domenica 29 gennaio 2017

GABBATO LO SANTO 3. Una Villana beata


La domenica quarta di gennaio a S. Maria Novella si fa festa della B. Villana Botti fiorentina del Terz'ordine di s. Dom. vi sta esposto il corpo, e la mattina vi vanno a visitarla le Compagnie del Tempio, e del Pellegrino. 
Così riferisce Padre Maurizio Francesconi nella sua Italia sacra stampata a Firenze ne 1739.
Questa beata dal nome infelice non è stata del tutto dimenticata. Il culto ebbe inizio a furor di popolo dopo la sua dipartita, appena ventinovenne, nel 1361. Ma Papa Leone XII, il 27 marzo 1824, lo confermò. Il suo nome è nel Martirologio romano:

A Firenze, beata Villana de Botti, madre di famiglia, che, abbandonata la vita mondana, prese l’abito delle Suore della Penitenza di San Domenico e rifulse nella meditazione sulla passione di Cristo e nell’austera condotta di vita, mendicando anche per le strade l’elemosina per i poveri.

La sua festa è dunque proprio oggi: il 29 gennaio. 
La storia di Villana è narrata per la prima volta, secondo Giuseppe Maria Brocchi, da un tale Padre Fra Girolamo di Giovanni Fiorentino, Procuratore generale dell'Ordine de' Predicatori, verso il 1400. Nel 1674 Don Paolo Botti, cremonese suo discendente - almeno così sostiene -, stampò a Padova una Vita et attioni maravigliose della Beata Villana Botti, per sua stessa ammissione ripreso in buona parte da Padre Silvano Razzi


È una storia, scriverebbero oggi, di discesa agli Inferi, ma con risalita. Nata a Firenze da un mercante proveniente da Cremona, Villana già da piccola mostrava profonda fede e devozione per Cristo. Paolo Botti si domanda perché diavolo le abbiano appioppato quel nome. Forse per l'attesa di un maschio di nuovo frustrata? Ad ogni modo il suo aspetto era tutt'altro che da villana, per quanto lei, anticipando di poco Santa Caterina, lo sottoponeva a digiuni e a mortificazioni. I genitori, a dire il vero, non gradivano affatto. Sicché Villana, per tenerli buoni, portava sotto gli abiti di seta, e sopra la nuda carne, setole di cavallo, e un duro cilicio. Una notte fuggì di casa per raggiungere un monastero, ma le tenebre le impedirono di trovarlo. Fece ritorno a casa, e i genitori perdonarono. Evidentemente, commenta Don Paolo, Dio non la voleva monaca, ma maritata. E infatti il padre la fece sposare a tale Rosso di Piero Benintendi. Il quale la portò, lentamente ma ostinatamente, lontano da preghiere, digiuni e penitenze e, al contrario, la introdusse alla vita mondana. Vita che, secondo le cronache, degenerò in dissolutezza. Fino all'episodio centrale della sua vita.

Villana, una sera, si era preparata vestita acconciata truccata per partecipare a una delle tante feste di cui era tra le protagoniste. Al momento in cui si guardò nello specchio, vide la sagoma di un demonio. Distolse lo sguardo e cercò altri specchi. Inutile. Anche quelli le rimandavano un'immagine orribile.
Villana capì. Si levò i vestiti, ne indossò altri ben più austeri. Corse al Convento di S. Maria Novella, si confessò, e divenne terziaria domenicana. Da allora portò una grossa catena sulla nuda carne, che, scrive Brocchi, portandola tutto il tempo di sua vita, fu veduta poi dopo la morte incarnata in maniera, che non potette senza strapparle la carne esser levata. 

