domenica 23 dicembre 2018

Buon Natale!


Quando gli uomini vivevano con la natura, nel tempo dell'anno che il Sole ritornava a salire nel cielo, sentivano di dover festeggiare il grande avvenimento adornando un abete nella foresta e, nella radura luminosa, con danze e canti si rallegravano nel cuore. 
Poi, dal Paese dove il mare non gelava mai, un giorno arrivarono alcuni uomini ad annunciare la grande novella: era nato Uno che portava la luce. La luce dentro di noi, non fuori di noi. Così per festeggiare quest'Uomo unirono la sua nascita alla festa del Sole.
(Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Einaudi 1991)

El Greco (1541-1614), Adorazione dei pastori,1612-14, Madrid, Prado




giovedì 20 dicembre 2018

GABBATO LO SANTO 15: Dalla parte delle bambine


Ho conosciuto la figura di Celestina Donati grazie alla lettura di Il babbo era un ladro (Betti Editrice, 2018), un libro splendido come tutti quelli scritti da Paolo Ciampi, in cui si ricostruisce mirabilmente la vita non facile della figlia di un ladruncolo meno poeta romantico che egolatra, nella Firenze del secondo dopoguerra. Nel 1949, la piccola protagonista Bruna fu condotta a Campo di Marte. Scrive Ciampi: "Qui c'è l'istituto delle Calasanziane, le religiose che hanno raccolto l'eredità spirituale della beata Celestina Donati, la suora di Marradi che per missione ha scelto i bambini abbandonati. E chi può essere più abbandonato del figlio o della figlia di un carcerato? È dal 1889 che l'istituto opera, prova provata che a Firenze il cattolicesimo non vive solo di messe e chiacchiere nei salotti, piuttosto sa rimboccarsi le maniche e dare gambe alla carità". Più avanti: "Da parecchio, ormai, qui non c'è più il collegio dei bambini abbandonati, ma una scuola privata di buona reputazione." Non è la sola. I centri educativi delle suore Calasanziane sono oggi sedici, di cui due in Brasile e uno in Romania, uno in Nicaragua e uno nel Congo. La beata Celestina seppe seminare.

Celestina Donati (1848-1925) fu beatificata a Firenze il 30 marzo 2008 da Papa Benedetto XVI. Le testate religiose ne parlarono più o meno diffusamente. Ecco cosa scrisse tra l'altro Toscana Oggi:

In una Cattedrale gremita di religiose e religiosi, di sacerdoti e di fedeli giunti da ogni parte d'Italia, il Cardinale Saraiva Martins ha tratteggiato la vita della nuova Beata: «sotto la sapiente guida del Padre scolopio Celestino Zini, poi diventato vescovo di Siena, maturò la sua vocazione, conoscendo sempre più profondamente la spiritualità calasanziana. Si consacrò totalmente al Signore, dedicandosi al servizio delle bambine più povere e bisognose di cure, fondando per questo la nuova Congregazione di religiose, oggi note come Calasanziane».

Subito dopo, però, il web è diventato decisamente avaro di notizie su di lei. 
Di Celestina sono riuscito a rintracciare solo due fotografie, una delle quali è quella d'apertura che riprendo dal sito delle Calasanziane, e da cui in seguito sono originati tutti i ritratti da santino. Ne troviamo una spiegazione sulla sua biografia, stilata da Aladino Moriconi nel 1949 e stampata a Firenze dalla Direzione Generale delle Suore Calasanziane in occasione del centenario della nascita: "Altra cosa cui era difficile sottoporla per la sua grande umiltà era il ritrattarla: bisognava farlo sempre di sorpresa, e solo qualche rarissima volta lo fece per espresso desiderio dei Superiori."
Come già si può comprendere dalle parole di Paolo Ciampi, la vicenda umana della Beata Celestina Donati, al secolo Anna Maria o Marianna Donati, è esemplare per lo meno quanto la sua attività fu anticonvenzionale. Risulterebbe tale oggi, figuriamoci a cavallo tra XIX e XX secolo. 

