giovedì 31 gennaio 2019

Un gallerista under 30: Fabio Rocca


A Firenze, in quella Via delle Ruote in cui abitò Santi di Tito, al n. 6R troverete una galleria d'arte chiamata Roccart Gallery. Prende il nome da Fabio Rocca, che la gestisce.
Fabio è nato a Montevarchi il 17 febbraio 1992 e vive a Loro Ciuffenna. Nel 2011 si diplomò all'Istituto artistico e in seguito fece il decoratore per un mobilificio del Valdarno. Grazie a uno dei professori dell'Istituto ebbe contatti con una scultrice di livello internazionale, la quale lo incoraggiò a restare nell'ambiente. Fabio continuò, e infatti tuttora dipinge. In seguito, prima partecipò all'allestimento di una mostra, e poi ne allestì una lui stesso nel suo paese natale. Ebbe successo e soprattutto la cosa gli piacque. Capì che era la sua strada, e risolutamente la imboccò. La Roccart aprì i battenti in data 17 dicembre 2016.

"Come posizione l'ho trovata valida e funzionale", mi dice Fabio. "Si trova nel centro storico fiorentino, ma a breve distanza dai confini della zona a traffico limitato, e questo riduce le difficoltà ad esempio nel portare le opere." La grande sala d'ingresso è destinata di solito alle personali che restano esposte in genere per un due settimane, anche se al momento in cui scrivo è dedicata alla collettiva Bianco & nero inaugurata il 19 gennaio 2019. La sala inferiore (nella foto d'apertura) ospita opere di vari autori, alcune delle quali in permanenza. Specialmente in quest'ultima, grazie alla attentissima ristrutturazione, è palpabile la sensazione di trovarsi in un edificio antico. Un pezzo di storia di Firenze. Ma le opere che ospita proiettano nel futuro.

Inaugurazione della collettiva Chrismas in Art, 15 dicembre 2018

La, diciamo così, filosofia gestionale di Fabio ha avuto un successo crescente e rapido. Io lo conobbi il 15 dicembre 2018 per l'inaugurazione della collettiva Christmas in art cui ero stato invitato dal mio amico Maurizio Biagi, che vi partecipava. Le pareti brulicavano di opere eterogenee, molte sorprendenti, molte splendide, nessuna banale. Fabio prese la parola e presentò i partecipanti uno ad uno in perfetta pari dignità. Mi ha confessato poi: "Aperta la galleria, non tardai a rendermi conto di quanta gente partecipa alle inaugurazioni solo per godersi il rinfresco. Andando avanti, però, questi elementi sono andati diminuendo, più o meno come sono andati diminuendo gli spazi vuoti alle pareti della galleria." 
"Il mio intento", prosegue, "è quello di fornire agli artisti la possibilità di esporre nel centro di Firenze a costi accessibili, avendo uno spazio cui possono soprintendere secondo le loro esigenze e secondo il loro temperamento. Ho ospitato personali di autori provenienti un po' dai quattro angoli del globo: Argentina, Canada, U.S.A, Brasile, e questo ha favorito gli incontri, gli scambi d'esperienze, le influenze reciproche. La galleria è stata, ed è, un eccellente trampolino di lancio. Marco Monatti, ad esempio,.è partito per la Svezia! Maurizio Biagi sarà ad Arte Genova. Io, tra l'altro, non mi pongo il minimo problema nell'aiutare chi ha esposto da me ad allestire altrove una sua personale."
Fabio è in ottimi rapporti e spesso collabora con il quasi coetaneo Niccolò Mannini, titolare della galleria La Fonderia. "Non potremmo in nessun modo definirci concorrenti: siamo geograficamente distanti, e abbiamo due modi di gestire diversi, sicché non c'è proprio il rischio che ci pestiamo i piedi. E al contrario, ultimamente abbiamo organizzato insieme una collettiva dedicata all'erotismo, intitolata Tra cielo e terra, nell'ex chiesa di Santa Monaca in Oltrarno". La mostra è rimasta aperta dall'8 al 13 gennaio 2019. Ecco cosa si leggeva tra l'altro nella nota di presentazione: 