Non abbandonò affatto la famiglia né i relativi doveri, ma si dedicò instancabilmente a opere di carità, alla lettura e alla meditazione soprattutto sulle Lettere di S. Paolo Apostolo, alle questue porta a porta.
Riprese digiuni, penitenze, mortificazioni. Dormiva sulla nuda terra e aveva per guanciale un sasso. Tutto ciò non poteva non avere conseguenze sul suo fisico. Il 29 gennaio 1361, al termine di una lunga agonia, dopo essersi fatta mettere l'abito domenicano, volle ascoltare le parole della Passione di Cristo. Udito Et inclinato capite emisit spiritum, spirò. La stanza si riempì di profumi. La sua salma rimase esposta per trentasette giorni, senza subire, secondo le cronache, il minimo cenno di decomposizione.
Se il cordoglio in città fu unanime, non lo furono affatto i pareri sulla sua condotta. I pettegolezzi su Villana quando era animatrice di feste & festini non si erano spenti del tutto e, forse come oggi, erano certo più intriganti rispetto a quelli sulla sua condotta dopo la (ri)conversione. Ancora nel 1365 Franco Sacchetti, in una lettera all'amico Iacomo Conte da Perugia, parlando del proliferare dei Santi e Beati locali, scrive: "E' predicatori hanno Beata Giovanna con l'orcio dell'olio dipinta (...); hanno Beata Villana, che fu mia vicina, e fu giovane fiorentina, pur andava vestita come le altre, e fannone già festa; e San Domenico si sta da parte"
La devozione però ebbe la meglio, anche grazie ai numerosi miracoli operati da Villana dopo la sua dipartita. Naturalmente la sua tomba, in S. Maria Novella, si coprì abbastanza rapidamente di ex voto. In seguito la salma fu traslata dalla navata destra a quella sinistra dove si trova tuttora. Uno dei suoi nipoti, Sebastiano di Iacopo di Rosso Benintendi, commissionò un monumento funebre, quello nella foto d'apertura, a una all stars di scultori: Bernardo Rossellino scolpì il volto della Beata, Antonio Rossellino l'angelo di sinistra, Desiderio da Settignano quello di destra.
Secondo Fra' Girolamo, poco dopo la morte, Villana comparve ad alcune monache che vivevano in uno dei romitori allora esistenti sul Ponte di Rubaconte, oggi Ponte alle Grazie. Queste, estasiate, le chiesero se era davvero la Beata Villana. E lei rispose: "Io adesso, che sono in cielo, non mi chiamo più Villana, ma Margherita".

domenica 22 gennaio 2017

26 gennaio 1917. Cento anni fa, Ungaretti scrisse...



...i celeberrimi due versi m'illumino / d'immenso. Così ho avuto l'idea di raccontarne la storia. Ecco, sopra, la locandina dell'evento.
Immaginavo ci sarebbero state non dico solenni celebrazioni, ma per lo meno qualche tavola rotonda, un convegno. E invece credo proprio che l'incontro - spettacolo di giovedì sarà il solo a ricordare che esattamente un secolo fa Ungaretti scrisse la poesia Mattina. Sul sito del Comune friulano di Santa Maria La Longa - ove i versi furono scritti - non risultano iniziative in merito. Né ho trovato fondazioni di sorta, intitolate o meno a Ungaretti, che ne facciano cenno. Insomma, senza volerlo ho stabilito quasi un primato!



Nell'Oratorio di S. Omobono a Borgo S. Lorenzo, la sera del 26 gennaio si parlerà di poesia, si leggeranno poesie, ma non sarà un convegno di letteratura. Non ci saranno parafrasi, spiegazioni, dissertazioni. Sarà tuttavia l'occasione per raccontare la vicenda di questo grande poeta del secolo scorso, anche al di là di certe banalizzazioni, e in particolare come giunse a comporre quei versi rimasti giustamente famosi, e non solo per la brevità. 

Non sarà neanche un 'semplice' concerto di cori alpini. Giuseppe Ungaretti non fu un alpino, combatté come soldato semplice dell'esercito italiano. Ma gli amici del Coro Alpino del Mugello, interpolandosi al racconto, saranno in grado - come sono sempre stati - di condurre gli spettatori verso le atmosfere e gli stati d'animo di quelle regioni alpine - come il Carso - dove Ungaretti fu inviato a combattere. E dove scrisse quelle note volanti divenute poesie per le quali è diventato il classico che conosciamo.
Ungaretti in divisa.
L'appuntamento è dunque per giovedì 26 gennaio alle 21, nell'Oratorio di S. Omobono a Borgo S. Lorenzo (davanti la Pieve). L'ingresso è a offerta. L'iniziativa è organizzata dagli amici dell'Associazione Note Dal Mugello. Io e il Maestro Paolo Martelli, che dirige il Coro, speriamo di farvi passare una bella serata.

sabato 21 gennaio 2017

Un macchiaiolo dimenticato: Stanislao Pointeau.

