S. Maria Novella, e nella quale l'evidente discendenza giottesca - in particolare il Polittico Baroncelli - si dissolve e stempera in una illustrazione assolutamente personale. Scrive Tartuferi: "Le indicazioni spaziali e architettoniche sono praticamente assenti e la credibilità degli ambienti in cui si svolge la scena è affidata ormai soltanto ai personaggi, o meglio ai loro corpi, che si dilatano assumendo una solenne naturalezza e, soprattutto, 'misurando' lo spazio circostante che lo spettatore può intuire in maniera plausibile, pur non vedendone alcuna coordinata".


Si può aggiungere che la accurata sontuosità delle vesti sembra quasi preannunciare un gotico cortese in realtà di là da venire, ed è in rapporto molto stretto con la composizione dell'ultima opera conosciuta di Bernardo Daddi: il Polittico di S. Giorgio a Ruballa, oggi alla Courtauld Gallery di Londra. È datato 1348, l'anno della sua - e di mille e mille altri - morte.








sabato 12 agosto 2017

I Santi delle idi di agosto: Ippolito e Ponziano


Nella sola Toscana, le chiese, quasi tutte pievi, intitolate a S. Ippolito, sono ben quattordici. In nove di esse il contitolare è S. Cassiano. Così risulta dal sito I luoghi della Fede, che però non riporta situazioni come quella della pievania in cui abita chi scrive, dove, non troppo distante dalla Pieve di S. Cassiano in Padule (Vicchio), si trova un oratorio quasi del tutto diroccato (foto d'apertura), dedicato a S. Ippolito, e dal quale prende nome anche la località.
L'accoppiata Cassiano - Ippolito si spiega solo con il coincidere del giorno della loro festa, appunto le idi di agosto, cioè il 13 agosto. Un po' come S. Pietro e Paolo. Più logico sarebbe (stato) legare il nome di Ippolito a quello di S. Ponziano, anch'egli ricordato alle idi di agosto, e vedremo perché.

Se Cassiano è citato nel Martirologio geronimiano, le prime notizie su Ippolito sono ancora più antiche: ne parla Eusebio di Cesarea (ca. 265 - ca. 340) nella Historia Ecclesiastica. Lo definisce un Vescovo 'a capo di qualche chiesa', nonché autore di una serie di testi, tra cui un computo pasquale, e poi trattazioni Sul Cantico, Su parti di Ezechiele, Sulla Pasqua, Contro tutte le eresie.
S. Girolamo (347-420), nel De viris illustribus, allunga la lista di altri titoli (Sui Salmi, Sulla Chiesa, Su Daniele, Sull'Apocalisse, Sull'Anticristo ecc.). Una statua antica (qui sotto) rinvenuta, forse in zona Verano, nel 1551 ma risalente al III secolo raffigura un uomo seduto su un trono, sulle componenti del quale figurano ulteriori titoli (tra cui In difesa del Vangelo di Giovanni e dell'Apocalisse, Cronache, Contro i greci, Contro Platone e sull'universo) oltre ad alcuni in comune con quelli citati da Eusebio e da S. Girolamo. Ciò consentì di identificare l'uomo rappresentato come S. Ippolito.
Insomma, diciamolo pure: S. Ippolito era un grafomane. Anche ammettendo, come hanno fatto gli storici di recente, che i testi siano in realtà di due autori diversi, uno occidentale e uno orientale. Ma la questione è tutt'altro che conclusa ed è tuttora oggetto di discussione.

Il ritrovamento nel 1842 di un testo (Philosophumena, o Confutazione di tutte le eresie) attribuitogli, consentì di delineare meglio i caratteri storici di questo uomo di chiesa intransigente. Una specie di Savonarola, che fu acerrimo nemico del Vescovo Callisto, da lui considerato troppo tollerante e ai limiti dell'eresia. Al punto che quando Callisto divenne Papa (217), Ippolito lo disconobbe e si autoproclamò Papa a sua volta.
Uno scisma? Un antipapa? Secondo Emanuela Prinzivalli, che ha curato la voce su S. Ippolito nell'Enciclopedia dei Papi, sono termini decisamente anacronistici. Non si può paragonare la Chiesa del III secolo a quella, ad esempio, del Grande Scisma d'Occidente (dal 1378 al 1417). A seguire Ippolito fu una schiera di seguaci abbastanza limitata. Nondimeno, la sua lotta contro il Papato ufficiale proseguirà anche dopo la morte di Callisto, e Ippolito si contrapporrà sia ad Urbano I (papa dal 222 al 230), sia al successore Ponziano.
Spinello Aretino:
S. Ponziano
Nel 235, però, l'Imperatore Alessandro Severo, che aveva manifestato notevole tolleranza nei confronti della cristianità, venne ucciso. Il suo successore Massimino il Trace non si rivelò altrettanto accomodante. Quanto accadde a Ippolito e al suo rivale Ponziano ci viene tramandato da un altro antichissimo documento: il Cronografo 354, una serie di elenchi prevalentemente cronografici risalente all'anno, appunto, 354. Ne fa parte il cosiddetto Catalogo liberiano, in cui si legge che "in quel tempo il Vescovo [di Roma, ovvero il Papa] e il presbitero Ippolito furono deportati esuli in Sardegna nell'isola di Vocina sotto Severo e Quintiano consoli. Nella stessa isola [Ponziano] morì quattro giorni prima delle calende di ottobre [235]"
Papa Damaso (305-384) narra, pur con qualche contraddizione, che Ponziano, non volendo lasciare i fedeli senza guida, rinunciò al pontificato. Fu la prima rinunzia nella storia della Chiesa. Ippolito, colpito da questo atto di umiltà, mise da parte la superbia che in effetti lo aveva fino ad allora contraddistinto, e fece appello ai suoi discepoli perché si riunissero alla Chiesa romana. Ippolito e Ponziano si riconciliarono e, condannati a lavorare in una miniera lager, morirono di stenti meritando la palma del martirio. Secondo Francesco Lanzoni, con ogni probabilità dettero un contributo fondamentale alla diffusione del Cristianesimo nell'isola.
La Depositio martyrum, anch'essa facente parte del Cronografo, colloca alle idi di agosto (13 agosto), ma l'anno non è specificato, la data della sepoltura di entrambi, Ippolito nel cimitero sulla Tiburtina, Ponziano nel cimitero di Callisto. L'odierno Martirologio romano riprende tutto ciò quasi alla lettera:

«Santi martiri Ponziano, papa, e Ippolito, sacerdote, che furono deportati insieme in Sardegna, dove entrambi scontarono una comune condanna e furono cinti, come pare, da un’unica corona. I loro corpi, infine, furono sepolti a Roma, il primo nel cimitero di Callisto, il secondo nel cimitero sulla via Tiburtina»

Negli antichi martirologi, tuttavia, compare un diverso S. Ippolito martire, sempre al 13 agosto. Le notizie su di lui sono confuse. Secondo il passionale di S. Lorenzo, era un soldato che doveva sorvegliare quest'ultimo, il quale però lo convertì prima del martirio. Ippolito, a sua volta, venne trucidato, insieme con l'intero corpo di guardia. In una versione tradotta in italiano di un Martirologio romano risalente al 1668, si legge:

In Roma il B. Hippolito martire, il quale per la gloria della confessione sotto Valeriano Imperatore dopo altri tormenti, legato per i piedi al collo di cavalli indomiti, & crudelmente strascinato per luoghi aspri, & spinosi, col corpo tutto lacerato rese lo spirito al Signore.

Dieric Bouts (1410-1474 ca): martirio di S. Ippolito

Prudenzio, nell'XI canto del Peristephanon, descrive un uguale martirio, ma sembra ispirarsi all'Ippolito della mitologia greca (fece una fine simile) e confonde diverse fonti, tra cui il già citato Papa Damaso.
Ad ogni modo, in primo luogo non può trattarsi del S. Ippolito di cui abbiamo parlato, la cui fine in Sardegna è considerata storicamente attendibile. Inoltre, il supplizio riservatogli è una invenzione di un qualche agiografo, uno dei tanti dotati meno d'immaginazione che di gusto dell'orrido. Gli storici hanno stabilito che Valeriano perseguitò sì i cristiani, ma non torturava. Sicché, come l'ipotetico Ippolito non fu dilaniato dai cavalli, anche S. Lorenzo, nonostante il perdurare della tradizione e l'abbondanza di rappresentazioni pittoriche dell'episodio (tra cui diversi capolavori), non finì sulla graticola. Ed è molto meglio così! 






mercoledì 9 agosto 2017

I Santi delle idi di agosto: Cassiano


Nel 2003, una ricognizione eseguita presso l'Università di Bologna sul cranio di S. Cassiano dette risultati del tutto inattesi: sembra(va) infatti confermare l'antico racconto del martirio del Santo, fino allora considerato pressoché all'unanimità frutto di fantasia.

San Cassiano, o Casciano, è ricordato già nel Martirologio Geronimiano, composto a cavallo tra IV e V secolo. Due volte, per giunta: al III giorno pre idi di agosto (11 agosto), il Codex Bernensis riporta et foro cornili Passio Sancti Cassiani, mentre alle idi (13 agosto) troviamo  ET IN FORO CORnilii. Sancti Cassiani. Nei martirologi seguenti ci si 'stabilizzerà' sul 13, ovvero appunto le idi d'agosto. Forum Cornelii è l'odierna Imola.

Nel nono canto del suo Liber Peristephanon  il poeta Prudenzio (348 - dopo il 405) ci fornisce la più antica narrazione del martirio di S. Cassiano. Giunto ad Imola, sulla tomba del Santo vide una immagine che mostrava un individuo denudato e legato a una colonna, assalito da una torma di ragazzi e ragazzini inferociti che lo aggredivano con stiletti e tavolette. Il custode gli narrò la vicenda, che Prudenzio riportò in modo lungo e articolato. E piuttosto raccapricciante, bisogna ammetterlo. Riassumiamola.
Cassiano era insegnante di ars notaria, una specie di stenografia. Avendo testimoniato la sua fede cristiana ed essendosi rifiutato di fare sacrifici agli dei come imposto dal Governatore, quest'ultimo ordinò che venisse giustiziato dai suoi stessi studenti, i quali non chiedevano di meglio dato che la sua severità lo aveva reso ad essi inviso. Usarono soprattutto gli stiletti che servivano per scrivere sulle tavolette di cera. In tutti i martirologi in cui è riassunta la vicenda si sottolinea come più deboli e infantili erano le mani che colpivano, meno gravi erano le ferite, e quindi maggiore e prolungata l'agonia.