L’esposizione, organizzata da Galleria d'arte La Fonderia e Roccart Gallery, vuole essere una celebrazione dell’eros, della passione, dell’intimità, in un periodo nel quale le nudità e la volgarità dilagano ovunque, inducendo a credere che si tratti di erotismo. Le opere in mostra vogliono dimostrare che l’esplicitazione della nudità, tipica dei nostri tempi non è necessariamente accompagnata da quel senso di desiderio che al contrario può essere nascosto in uno sguardo, nella gestualità, nelle movenze della figura che abbiamo davanti.

La collettiva Tra cielo e Terra in Santa Monaca Oltrarno.
(dalla pagina Facebook di Roccart Gallery)
La presenza a Firenze per lo meno di un altro gallerista under 30 è senza dubbio una bella notizia. Ma, mi assicura Fabio, gradualmente si sta assistendo a un ritorno dell'interesse dei giovani nei confronti dell'arte. Ciò significa anche mutarne completamente l'approccio. Fabio non solo mette a disposizione degli espositori la stampa di cataloghi, brochure e biglietti da visita, ma lavora anche e soprattutto su internet e con i social. Attualmente Instagram molto più di Facebook. "Non è concepibile oggi lavorare in questo settore prescindendo dal web. Senza, canali fondamentali di promozione e di conoscenza della propria attività sarebbero inaccessibili. È fondamentale imparare a orientarsi nella rete e tra i social, per saperli dominare e sfruttarne le potenzialità positive -che sono tante - nel migliore dei modi. Un compito non sempre facile, ma fa la differenza." 

Fabio viaggia molto. Anno scorso si recò con la sua compagna Silvia a Miami, Florida. Per visitare tutte le gallerie del Wynwood Art District gli ci vollero tre giorni. "Ma anche nelle capitali europee la situazione non è molto diversa. C'è un fermento diffuso, un dilagare di idee e proposte. Firenze purtroppo è come non se ne rendesse conto, è dannatamente indietro." E pare davvero che non voglia guarire dalla malattia che l'affligge ormai da secoli, questo immobilismo causato da una sorta di soggezione e/o inibizione verso il suo passato rinascimentale. Anche oggi, e lo denunciavano oltre un secolo fa i futuristi, Firenze, in nome di un lontano periodo di splendore, sembra non permetta che neanche si tenti di crearne uno nuovo. "Domina l'apparenza. Vai a giro con un bel vestito per esibirti, non puoi portare in giro un quadro! Quando facevo il decoratore di mobili, destinati ad abitazioni di un certo livello, ebbi occasione di entrare in parecchie case di benestanti. Tutte belle quanto vuoi, ma tutte uguali, il che era abbastanza deprimente. Dobbiamo tornare a renderci conto della bellezza di cui siamo circondati, di cui dobbiamo continuare - o meglio riprendere - a circondarci, e che dobbiamo continuare a produrre"

Fabio con tre artiste:
Maria Letizia Scarpelli, Susi La Rosa e Sylvia Teri
Al termine di una chiacchierata in cui mi ha parlato anche di tante altre cose, Fabio mi informa sulle prossime esposizioni: una personale di un artista del Nord Italia e, a marzo, She Is Art. Un omaggio alla donna e alle donne, che si comporrà di soli ritratti femminili. 






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mercoledì 16 gennaio 2019

Il poeta che non conosceva le virgole


Giovanni Bellini, nato nei pressi di Poggio a Caiano (FI), rimase ucciso da una granata il 7 luglio 1915, a Plava, durante la battaglia dell'Isonzo. Aveva venticinque anni.
Il suo amico Fernando Agnoletti raccolse con commossa e devota cura tutti i suoi scritti in un volume che fu pubblicato da Vallecchi nel 1921. Ristampato in anastatica nel 2003, il volume si intitola Arciviaggio e si compone di 143 pagine, compresi la nota introduttiva dello stesso Agnoletti e l'indice. Leggere questo libro fa rabbia.