Di Stanislao Pointeau si ricordano in pochi. Eppure fu uno dei frequentatori più assidui del Caffè Michelangelo fiorentino, e lo vediamo caricaturato nel celebre acquerello di Adriano Cecioni: è di spalle, sulla sinistra, in primo piano tra gli altri esponenti del celebre movimento della macchia. Di circoli culturali ne frequentò più d'uno. Ma la sua carriera artistica fu breve, e meno intensa di quelle di suoi colleghi che, pur avendo lasciato questo mondo ancora giovani(ssimi), oggi tuttavia sono ricordati da tutti. Il suo amico Raffaello Sernesi, ucciso in battaglia a 28 anni, è un buon esempio.

Adriano Cecioni, il Caffè Michelangelo
Pointeau nacque a Firenze nel 1833, da un facoltoso commerciante di vini francese, il quale aveva aperto nel capoluogo toscano una rivendita di Bordeaux. Stanislao mantenne la cittadinanza francese, ma si mosse soprattutto nella nostra penisola, sia per motivi di lavoro - proseguiva l'attività commerciale paterna -, sia per piacere. Strinse amicizia con quasi tutti i Macchiaioli, e compì con alcuni di loro numerosi viaggi durante il quali non si risparmiò nel disegnare e dipingere, oltre che nell'incisione. Soggiornò a Roma, viaggiò per il Mugello e per le campagne toscane, fu a Ischia nel 1862. Ma nel 1865 abbandonò la pittura. Visse fino al 1907.

Renaioli dell'Arno, 1861

Esiste un solo libro monografico, purtroppo da tempo esaurito, su Stanislao Pointeau, ed è opera del mio amico Tebaldo Lorini, appassionato storico locale di Borgo S. Lorenzo, nonché autore di numerosi altri libri e testi teatrali. Il suo incontro con la figura di questo artista merita di essere raccontato. 

Tebaldo Lorini tra l'attore Marco Paoli e il pittore Enrico Visani
Tebaldo, si era sul finire degli anni '80, era rimasto incuriosito da un dipinto, che mostrava l'antica e scomparsa Porta a Borgo, o Porta fiorentina, di Vicchio, sulla copertina di un libro di Carlo Sisi dedicato ai Macchiaioli ed edito dalla Cassa di Risparmio di Firenze.

Contattò lo stesso autore del libro, il quale gli permise di rintracciare gli eredi di Stanislao Pointeau: tale Picchi - il cui nonno aveva sposato la sorella di Stanislao - e la consorte. Erano due persone decisamente anziane che, raggiunte al loro indirizzo, non si fidarono e non fecero entrare in casa Tebaldo. Questi, tutt'altro che rassegnato, volle ripresentarsi mostrandogli uno dei suoi libri con la sua fotografia stampata sul risvolto di copertina. L'atteggiamento dei due vecchi virò di 180°! Lo accolsero in casa, ove Tebaldo vide tra l'altro due Manet. Manet aveva soggiornato a Firenze nel 1851, e Picchi nonno lo aveva ospitato di buon grado. E non fu l'unico.
I signori Picchi mostrarono a Tebaldo una raccolta di disegni fatti da un diciottenne Stanislao Pointeau durante un viaggio in Mugello. Tebaldo poté pubblicarla, con in copertina La ferratura del bove, probabilmente dipinto a Vicchio. I disegni presentati lasciavano facilmente intravedere un artista di grande talento e di grande futuro. Purtroppo questo futuro non vide la luce perché nel 1862, durante un soggiorno a Ischia insieme con Raffaello Sernesi, visitò un bordello e contrasse la sifilide. La sifilide non perdona(va). Ed è più che sufficiente per spiegare il suo progressivo abbandono di amici, arte, viaggi.