La prima sede della Congregazione in via Faenza
Marianna faceva parte di una delle famiglie storiche di Firenze. Nel senso che di Firenze fecero anche la storia: i Donati. Il padre, Francesco, avvocato universalmente stimato, ebbe da Costanza Civinini quattro figli: Gemma (come la moglie di Dante), Alfredo, Corso (come Corso Donati, anche se averlo tra gli avi non era tanto da vantarsene) e Marianna. Francesco cambiò spesso luogo di lavoro, da Marradi a Cortona, Montelpulciano, Castiglion Fiorentino, Siena, e finalmente nella natia Firenze. Marianna nacque quand'era a Marradi.
Dunque, la storia di Marianna parte da un classico: una famiglia benestante, uno dei cui elementi (l'avrete già intuito) sceglierà la povertà e la carità. Ma gli sviluppi avranno tratti del tutto insoliti. Marianna dovette aver ereditato qualcosa anche da un'altra Donati: Piccarda. Non solo la dolcezza e la bontà, ma forse soprattutto l'indipendenza, e un carattere di delicato acciaio.

Avere un carattere forte non significa non avere mai dubbi. Marianna ne aveva, e tanti. La devozione filiale non le consentiva di allontanarsi dal padre, specialmente dopo la morte dell'adorata moglie. Era buono, il babbo. Non era affatto un tiranno. Adorava tutti e quattro i suoi figli. Solo che per Marianna sognava un bel matrimonio. E questo la figlia non lo permise. La determinazione di sposare Gesù Cristo le era nata dopo l'incontro col Padre Scolopio Celestino Zini, che la seguì anche dopo essere stato nominato Arcivescovo di Siena. 

Padre Celestino Zini
Un periodo di prova presso le Suore Vallombrosane non ebbe esito felice. Probabilmente Marianna sentiva di dovere e voler compiere un cammino del tutto suo. Né era fatta per appartarsi dal mondo, ma al contrario per viverci dentro. E ci visse.
Ci vollero ancora anni perché il suo progetto si concretizzasse. Cercò un quartiere con vicina una chiesa e in cui poter alloggiare anche il babbo e la sorella Gemma (i fratelli avevano brillantemente seguito le orme del padre). Finché in via Faenza 62, accanto alla Chiesa di S. Giuliano, Marianna Donati fondò la Nuova Congregazione delle Figlie Povere di S. Giuseppe Calasanzio. La regola fu scritta da Padre Celestino. Da lui Marianna prese il nome e da allora si chiamò Suor Celestina Donati. Era il 1889 e Marianna, ora Celestina, aveva 41 anni. Attenzione: non pensate a questa età com'è vissuta oggi. All'epoca si era irrimediabilmente vecchie. Ma il lavoro per lei era appena iniziato. La strada da seguire - tutta in salita e con una pendenza da Stelvio - le fu indicata da una bambina condotta al convento dalla mamma che voleva sottrarla alle botte del padre perché non vendeva abbastanza fiammiferi. Celestina riuscì a far pentire e convertire l'uomo, e alloggiò la famiglia nel convento. Tra parentesi: quanto ci sarebbe bisogno oggi del suo lavoro!


La biografia di Aladino Moriconi ha spesso passaggi un po' enfatici a cui non era facile sfuggire dovendo tessere le lodi della protagonista, ma è articolata e dettagliata. In più, a un certo punto traccia rapidamente una biografia, gustosa in quanto dal punto di vista di Satana, di San Giuseppe Calasanzio (José de Calasanz, 1557-1648), fondatore delle Scuole Pie, che creò a Roma nel 1597 la prima scuola gratuita per i poveri in Europa, e al cui nome, come abbiamo visto, è intitolato l'istituto.