Nato il 22 novembre 1889 nella frazione di Trefiano, Giovanni Bellini era figlio di un acetaio che lavorava in una bottega di Firenze, e di una trecciaia. In famiglia non si moriva di fame, ma i soldi per studiare non c'erano proprio. Giovanni continuò il mestiere del babbo e intanto imparò da solo a leggere e a scrivere. Movendosi tra campagna e città, iniziò a conoscere nonché a farsi conoscere nel mondo intellettuale fiorentino. Ardengo Soffici lo conobbe nelle sale dell'esposizione futurista del dicembre 1913. Così lo descrive:

Il suo aspetto era di campagnuolo, magari di contadino: soltanto osservandolo meglio vidi che sula faccia forte, maschiamente modellata dalle larghe mascelle, faccia d'antico guerriero, errava un sorriso timido e fine, mentre di sotto alla tesa del cappello due occhi scuri incastonati in profonde orbite sfavillavano di quella pura luce spirituale che solo emana dalle profonde anime dei veri artisti.

Soffici rimase senza fiato quando, in un suo paesaggio futurista, quindi scomposto e disarticolato, questo giovane riconobbe un casolare nei pressi di Carmignano. E non si sbagliava. Erano quasi vicini di casa, ma non si erano ancora incontrati.

Necrologio di Giovanni Bellini. L'Illustrazione Italana, 10 ottobre 1915

Giovanni Bellini incontrò Agnoletti con una specie di gaffe:

Ci si conobbe a una dimostrazione, di notte. Si camminava in molti in catena per rompere le cariche della polizia. Notai che il mio vicino di destra mi attanagliava forte. Dopo l'inno di Oberdan domandò: "Perché non si canta quello dell'Agnoletti?" "Il mio? ancora non lo sanno." "Il suo? Scusi." E mi lasciò eclissandosi.

Primo Conti, nelle sue memorie, ricordava alcuni versi dell'inno di Agnoletti:

La baionetta nelle schiene ai cani
la pianteremo - senza pietà

Gioia bella - vo lontano, 
dammi la mano - dimmi l'addio.
Se ti nasce - un figlio mio 
TRENTO E TRIESTE - menalo a baciare

Giovanni Bellini fu dunque un interventista, e dei più accesi. Apriamo una breve parentesi per ricordare che interventista non può essere inteso come sinonimo di guerrafondaio, almeno come lo intendiamo oggi. La percezione della guerra che abbiamo noi, dopo i due spaventosi conflitti mondiali, non si può equiparare a quella che si aveva prima. All'epoca il termine guerra non poteva evocare gli orrori che evoca - giustamente - ai giorni nostri semplicemente perché ancora non c'erano stati, e non ci si deve stupire se all'inizio del '900 il concetto di pacifismo neanche esisteva.

Bellini, scrive Agnoletti, era per l'Italia. Con Luigi di Savoia dittatore. In Arciviaggio trovano spazio due lettere, una a quest'ultimo e una agli ufficiali, ed entrambe erano state pubblicate su Lacerba. Lettere dense di retorica meno ingenua che appassionata. Bellini le aveva consegnate alla redazione senza la punteggiatura, cui provvidero Agnoletti e Papini. Perché, scrive il primo, "ancora non padroneggiava la sintassi, e nemmen bene l'ortografia, ma pure conosceva e valutava l'arte e la faceva". "Bellini", continua Agnoletti, "adoperava segni di interpunzione quando annotava pensieri o strofe per la prima volta, ma li adoperava male. Erano per lui una biffatura provvisoria, piuttosto vaga; copiando, ricopiando e modificando la sostituiva man mano con spazii che segnassero le pause logiche e quelle del ritmo. Avrà imparato dai futuristi?"