Nel 1867 si trasferì a Pisa, allora fuori da qualsiasi circuito culturale e comunque nulla di paragonabile a Firenze. Qui continuò l'attività commerciale, ma annullò in breve tutti i contatti con quel mondo artistico vivacissimo che lo aveva visto come uno dei più attivi e prorompenti protagonisti. E uno dei più allegri. Riferisce Adriano Cecioni che, quando rideva a Montelupo, lo sentivano dalla Capraia.
Che Pointeau meriterebbe una riscoperta è facile a dirsi, ma ben difficile da mettersi in pratica. I suoi dipinti si trovano a fatica anche sul web, e coperti da copyright. Nelle aste, comprese quelle dedicate espressamente ai Macchiaioli, se ne trovano poche tracce.


venerdì 13 gennaio 2017

GABBATO LO SANTO 2. Chiara Ubaldini


Nessun elemento della famiglia Ubaldini è oggi riconosciuto dalla Chiesa come Beato, tanto meno come Santo. Giuseppe Maria Brocchi, nelle sue Vite dei Santi e Beati fiorentini, di Ubaldini Beati ne enumera invece ben dodici, peraltro nel volume dedicato ai santi e beati che hanno il pubblico culto alle loro reliquie ab immemorabili quantunque di Essi non si faccia memoria nel Martirologio romano e non se ne celebri la festa con Messa ed Ufizio. Non figura tra questi il celebre Cardinale Ottaviano, ma si va da un Azzo (o Atto) camaldolense a un Rustico Vallombrosano, a un Antonio di Mugello dell'Ordine dei Gesuati. E poi, la Beata Chiara degli Ubaldini che, fra tutti, tiene certamente il primo luogo.

La storia della Beata Chiara è narrata per la prima volta in un manoscritto del 1515 da Fra' Mariano di Ognissanti, citato da Richa. Nata con il nome per noi bizzarro di Avvegnente, era zia di Ottaviano. Andò in sposa a un Conte di Gallura dei Visconti di Pisa, cui diede diversi figli, ma di cui rimase precocemente vedova. La sua indole, unita a una crisi mistica, la condusse a rinunziare ai (cospicui) beni di cui disponeva grazie alla sua famiglia e, sistemata la figliolanza, bussò al Convento di Monticelli, allora gestito da Suor Agnese, sorella di Santa Chiara. Di quest'ultima Avvegnente, oltre che il velo, prese il nome. Il suo attivismo all'interno del convento fu instancabile e apprezzato da tutte le suore. Quando Agnese tornò ad Assisi per assistere gli ultimi giorni della sorella - a breve sarebbe poi mancata anche lei -, non ci furono esitazioni nell'assegnare a Suor Chiara il titolo di madre badessa. Mosse dal suo esempio, due sorelle del Cardinale Ottaviano, Giovanna e Lucia, approdarono anch'esse al Convento ove condussero vite del pari sante. E infatti sono nell'elenco dei dodici beati stilato dal Brocchi.

Il Cardinale Ottaviano Ubaldini in una medaglia pubblicata dal Richa

Dal canto suo il Cardinale Ottaviano, considerando la posizione del Convento scarsamente sicura e esposta ad assalti di malintenzionati, decise di far costruire a sue spese un nuovo Convento, di ben maggiori dimensioni, non distante da San Pier Gattolini (Porta Romana). Una volta ultimato, una solenne processione al suono di tutte le campane fiorentine suggellò il trasferimento.
Quando Chiara entrò nella gloria del Signore, le maestranze della Cattedrale fiorentina costruirono e inviarono al Convento un sarcofago, da Fra' Mariano definito arca, ornato di bassorilievi, nel quale la salma fu deposta. Dopo dodici anni - durante i quali Chiara non fu avara nel compiere miracoli dal cielo -, venne a mancare la nipote Giovanna, e la si volle seppellire nel sarcofago. Quando questo fu aperto, la salma di Chiara era ancora perfettamente conservata, e la sua mano destra era sollevata come nell'atto di benedire.
Nel tempo che la veneranda Suora Magdalena fu badessa di Monticegli, ovvero secondo Brocchi nel 1459, si decise di collocare il sarcofago in luogo più alto et honorevole. La salma fu di nuovo riesumata, e ancora era in perfetto stato di conservazione.