Questa donna - diceva il maligno - si picca di far la scimmia a quel Giuseppe Calasanzio che, di certi monelli, che se ne stavan beatamente in piena libertà per le vie e per le piazze, con quelle sue Scuole Pie s'era ficcato in testa di farne della brava gente, senza avvedersi invece che ne faceva degli spostati: ma ebbe a fare in conti con me, ché gliene feci tante da farlo perfino arrestare e portare pubblicamente di pieno giorno al Santo Uffizio con tutto il suo stato maggiore; e poi gli mandai alla malora tutta quell'accozzaglia d'asini pezzenti dei suoi frati, costringendolo infine a morir di bile e quasi disperato, dopo averlo tartassato per quasi tutti i 92 anni della sua sciagurata vita. Così farò anche di questa esaltata piagnucolona, di questa pitocca che non rifinisce di portar della confusione tra i gaudentoni fiorentini per toglierli dalla loro beata indifferenza religiosa. 

L'unica (?) altra fotografia di Suor Celestina
Suor Celestina non si arrese né a Satana né, soprattutto, alla diffidenza dei fiorentini, inevitabile di fronte a principi come quello che sempre Moriconi le fa esprimere, rivolta alle altre suore:

Che ne dite voi, se si aprisse in Firenze un Laboratorio d'Arti e Mestieri per le ragazze del popolo, onde potessero guadagnar qualche cosa durante l'abilitazione  al lavoro, ed intanto avessero modo d'acquistarsi una formazione cristiana per divenir poi buone e brave madri di famiglia, sottraendole così alle speculazioni e alle cupidigie dei poco coscienziosi industriali, che soglion tenerle nei magazzini, ove è sbandito il santo timor di Dio?

Se l'idea può risultarci oggi superata, allora era ai limiti del sovversivo. E, mentre a Napoli il Beato Bartolo Longo (1841-1926) si occupava, anch'egli non esageratamente difeso e favorito, dei bambini dei carcerati, Celestina dedicò la sua attenzione alle bambine in particolare dei carcerati. Ancora Moriconi scrive che Suor Celestina "non con ciance accademiche, ma con la pratica luminosa dei fatti ha dimostrato falsa e crudele la teoria positivista di un Cesare Lombroso e di un Enrico Ferri, i quali pretendono che i figlioli seguano la natura dei padri: in modo che da un padre delinquente o pazzo debba nascere un figliolo delinquente o pazzo."
Non è una cosa rapida, né indolore. Ma è, come afferma Giampiero Pettiti su www.santiebeati.it, "un intervento che ancora suscita diffidenza e scandalo, tanto è poca la considerazione che all’epoca si ha per chi è in carcere. Ci vuole tempo e pazienza perché Madre Celestina riesca a far convergere sulla sua opera la beneficenza dei ricchi fiorentini, trasformando la loro “carità da salotto” in concreti interventi per i bisognosi."

L'interno di San Giuliano
Così, contrariamente a San Giuseppe Calasanzio, Suor Celestina incontrerà grosse difficoltà, non tanto dalla Chiesa, da cui anzi sarà appoggiata, in particolare dall'Arcivescovo Mistrangelo che era Padre Scolopio, quanto nel reperire i fondi. Nel trovare gli sponsor, insomma. C'era da mantenere una congregazione che pareva espandersi da sola. L'apertura di una Casa delle Calasanziane a Livorno fu la prima di una lunga serie. La suora ideò una colonia marina per la salute delle bimbe, sempre a Livorno. Istituì in San Giuliano l'Adorazione Perpetua del Santissimo, tuttora esistente. Era il 1900. Quattro anni dopo s'inaugurò la struttura di via delle Cento Stelle. Celestina non sapeva dire di no alle richieste di accoglienza di bambine bisognose. La sua esistenza fu così un continuo dibattersi tra la gestione delle suore, la ricerca e/o la manutenzione delle strutture d'accoglienza, l'attenzione alle bambine e soprattutto i conti da pagare. Rigidamente contraria ad accettare qualunque forma di sovvenzione fissa, faceva affidamento sulle donazioni da parte di famiglie per lo più nobili di cui doveva superare i pregiudizi e le resistenze. Resta celebre una battuta di Suor Celestina, riportata anche da Moriconi: "Gesù è morto sui chiodi, noi sui chiodi ci si campa". Un fiorentino sa bene che i chiodi in questione sono i debiti. Quando Mistrangelo si rallegrò con lei perché era guarita da una brutta polmonite e ne attribuì il merito anche alle preghiere delle bambine, ribatté: "Dica piuttosto che sono state le preghiere dei miei creditori".