Ardengo Soffici, Sintesi di un paesaggio primaverile, 1913

Domanda senza risposta. Di sicuro sono le liriche, con spaziature al posto dei punti e delle virgole, a far intuire la statura, seppure ancora in embrione, di Giovanni.
Ho scritto che leggere l'Arciviaggio fa rabbia. Fa rabbia perché davanti ai suoi versi e alla sua, diciamo così, prosa poetica, si comprende che Bellini stava cercando di individuare il suo percorso affinando e perfezionando le sue conoscenze non solo grammaticali, e si può avere non più di un'idea molto vaga dei vertici cui sarebbe giunto se una granata non lo avesse ucciso.

Di tutte le morti precoci, la più catastrofica della storia è stata forse quella di Masaccio, a 26 anni. 26 anni non li aveva ancora compiuti Clifford Brown, quando morì nel 1956 in un incidente stradale che gli impedì di divenire probabilmente il più grande musicista jazz mai esistito. Jean Vigo morì a 29 anni dopo aver girato due soli film. Tutti e tre (ma altri esempi si potrebbero fare, e in tutti i campi dello scibile), quanti e quali contributi  avrebbero potuto ancora dare alle rispettive arti? Ma tutti e tre avevano comunque fatto in tempo a dipanare il loro talento e a lasciare la loro traccia nella storia dell'umanità. Bellini, no. Guardate l'apparente ingenuità di Insalatina di campo:

(...) E tutti quei fiori     tazze adoprate dalla terra
a bever sole    ad esalar sospiri di profumi
Tutti i ricordi si guardano innamorati 
su argini paralleli
viso a viso
quando sui rii fioriti     toppe di paradiso
passa la voce
Insalatinaaa     di campoooo...

Leggete un paragrafo di Serenata:

Tu cantasti     La tua anima di femmina bramosa di carezze si profuse in fila di musica e luce     Segmenti di rette che andavano da te alle stelle destarono sconosciuti splendori geometrici fino a divine alpi piramidali che il cielo appuntò sulla terra

O Un sepolcro:

Il cielo impaurito di me s'incava sopra il mio capo     diviene paonazzo e marmoreo     e non è più che il coperchio del mio sepolcro posato sulle rocche dei monti

Agnoletti raccolse meticolosamente tutto ciò che riuscì a trovare di Giovanni,  anche frammenti, in termini letterali. Una lettera non finita di cui s'ignora il destinatario. Un taccuino, dal titolo Memorie della Campagna d'Italia nella Guerra della Salute, che in parte era comparso su La Voce dopo la sua morte. E note volanti. Ne copio una:

Brani di luce si sdraiano 
sulle ferrane tenere
trine di luce compaiono
di tra gli ulivi cenere.
 
Sono parole, frasi, versi che affascinano. Ma non sanno di capolavoro. Sembrano annunciarne. Suggeriscono l'inizio di un cammino, brutalmente interrotto. Prima dell'arruolamento Giovanni Bellini, racconta Agnoletti,

chiudeva lo stanzone degli aceti, accendeva il sigaro e si metteva accanto alle sorelle chine e attente sul ricamo. Raccontava: "un giorno o l'altro bisogna che vada a fare un gran viaggio". E a me spiegava: "Dovrà essere un gran bel viaggio; un arciviaggio"

Questo viaggio non lo poté compiere. Il suo amico volle come omaggiare il suo progetto dando il titolo alla raccolta.  
Notte eroica, brano di prosa poetica che - parere personale - mi ha richiamato certe suggestioni visionarie di Dino Campana, termina con una frase che dà anche il titolo a un bel saggio di Niccolò Lucarelli

Quella che non calpestò nessuno sarà la strada che mi ricondurrà

Una strada che non calpestò nessuno, e che nessuno più calpesterà.