Come si vede, la storia sembra del tutto lineare, e non si differenzia da molte altre vicende umane riguardanti beati oggi sedimentati sotto secoli d'oblio.
In realtà sul piano storico ci sono parecchi punti interrogativi.
La storia di Fra' Mariano fu redatta prima dell'assedio di Firenze (1528). In questa occasione si dovette radere al suolo il Convento. Le monache salvarono il salvabile - tra cui numerose reliquie anche di S. Francesco, nonché il sarcofago -, affidandone parte ai frati di S. Croce. Nel 1531 approdarono nei locali di un ex ospedale presso Via de' Malcontenti. Giuseppe Richa (1755) ebbe modo di vedere il luogo e le reliquie, compresa l'arca che però non conteneva più le salme delle due beate. Può darsi che fossero andate disperse già durante l'assedio. A questo riguardo c'è un inverosimile passo di Marietta de' Ricci ovvero Firenze al tempo dell'assedio (1839), romanzone storico di Agostino Ademollo  ricco di notizie interessanti non meno che di strafalcioni. Come quello secondo cui i frati di S. Croce avevano nascosto sotto il pavimento della Sacrestia della Chiesa numerosi tesori tra cui l'urna d'oro tempestata di gemme contenente il corpo della Beata Chiara Ubaldini, che i frati avevano ricevuta in custodia dalle Monache di Monticelli. I soldati in cerca di salnitro per le munizioni avevano fatto il fortunato rinvenimento e si erano portati via ogni cosa. L'idea che una suora di un ordine mendicante, ancorché proveniente da facoltosa famiglia, si fosse fatta seppellire in un'urna preziosissima è al di fuori di qualunque concepibilità.
Le date della vicenda, mancanti in Fra' Mariano, si è cercato di fornirle in seguito, non senza difficoltà. Richa sostiene che il trasferimento del Convento fuori Porta Romana avvenne nel 1260. Secondo Brocchi la Beata Chiara morì in età molto avanzata nel 1264. In tempi relativamente recenti altri studiosi, tra cui Davidsohn, hanno confutato questa ipotesi, e posticipato il decesso dopo il 1327. Solo in questi anni si troverebbe infatti registrata come badessa del Convento una Suor Chiara. Il che porterebbe a rimettere in discussione le parentele di Chiara con il Cardinale Ottaviano e con le altre due Beate.

© Victoria and Albert Museum London

Il bassorilievo del sarcofago, molto bello, complica tuttavia ulteriormente le cose. Né la stessa storia del sepolcro è priva di punti oscuri. Si trovava ancora integro nel Convento alla fine del '700, ma dopo la soppressione napoleonica (1808) se ne perdono le tracce. Nel 1882 ricomparve il solo bassorilievo che lo ornava, e che da allora si trova al Victoria & Albert Museum di Londra (dal cui sito ho ripreso le foto). Inizialmente l'iscrizione latina con riferimenti a Chiara lo aveva fatto ritenere il sarcofago di Santa Chiara di Assisi. Nel 1949 Pope Hennessy ne dette l'attribuzione corretta. Dalle caratteristiche stilistiche il sito lo fa risalire agli anni 20-30 del '300, ma Angelo Tartuferi (2004) lo riporta all'ottavo o nono decennio del Duecento. Insomma, quando visse realmente Chiara? La questione, per quanto mi è dato sapere, non ha ancora trovato una conclusione certa.
La perdita della salma, e dunque l'assenza di reliquie, è senz'altro fra le cause che hanno portato a dimenticare questa figura di Beata. Secondo Sbaraglia, che cita un manoscritto di Fra' Giuliano Ughi della Cavallina, la Beata Chiara Ubaldini era menzionata in un Martirologio francescano alla data del 27 febbraio.