L'epoca dei fatti non è mai stata chiarita. Non si può nemmeno affermare con sicurezza che si siano svolti prima dell'Editto di Costantino (313), perché anche in seguito le sacche di resistenza pagane non mancarono. Ad ogni modo il culto di S. Cassiano è antichissimo. S. Pier Crisologo, Vescovo di Ravenna, quando morì nel 450 chiese essere sepolto accanto al Martire.
Racconta lo storico Mons. Francesco Lanzoni in Le diocesi d'Italia dalle origini al principio del secolo VII (1927):


L'immagine del santo fu dipinta in mosaico in Ravenna nella seconda metà del V secolo da Pietro II nella cosiddetta Cappella di S. Pier Crisologo situata nel palazzo arcivescovile (foto d'apertura). Oratori in suo onore furono edificati in Roma da papa Simmaco (498-514), in Milano fin dal 450, e in moltissimi altri luoghi d'Italia e della cristianità.

Sul sepolcro di S. Cassiano fu costruita una basilica, che fu la prima Cattedrale di Imola, per quanto fuori dalla città. Sorsero in seguito, oltre la canonica, altri edifici che composero il Castrum Sancti Cassiani, documentato dal 783. Nel 1187 Il vescovo Enrico ed i canonici di San Cassiano decisero di trasferire la cattedrale entro la città, e il castello fu distrutto e raso completamente al suolo. L'odierna Cattedrale, pure intitolata a S. Cassiano e nella quale si trovano le reliquie sue e di S. Pier Crisologo, fu consacrata nel 1271.

 Parallelamente al culto, che raggiunse anche località d'oltralpe, si diffusero alcune leggende che volevano Cassiano Vescovo di Imola, o a Imola trasferito, ma che non avevano fondamento. La devozione al Santo perdura ancora oggi ad esempio a Bressanone, della cui diocesi S. Cassiano è patrono insieme con S. Vigilio, e dove annualmente a fine aprile vengono portate le reliquie in processione. Esiste, sempre a Bressanone, fin dal 1712 il St. Kassian Kalendar, una sorta di Sesto Cajo Baccelli ma di dimensioni ben più ponderose.
Oggi le località italiane che hanno un riferimento a S. Cassiano sono ben 229. San Casciano in val di Pesa è documentata a partire dal 1043, ma l'intitolazione a Cassiano denota, secondo lo storico don Remo Collini, una ben maggiore antichità. E cita come esempi, tra l'altro, S. Cassiano a Vico in val di Serchio (ricordata dal 755), San Cassiano di Controne in val di Lima (733), San Casciano a Settimo nel Pisano (970). 'In verità', afferma don Collini, 'il titolo San Cassiano, senza l'accoppiamento con Sant'Ippolito, risalirebbe ad epoca bizantina, dunque prelongobarda'. Don Collini è stato fino al 1991 pievano di San Cassiano in Padule a Vicchio, e azzarda l'ipotesi che quest'ultima possa risalire ai secoli VI-VII.

L'ingresso di Arrigo VII a S. Casciano in val di Pesa (1312)

Il capitolo più recente sulla storia di San Cassiano martire di Forum Cornelii risale, come accennato all'inizio, al 2003.  Ecco quanto riportato su www.webdiocesi.chiesacattolica.it (la pagina in questione non è più consultabile, fortunatamente l'avevo salvata)

Nel 2003 è stata effettuata la ricognizione delle reliquie di San Cassiano, in occasione dei festeggiamenti per i 1700 anni dal martirio [secondo una tradizione non accertata]. Dagli esami effettuati sulle ossa del martire presso l’Università di Bologna è risultato che Cassiano era un uomo giovane, con un’età compatibile con i 30 anni. Alcuni segni, in particolare i fori rilevati su alcune ossa del cranio, possono essere interpretati come lesioni inflitte sul corpo del Santo ancora in vita con uno strumento appuntito compatibile con gli stili utilizzati all’epoca per scrivere sulle tavolette cerate. La morte potrebbe essere seguita come conseguenza di questo evento, forse una trentina di giorni dopo, senza comunque escludere anche altre cause di morte (come per esempio una successiva condanna a morte).

Prudenzio dunque aveva ragione? Il racconto fattogli dal custode e da lui fedelmente riportato era autentico? Per secoli gli storici ne avevano dubitato. Neanche oggi si possono dare certezze assolute. Ma sono stati studi scientifici a indicare che la storicità dei fatti narrati dal poeta, almeno nei tratti essenziali, si può considerare altamente probabile.