Via delle Cento Stelle

Quando, in mezzo a non pochi ostacoli e dopo non pochi tentativi andati a vuoto, riuscì a realizzare il suo antico desiderio di aprire una casa a Roma, presso Porta Furba, Celestina aveva 75 anni. Avere 75 anni allora era come essere oggi intorno ai novanta. Scrive ancora Moriconi: "Le prime due bimbe là ricoverate si chiamavano Maria ed Angela: eran della Campagna romana ed avevano il babbo a Regina Coeli per molti e gravi delitti. Quelle creaturine, alle mani di un uomo bestiale..., erano in condizioni miserande! Una tra l'altro aveva i denti spezzati e l'altra aveva una gamba fratturata e bisognava operarla...". Un acceso e appassionato articolo sul Messaggero diede come risultato una serie di donazioni che ridussero la precarietà della nuova istituzione. Lo stesso effetto, anche se s'intende non certo risolutivo, ebbe per le strutture fiorentine un articolo sul Nuovo Corriere. Significativa una lettera scritta a Suor Celestina il 7 marzo 1925, quando era già gravemente malata, dall'amico scrittore e poeta Giulio Salvadori (1862-1928), nella quale le riassume il lavoro instancabile suo e della sorella Giuseppina per il sostentamento delle suore romane. Appelli, sottoscrizioni, richieste presso famiglie amiche. Questi sforzi non furono vani, anche se Celestina non fece in tempo a vederli: entro lo stesso anno si venne all'acquisto di un terreno con un casale a Primavalle, dove nel gennaio 1929 si aprì il nuovo asilo romano per le figlie dei carcerati. Quello che oggi è l'Oasi Celestina Donati. 

Moriconi descrive l'agonia della Suora con eccessiva enfasi retorica, ma la morte di Suor Celestina, avvenuta il 18 marzo 1925, fu in effetti motivo di costernazione sincera per tutta Firenze, e non solo. È morta una santa, fu la frase più ricorrente. Antonio Borrelli, sempre su www.santiebeati.it, scrive: "una decina d’anni dopo si cominciò ad istruire la causa per la sua beatificazione, il 12 luglio 1982 uscì il decreto d’introduzione; il 6 aprile 1998 si ebbe quello sull’eroicità delle virtù e il titolo di venerabile." Insomma, c'è voluto il suo tempo perché si arrivasse alla beatificazione, proclamata, come abbiamo visto, nel 2008. Da Elena Giannarelli, sul suo prezioso Donne di pietra (II ediz. Giorgi & Gambi 1999), veniamo infine a sapere che era stata approvata, da apporre sulla facciata della sede di via Faenza, una lapide che in realtà non è mai stata affissa. Diceva:


QUI LA FIORENTINA SUOR CELESTINA DONATI
VISSE SILENZIOSAMENTE SUI CHIODI 
PER ASSISTERE LE FIGLIE DEI CARCERATI


















mercoledì 12 dicembre 2018

I segreti di Giotto, ma anche no



"L'autoritratto di Giotto in Esaù respinto da Isacco" titola un articolo pubblicato dall'ANSA il 10 novembre. La notizia riguarda il celebre affresco (foto d'apertura) situato nella parte alta della Basilica superiore di Assisi, è ripresa dal Giornale dell'Arte e mi è stata inviata dall'amico Mauro Baroncini. La sedicente straordinaria scoperta che, diciamolo subito, fa acqua da tutte le parti, si deve a uno studioso di cui mi ero già occupato anni fa: Luciano Buso. Questi detiene un sito, www.lucianobuso.it, peraltro totalmente autoreferenziale, e afferma da anni di avere scoperto una tecnica di scrittura criptata, invisibile e/o mimetizzata, all'interno di una quantità di dipinti delle epoche e degli stili più disparati. Afferma Buso nello stesso comunicato: 