Aggiornamento del 10 gennaio 2018.
Ho finalmente trovato sul web la seconda edizione del Martirologio francescano redatto da Arthur du Monstier, e pubblicata nel 1653. Al 27 febbraio, la figura di Chiara viene dapprima riassunta così: Florentiae, Beate Clare de Ubaldinis, vidue, Abbatissae: quae nobili exorta prosapia, religione, atque vitae, perfectione enituit. A seguire, una nota biografica relativamente ampia che si rifà probabilmente a fra' Mariano in quanto ripercorre in pratica quanto si è fin qui detto, salvo che il trasferimento del convento è fatto risalire al 1261. La data del decesso della Beata risulta anche qui l'anno 1264.






venerdì 6 gennaio 2017

Cristina Falcini, un'ereditiera della Macchia



Un artista autodidatta di solito si riconosce di primo acchito e, se ha talento, ciò non di rado costituisce un punto di forza. Cristina Falcini è in effetti autodidatta, ma non dà questa sensazione. Al contrario, guardando i suoi paesaggi ti immagini un lungo percorso tra Artistico e Accademia. Invece no. Ha fatto (quasi) tutto da sola. Nata a Prato nel 1964, nel 1985 incontrò Pier Luigi Boldrini, che l'aiutò a settare le vele nel verso giusto. Nel 1987 aveva già allestito la prima personale. La prima di una lunghissima serie. Così scrisse l'altro suo maestro Giulio da Vicchio in occasione di una di esse: "Da alcuni suoi dipinti specialmente di grande respiro noto doti non comuni che lasciano intravedere possibilità di ottimi risultati." Non si sbagliava. E proseguiva: "Desidererei che il pubblico che avrà il piacere di visitare la sua mostra notasse quelle doti di sincerità, di purezza, di voglia di fare che contraddistinguono la sua pittura."
Ha scritto Daniela Pronestì: "La maggior parte dei suoi paesaggi descrive la Toscana contadina, campestre naturale e rurale caratterizzandosi per l'essenzialità e gradualità dei colori del cielo, la mite variabilità dei toni verdastri, la sottile espressività delle ombre causate dall'incidenza del sole, l'atmosfera coinvolgente di tradizioni del suo popolo senza che nessun elemento prevalga su gli altri". Il collega e grande amico Niccolò Niccolai sintetizza: "La resa della spazialità è la sua peculiarità, oltre a un robusto e sincero cromatismo". Giuliano Paladini, del pari collega e amico nonché Presidente dell'Associazione Giotto e l'Angelico di cui Cristina fa parte, riconosce di avere un'ammirazione particolare per lei: "È una forza della natura. Guardatela poi mentre dipinge: è una cosa meravigliosa!"


Io ho voluto definirla ereditiera, ancor più che erede, del movimento post macchiaiolo, anche se non penso renda sufficientemente l'idea. La difficoltà, nel parlare di Cristina, è riuscire a far comprendere a parole come i suoi paesaggi post macchiaioli, che mostrano generi di soggetti non di rado inflazionati, posseggano una marcia in più e abbiano un'impronta personale addirittura prepotente, che li fa risultare del tutto inconfondibili al primo sguardo.
Nel settembre 2015 visitai la grande esposizione Artisti del mondo a Firenze, organizzata da Fabrizio Borghini in occasione dell'Expo 2015. Gli autori che vi partecipavano, con una o più opere, erano centotrenta. Non sapevo se tra di essi c'era anche Cristina, ma poi individuai Dopo la pioggia che, in mezzo a una dozzina buona di altri dipinti pur di soggetto simile, giganteggiava. Non ebbi bisogno di leggere la targhetta.