domenica 6 gennaio 2019

Il Principe dei restauratori


Se Gaetano Bianchi fosse vissuto nel XX secolo, a lui sarebbe spettato il coordinamento delle attività per la difesa delle opere d'arte dai saccheggi e dai danneggiamenti durante il secondo conflitto mondiale. Compito che probabilmente avrebbe svolto nel migliore dei modi possibili. In seguito, forse in perfetta sintonia con Emanutele Casamassima che si occupò dei libri della Nazionale, avrebbe gestito gli interventi sul patrimonio artistico massacrato dall'alluvione di Firenze del 1966. Se vivesse ai giorni nostri, dirigerebbe l'Opificio delle Pietre Dure e sarebbe contemporaneamente a capo delll'Istituto per l'Arte e il Restauro di Palazzo Spinelli. È ovvio però che lavorerebbe in modo ben diverso rispetto a come operò realmente in vita. Non mi riferisco tanto ai logici progressi tecnici, quanto ai concetti di base, ideologici si potrebbe dire, del restauro. Perché Gaetano Bianchi visse nell'Ottocento. E l'idea di restauro che allora dominava ci fa, oggi, inorridire. Impedendoci così di comprendere appieno il valore della sua opera, coerente con la mentalità dell'epoca, sbagliata non per colpa sua. E impedendoci di riconoscergli meriti indubbi.

Gaetano Bianchi nacque nel 1819 a Firenze. Il padre lo mise a lavorare alla cartoleria Pistoj in via Condotta. Lo incaricarono di cancellare, con appositi acidi, gli scritti e le miniature, non di rado bellissime, da antiche pergamene, che, usando le parole di Augusto Alfani, così potevano essere riutilizzate nel far culatte a registri ed a filze. In seguito il rimorso per i capolavori che fu costretto a distruggere lo torturò per tutto il resto della sua esistenza. Questa mansione lo disgustò al punto che, per reazione, volle iscriversi all'Accademia di Belle Arti. Nonostante i tentativi del padre, a suon di legnate, di farlo tornare alla cartoleria, Gaetano all'Accademia ci rimase e si fece onore. Poi, ecco quanto racconta Alfani:

Uscito di là con la medaglia d'oro, guadagnata con un acquerello d'invenzione al concorso triennale, si consacrava tosto principalmente all'arte difficile del restaurare gli antichi affreschi, nel che si parve davvero tutta la sua nobiltà. I numerosi lavori condotti nella sua lunga carriera di artista segnano altrettante orme nel cammino della perfezione; come, a tacer di altri molti, il restauro delle cappelle Peruzzi e Bardi dipinte da Giotto, e la restituzione all'antica maniera dell'arco maggiore con la crociera che volta alla Sagrestia nella Chiesa di Santa Croce; il riordinamento dell'antico Convento di San Marco; i restauri alla Loggetta del Bigallo; i ripristinati affreschi di Giovanni Mannozzi, o da San Giovanni, nella Chiesa di Monsummano; il restauro all'Archivio di Stato in Pisa; le decorazioni di stile antico nel Castello di Vincigliata; le opere egregie del Palazzo Pubblico di Udine; le storie insigni della Casa Malaspina nel Castello di Fosdinovo; i lavori nella Villa reale della Petraia, in quella di Stibbert a Montughie, e nel Palazzo del marchese di Montagliari in Via Cavour; il restauro del vestibolo ed atrio del Palazzo Pretorio di Scarperia; le decorazioni a buon fresco nella classica cappella e i degni lavori nella Villa delle Corti...

L'elenco, che prosegue ben oltre, fu formulato durante il rapporto alla Società Colombaria di Firenze per l'anno 1891-2. Bianchi era mancato da poco.
Il restauro delle Cappelle Bardi e Peruzzi, datato 1853, è forse il suo lavoro più noto. Alfani lo lodò perché era ancora considerato valido il procedimento che Silvia Meloni Trkulja così descrive nel Dizionario Biografico degli Italiani (1968):

La Morte di San Francesco restaurata e integrata da Bianchi
Come era uso allora, il restauro fu pittorico e totalmente integrativo delle parti mancanti, anche per grandi superfici (si veda il S. Luigi, interamente del Bianchi), e l'artista vi riprese la tecnica antica perfino nell'uso della sinopia, tracciata per la testa del S. Francesco portato in cielo. Il divario esistente tra la parte giottesca, per di più in cattive condizioni, e la propria indusse il pittore a ripassare con tempera bruna anche le parti antiche, alterandone vari elementi, come la forma e la direzione delle ombre portate.