Leonardo firmò la Gioconda nascondendo nel ritratto più enigmatico della storia l'iniziale del suo nome nonché la data di composizione del dipinto, il 1501, e addirittura l'intera scritta 'Gioconda'. Ma non fu il solo. Lo stesso usavano fare in quel secolo Giorgione e Raffaello. E quasi duecento anni prima anche Giotto riempiva i suoi affreschi di scritte celate, iniziali, cifre. Il segreto? Una tecnica di scrittura nascosta nata come sorta di incancellabile autentica delle opere e tramandata di bottega in bottega, forse come protezione dai falsi, per oltre 700 anni, tanto che la conoscevano e la praticavano persino Klimt e Picasso.

Il Polittico Baroncelli in S. Croce a Firenze
Veramente le contraffazioni, artistiche e non, come oggi le concepiamo sono fenomeno relativamente recente. Come abbiano fatto poi i pittori a trasmettersi questo segreto senza che per 700 anni nessun non addetto ai lavori ne sia mai venuto a conoscenza prima di lui e tranne lui, Buso non lo spiega. Ma sorvoliamo su questo particolare. Buso non è nuovo ad annunci che riguardano uno degli affreschi più controversi della storia della pittura. Già nel 2008-9, sempre in Esaù respinto da Isacco, riteneva di scorgere “in basso al centro, dove il lenzuolo rosso che avvolge le gambe di Gesù si raggruma sotto il sedere, un volto, una faccia che spunta dalle pieghe; il volto ha lo sguardo serio, è schiacciato dal corpo di Gesù e pare voler uscire dalle pieghe che lo imprigionano, allusione forse questa al male che viene imprigionato e schiacciato dalla forza del bene! Personalmente penso sia proprio questo il messaggio esoterico che Giotto ha voluto tramandarci.” Buso scambiò allora Isacco per Gesù, ma anche questi sono evidentemente dettagli secondari. Però ammettiamolo: per scorgere il volto di cui parla Buso nell’affresco in questione, ci vuole veramente parecchia fantasia.
Stimmate di S. Francesco
Parigi, Louvre

Nel giugno 2011, un flash ANSA così diceva: "Non l'autentico sudario del Cristo e nemmeno l'opera di Leonardo, come qualcuno ha azzardato. Celata nel volto di Gesù morto, nella Sacra Sindone, ci sarebbe addirittura la firma di Giotto. Con tanto di data, 1315, perfettamente in linea con le analisi al carbonio 14 fatte negli anni Ottanta. A sostenerlo è uno studioso veneto, Luciano Buso". 
Su questa pagina del sito dell'Unione Cristiani Cattolici Razionali è riportata un'ampia sintesi delle confutazioni, più o meno sarcastiche, di questa teoria, e in più si ribadisce che Buso "ci aveva provato qualche tempo fa anche con la “Gioconda” di Leonardo Da Vinci, sostenendo di aver trovato negli occhi della donna numeri e lettere, legati alla tradizione ebraico-cabalistica, quella cristiana e quella dei templari, quella magica e quella naturalistica (cfr. Italiamagazine 3/2/11), ricevendo ovviamente risposte ironiche dai grandi esperti dell’arte e di Leonardo."

Il 10 novembre 2018, alla Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli ad Assisi, Buso ha tenuto il convegno dal titolo "Giotto si rivela", durante il quale ha rivelato - appunto - il risultato dei suoi studi, eseguiti su foto ad alta risoluzione (!!!) dell'affresco. Copio dal suo sito. 


“Quanto ora emerso nell’affresco di Assisi – sostiene Buso – fa risultare inesatta l’attribuzione sinora suggerita al Maestro di Isacco perché svilisce l’opera del grande Giotto, padre assoluto della pittura moderna. Essa ci ha rivelato anche i suoi contenuti segreti e sottolineato la straordinaria qualità, la complessità dell’impianto e le sue meravigliose cromie. Fu quindi certamente Giotto di Bondone a firmare l’affresco nel 1315 e lo fece celando ovunque le sue firme ‘Giottvs B’, ‘Giottvs IV aprilis 1315’ e ‘GB’. Una di esse pare essere la firma ufficiale in quanto apposta a forma di semi lunetta in basso al centro, appena sopra la grande decorazione floreale, firma oggi sgranata e in parte consunta ma ancora leggibile. Oltre le molteplici firme segrete sono emerse le date ‘1315’ e ’15’ le quali stabiliscono in modo sicuro la corretta datazione dell’opera che non fu dipinta nel 1291-1295, ma quasi venticinque anni dopo.