Dopo la pioggia

Alcuni anni prima, io ed Enrico Pazzagli facevamo parte della giuria di un concorso artistico che si teneva al Foro Boario di Borgo S. Lorenzo. Nella grande sala ove erano esposte le opere, rigorosamente anonime, le passavamo in rassegna, prendendo appunti. Davanti ad uno splendido paesaggio, però, all'unisono come in un balletto ci bloccammo e ci guardammo l'un l'altro. Del pari all'unisono esclamammo: "Cristina!". Non poteva essere che lei. E infatti era lei. Vinse a man bassa. Tanto per cambiare. 

Uno dei tanti primi premi di Cristina
Non mi sorprenderei se le capitasse quanto accaduto tanti anni fa ad Alfredo Binda, ovvero che il comitato organizzatore di un qualche concorso pittorico la paghi perché non vi partecipi. Intanto, Cristina sta preparando una iniziativa per il trentennale della sua prima esposizione. Sarà a giugno.


Con Silvano 'Nano' Campeggi
Con Susi La Rosa e, sullo sfondo, Filippo Benci

martedì 3 gennaio 2017

Mauro Boninsegni. Ecco il suo Pinocchio.


Conobbi Mauro Boninsegni lo scorso maggio quando, presso la Casa di Giotto a Vespignano, fu allestita la mostra delle sue illustrazioni delle Avventure di Pinocchio. Queste illustrazioni sono oggi diventate un libro, intitolato appunto Pinocchio raccontato per immagini ed edito da Masso delle Fate in collaborazione con Toscana Cultura, e che Mauro mi ha fatto gentilmente avere.
Nato nel 1944 a San Donato in Fronzano, piccola frazione di Reggello, Boninsegni vi ha fatto ritorno in tempi relativamente recenti dopo un lungo periodo trascorso a Firenze, dove ha aderito a diverse associazioni artistiche di alto livello (Il Paiolo, Gadarte). Nel 2009, per Sarno, aveva realizzato Il focolare dell'artista. La tela e la tavola, "un catalogo di buone e antiche ricette di cucina toscana ovvero un ricettario di opere d'arte".
Pinocchio raccontato per immagini è frutto di un lungo lavoro artistico ed editoriale cui Mauro teneva particolarmente. Quanto scrissi in occasione della mostra vale perfettamente anche per il libro: "Ottanta illustrazioni, frutto di un lavoro di oltre tre anni (...). Vi si dispiega l’intera trama del romanzo (Collodi lo definì una bambinata), con un burattino provvisto di giunti metallici che, fosse un film, diremmo che non esce mai dall’inquadratura. Intorno a lui personaggi, figure e figurazioni dai colori festosi e dagli aspetti non di rado inquietanti – come trama richiede -, spesso ai limiti dell’astrazione, ma mai a scapito dell’intelligibilità della trama. Tanto che le didascalie, estratti letterali del testo, sembrano quasi superflue." 

Boninsegni con Enrico Spagnesi. 

Purtroppo non era possibile rendere sulla carta la penultima tavola, nella quale "lo specchio in cui Pinocchio si guarda, e vede il bambino che è diventato, è uno specchio vero, nel quale si può anche riflettere lo spettatore, e trarne le conseguenze che ...ritiene giuste." Ciò non inficia certo il risultato finale. Mauro Boninsegni "si inserisce oggi, in modo assolutamente degno, entro una lunga tradizione iconografica che parte da Mazzanti, primo leggendario illustratore del romanzo, e prosegue con i vari Chiostri, Mussino, Jacovitti, Luzzati, Innocenti. Ma non si riuscirà a compilarne un elenco completo." Il libro è arricchito da una introduzione di Enrico Spagnesi e da una intrigante dissertazione dello stesso Boninsegni su Pinocchio, un maledetto toscano: da Collodi a Curzio Malaparte. In quarta di copertina, Fabrizio Borghini afferma: "Boninsegni riesce mirabilmente a mantenere omogeneo lo sfondo onirico delle picaresche avventure grazie a una visione espressionista della storia supportata da una padronanza assoluta del colore"
Il libro può essere ordinato presso i principali distributori on line, oppure cliccando qui. Buona lettura e, soprattutto, buona visione.