La Morte di San Francesco, oggi
Ripeto, oggi non si può fare a meno di sobbalzare, leggendo di questa autentica violenza perpetrata nei confronti di capolavori assoluti dell'arte universale. Un'ulteriore conseguenza del restauro è implicitamente rivelata dall'erudito John Ruskin nelle sue Mattinate fiorentine, lettere pubblicate tra il 1875 e il 1877 in cui disquisiva sulla storia e sull'arte fiorentina. Partendo proprio da Santa Croce, nella prima Mattinata scrive:

Ora, se amate davvero  l'arte antica, non potete ignorare la forza del Duecento e neppure che il carattere di quel secolo trovò la sua espressione più alta ed emblematica nel migliore dei suoi re, san Luigi. (...) Quindi se mi è concesso di indicare una specifica opera di Giotto da cui iniziare il nostro esame direi di partire dall'affresco di una figura ad altezza naturale ritratta sullo sfondo architettonico del campanile, un affresco situato in un luogo importante e che, possibilmente, abbia per soggetto il santo da lui più amato, san Luigi. (...)   È questo san Luigi, sullo sfondo architettonico del campanile, opera di Giotto oppure di un oscuro pittore fiorentino che ha dipinto sopra un Giotto? (...) Ridipinto o no che sia, è senza dubbio bellissimo. 

Insomma il san Luigi, che come abbiamo visto era in realtà opera ex novo di Bianchi, cattura tutta l'attenzione dello studioso, a scapito degli affreschi sulle pareti cui poi, in pratica, Ruskin neanche accenna. E stiamo parlando di una persona di cultura non comune.
Ma, e ripeto anche questo, erano altri tempi.  

Della Cappella come appariva restaurata da Gaetano Bianchi ho rintracciato solo un'immagine della Morte di S. Francesco, in un sussidiario degli anni Sessanta. Sull'edizione BUR del 2016 delle Mattinate fiorentine è riprodotta una incisione raffigurante il San Luigi. Nel 1959, ad opera di Leonetto Tintori e sotto la guida di Ugo Procacci, fu ultimato un restauro in cui le parti integrate da Bianchi furono asportate, e sono conservate altrove. Il San Luigi fu rimosso interamente. Quello che ammiriamo oggi è il capolavoro giottesco nel suo aspetto originale. O meglio, quanto dell'originale rimane. Sono adesso visibili le ferite infertegli all'inizio del '700, quando la cappella fu imbiancata e vi furono impiantati monumenti funebri e lapidi. Le cui impronte hanno distrutto irrimediabilmente le parti dipinte. Uno scempio ben maggiore di quello perpetrato da Bianchi. Ma, anche in questo caso, erano altri tempi, e la mentalità del secolo dei lumi non aveva il massimo della considerazione per i primitivi, in pratica tutti gli artisti vissuti prima di Raffaello. La Cappella de' Bardi non ne fu certo l'unica vittima. Solo nel terzo decennio dell'Ottocento, spiega Giorgio Bonsanti, "nacquero le premesse perché si rivalutasse l'arte dei primitivi. Il gruppo dei Nazareni fiorentini, cui appartenevano pittori stranieri come Franz Adolf von Sturler, e gli accademici fiorentini Luigi Mussini e Antonio Marini, propugnava i valori di quella corrente del Romanticismo che sfociava nel Purismo (...). Le parole d'ordine erano 'bellezza - religione - verità', e quei valori venivano riconosciuti nelle pitture medievali". E Laura Corchia scrive: "Intorno al 1840, Marini venne chiamato ad effettuare alcuni saggi sugli intonaci della Cappella della Maddalena [al Bargello]. Nel corso di questo intervento, egli recuperò quel ciclo di pitture murali che Vasari ricordava come una delle opere tarde di Giotto. È opera del Marini la riscoperta del ritratto di Dante." Marini restaurò parte della cappella Peruzzi, dopo che a partire dal 1841 si era iniziato a liberarla dall'imbiancatura. Il lavoro di Gaetano Bianchi sulla cappella Bardi si inseriva in questo solco.