Il Polittico di Bologna

L'affresco poi risulterebbe brulicare di figure aliene che nessuno, in oltre 700 anni, aveva notato. Così la nota ANSA: 


Quanto a queste altre figure ritrovate, scrive Buso, "alcune rappresentano volti demoniaci con addirittura il corno, altre paiono rappresentare un re e una regina dell'epoca".

Ma non solo. Perché tra le tante figure "aliene", sostiene Buso, c'è un volto che sembra proprio essere un autoritratto di Giotto. "Si trova in alto a sinistra, proprio sopra la tenda con la fascia azzurra", dice, vicino alla grande data '15'. "Il volto reca a cappello la data e questo mi ha indotto a pensare che esso rappresenti qualcuno di importante, ritenuto dall'artista trecentesco degno di attenzione". Quel volto, sottolinea, sembra riportare "una certa somiglianza" con un ritratto di Giotto eseguito nel XVI secolo.

Un volto, dunque, criptato (a che scopo?), che dev'essere l'autoritratto perché somiglia a un ritratto di Giotto eseguito duecento anni dopo la sua morte. Sarà. Ma andiamo avanti.
Di Giotto abbiamo tre opere firmate: le Stigmate di San Francesco, firmato OPUS JOCTI FLORENTINI, il Polittico Baroncelli, firmato OPUS MAGISTRI JOCTI) e il Polittico di Bologna firmato OP[US] MAGISTRI IOCTI D[E] FLOR[ENTI]A. Nessuno dei tre è firmato Giottvs, tanto meno Giottvs B (Bondone?).

La Croce dipinta in Santa Maria Novella a Firenze

Quanto alla datazione al 1315 (lo stesso anno in cui Giotto avrebbe fatto pure la Sindone), si aggiudica la palma dell'impossibilità assoluta, dato che sconquasserebbe tutte le conoscenze storiche e documentali dell'intera vicenda non solo relativa alla Basilica Superiore di Assisi, ma in un certo senso all'intera storia dell'arte. Nel 1315 la Cappella degli Scrovegni era già stata ultimata da tempo, la Madonna di Ognissanti lasciava senza fiato chiunque entrasse nella Chiesa omonima a Firenze e, grazie a Giotto, la pittura era stata mutata dal greco al latino, per usare le parole di Cennino Cennini. Di questa mutazione, Isacco respinge Esaù fu il capostipite.
Luciano Bellosi, nel 2007, citò una fonte scoperta di recente, un trattatello del 1310, scritto dai frati francescani conventuali, in cui si dichiarava che la Basilica di Assisi era stata fatta affrescare da Papa Niccolò IV, il quale regnò dal 1288 al 1292. Scrive Bellosi: 

Giotto dovette incominciare a lavorare ad Assisi intorno al 1290. Le arti della decorazione della Basilica superiore dovute a lui e alla sua bottega si distinguono nettamente da quelle precedenti non solo per caratteristiche personali, ma perché rappresentano un ordine di idee completamente nuovo. Le prime figurazioni eseguite dal grande pittore fiorentino sono le due Storie di Isacco (Isacco che benedice Giacobbe e Isacco che respinge Esaù) dove la casa del patriarca è un vano architettonico dalle articolazioni sottili, ma robuste e razionali, che creano uno spazio chiaramente delimitato e ricco di punti di riferimento per visualizzare ciò che sta davanti e ciò che sta dietro. 

La Madonnina di Borgo San Lorenzo
Non è vero infine che, come afferma Buso, "l’attribuzione dell’affresco è stata elusa per lungo tempo a causa delle incertezze accademiche, oggi superate con l’avvento della nuova scienza, del nuovo metodo d’indagine, dei nuovi studi." Al contrario, l'attribuzione dell'affresco è stata un vero terreno di battaglia tra storici dell'arte, che si sono combattuti a lungo anche aspramente. Si erano fatti i nomi, oltre che del Maestro d'Isacco inventato ad hoc, del romano Pietro Cavallini, di Gaddo Gaddi, di Arnolfo di Cambio, e naturalmente di un giovane ma prorompente Giotto. Oggi si assegna quasi unanimemente a quest'ultimo, senza bisogno di incursioni criptico esoteriche. In particolare dopo il restauro della Madonnina di Borgo San Lorenzo (1985 circa), le cui affinità con l'affresco di Assisi sono risultate sbalorditive. Scrive Angelo Tartuferi (2007):

L'identificazione del cosiddetto Maestro di Isacco con Giotto appare pressoché certa alla luce della sorprendente affinità che lega queste pitture murali alle opere su tavola che la critica riconosce come i più antichi esemplari autografi del maestro fiorentino a noi pervenuti: il frammento di una grande Maestà conservato nella pieve di Borgo San Lorenzo, nel cuore del Mugello, luogo d'origine della famiglia di Giotto, e la grande Croce dipinta della basilica di Santa Maria Novella a Firenze. 








sabato 8 dicembre 2018

Giuliano Vangi e il Papa



Mi giunge notizia della mostra che si inaugurerà al Palazzo dei Vicari di Scarperia (FI) sabato 15 dicembre 2018 alle 15.30. Si intitola: Bergoglio. 80 anni in 40 tavole. Papa Francesco nei disegni di Giuliano Vangi per il volume: Francesco. Il Papa Americano. UTET Grandi Opere – FMR’.
Troverete su questo articolo tutti i particolari.
Giuliano Vangi, diciamolo subito, è il più grande scultore vivente. Nato a Barberino di Mugello nel 1931, può vantare un museo a lui personalmente dedicato in Giappone, a Mishima. A questo link troverete una sua biografia. Ne riporto un estratto:

Fa parte dell'Accademia del Disegno di Firenze, dell'Accademia di San Luca e dell'Accademia dei Virtuosi al Pantheon di Roma. Ha esposto in molte sedi prestigiose in Italia e all'estero, tra cui ricordiamo la prima importante esposizione Italiana a Palazzo Strozzi nel 1967. Negli anni successivi si susseguono numerose mostre in Europa a Monaco, Vienna, Stoccarda, Asburgo, Francoforte, Londra. Nel 1981 inaugura la sua prima personale a New York presso la Sindin Gallery, e nel 1988 invece porta le sue opere in Oriente per la prima mostra a Tokyo presso la Gallery Universe. In Italia sono state allestite sue personali a Milano, Firenze, Bologna, Parma, Trieste, Grosseto, Roma, Carrara, Lucca, Ancona, Bergamo, Brescia.

L'interno del Museo di Mishima dedicato a Vangi
Il 13 febbraio 2011, a Vicchio, fu consegnato a Giuliano Vangi il Premio Giotto e l'Angelico. Fu una cerimonia cui partecipò, si può dire, l'intero Mugello artistico. Scrissi allora sul Galletto: "Le qualità umane oltre che artistiche di Vangi (...) hanno trovato puntuale conferma quando l’artista ha preso la parola [durante la cerimonia di consegna nella Pieve di Vicchio] e, sinceramente commosso, ha ringraziato il Mugello per questo premio che costituisce uno dei più bei riconoscimenti da lui ottenuti lungo una carriera lunga ormai sessant’anni, proprio perché proveniente dalla sua terra d’origine. Ha parlato poi di quello che continua a ritenere un mestiere (molto tra virgolette), ché richiede anche energia fisica data la quantità di lavoro manuale necessaria, ma che non ha mai smesso di amare e di praticare con passione, e senza mai scendere a compromessi. Terminata la cerimonia, ci si è spostati al Circolo Il Paese, dove si è tenuto lo squisito pranzo in onore di questo artista che, pur vivendo da tempo altrove, non ha perso del tutto il suo accento toscano; che non ha nulla, ma proprio nulla del divo; e che si è concesso volentieri alle domande di Fabrizio Borghini (Toscana TV), di Paola Leoni (Tele Iride), e del sottoscritto."
Ebbi davvero la fortuna di intervistare Giuliano Vangi. Il Maestro era molto rilassato e felice, al termine del pranzo in suo onore. Pubblicata anch'essa sul Galletto, l'intervista mi pare ancora perfettamente attuale e, in attesa di poter ammirare le 40 tavole su Papa Francesco, ve la ripropongo. Eccola di seguito.