L'affresco nella chiesa di San Donato
Oltre a quelli elencati da Alfani, di Bianchi si possono ricordare gli interventi nel 1864 sulle volte di Orsanmichele, l'anno dopo e fino al 1869 nel convento di S. Marco; le ripuliture e i restauri in Palazzo Vecchio; le sue numerose consulenze storiche e, fuori dalla Toscana, citati da Silvia Meloni Trkulja, i restauri al palazzo municipale di Udine al palazzo ducale di Mantova, i contatti con Alfredo d'Andrade, costruttore del borgo medioevale al Valentino. Aggiungerei le decorazioni di Villa Demidoff a San Donato, e gli affreschi, in questo caso realizzati proprio da pittore, nella vicina chiesa omonima, in stile trecentesco.

L'intervento sugli stemmi sulla volta dell'atrio del Palazzo dei Vicari di Scarperia (foto d'apertura) fu uno dei suoi ultimi lavori. Scrive Mirella Branca: 

Il restauro era stato preceduto da accurati studi storici da parte del restauratore, già dall'estate del 1888, un anno prima dell'effettivo avvio, in un rapporto di stretta collaborazione con il suo committente [il principe Tommaso di Neri Corsini], che provvedeva a integrare i dati sugli stemmi da loro osservati nel corso delle visite compiute in vari loghi fiorentini, sorvegliando poi da vicino i lavori. 
Questo restauro, criticato all'epoca perché troppo evidente era la mano dell'artista, ha tuttavia consentito il mantenimento delle pitture, ripristinate nel loro insieme in base ai caratteri originari.

Le critiche, tuttavia, rimasero fuori dalla porta in occasione dell'inaugurazione dell'atrio, avventa l'8 settembre 1890, e durante la quale lo storico Giuseppe Baccini tenne un discorso, piuttosto logorroico e retorico come d'altronde imponeva l'epoca, in cui celebrò le glorie del castello di Montaccianico e la fondazione da parte dei fiorentini delle due Terre Nove di Firenzuola e di Scarperia, lodò sperticatamente - ma non del tutto a torto - il principe Corsini, finché:

Ed ecco perché (ce lo consenta l'illustre patrizio) noi tutti qui presenti, stretti in un solo pensiero, sentiremo il dovere, in questo fausto giorno, di manifestare a Lui la nostra immensa ed amorevole gratitudine non solo per la cospicua somma che egli spontaneamente elargì per lo stupendo restauro, ma anche per aver voluto associare alla nobile impresa, il Principe dei viventi restauratori, il Cav. Prof. Gaetano Bianchi, nome carissimo all'arte, agli amici, ai colleghi, a coloro insomma che nutrono culto sincero per le opere dei più celebrati maestri dei secoli passati. 
Il Cav. Bianchi, col raro suo ingegno, colla bella sua intelligenza che l'ha reso padrone dei segreti dell'arte antica, ridona col magico suo pennello la vita, la forza e la vivace espressione del colorito a quelle pitture che l'opera distruggitrice del tempo e la trascuratezza degli uomini avevano quasi cancellato. (...) Ed io, lieto che mi si porga oggi l'occasione favorevole, plaudo all'uomo venerando, all'artista ispirato che compì sapientemente i restauri di quest'atrio che gli annali mugellani registreranno con lode a perpetuo ricordo dei posteri.