Uomo nel canneto, Forte Belvedere 1995
- Maestro Vangi, nel 1989 fu allestita una sua mostra di disegni presso il rinnovato Museo Beato Angelico di Vicchio. Come si sente oggi, rispetto ad allora?
- A marzo faccio ottant’anni, e dovrei sentirmi più saggio e maturo. Dovrei. Però ho molta energia anche fisica, molta volontà, lavoro sempre 8-10 ore al giorno e faccio lavori molto grandi, come una scultura per la Corea, lunga 8 metri alta 3.60 e larga 4, in pietra. Ho molto entusiasmo, come quando avevo vent’anni, forse di più. A una certa età si cerca di non perdere un minuto, ciò a cui magari da giovani non si pensa. 
- In generale le piace di più scolpire o fondere?
- Tutt’e due. Non ho una materia preferita. Ogni soggetto porta la materia con sé, certe sculture si adattano alla pietra, altre al metallo, e a me piacciono tutte perché mi aiutano a rappresentare certe idee che ho. Una scultura in metallo, molto aperta, non potrei realizzarla in pietra, una scultura tutta bloccata in pietra non s’adatta al metallo.

Vangi intervistato dalla compianta Paola Leoni

- Nelle sue opere quanto c’è di passione e quanto di abilità e preparazione tecnica? 
- L’abilità è sicuramente necessaria, come per un musicista, che so, un violinista, che deve avere una grande bravura nel suonare e poi una grande sensibilità per trasmettere la musica che produce. Per realizzare le proprie idee ci vuole una certa bravura, altrimenti uno pensa, pensa e non sa concretizzare. Le due cose devono essere combinate insieme. 
- Come si pone nei confronti di un’opera di arte sacra? 
- Le opere di arte sacra mi vengono solitamente commissionate, ad esempio da architetti che progettano edifici religiosi. Quando le lavoro mi pongo in effetti in un modo diverso, nel senso che comincio a vedere la chiesa, leggo testi sacri, in modo da entrare in questo tema così grande e importante, anche se io non sono un grande frequentatore di chiese. Poi però uno si immedesima e cerca di capire più possibile, di portarsi al di fuori delle cose terrene.

Forte Belvedere 1995
- Le ultime opere d’arte che hanno fatto, diciamo così, notizia sono state ad esempio happening come la fontana di Trevi colorata di rosso. Secondo lei esiste oggi un margine perché un’opera d’arte ‘faccia notizia’ perché è bella e non perché fa scandalo? 
- Oggi si corre talmente, si va così di furia, che tutti hanno bisogno di farsi pubblicità, di uscir fuori immediatamente, e non solo nell’arte: magari una donna va a fare la velina per entrare in Parlamento! Non c’è più la pazienza dello studio, si fa tutto con facilità e, non avendo dietro molti studi, qualità, preparazione, è più semplice imbrattare una scultura antica o rotolare le palline colorate giù per la scalinata di Trinità dei Monti, non c’è bisogno di grandi sacrifici, è una strada breve e veloce. 
- Ci sono in arrivo giovani artisti validi? 
- Ce ne saranno, ma non ne conosco molti. È un po’ sparito il mestiere, l’arte di saper lavorare certe materie. L’artigianato dell’arte si può dire che non si insegna quasi più. 
- E infatti, immagino un bambino che le chiede: Maestro Vangi, io da grande voglio fare lo scultore. Da dove comincio? 

- Ci vuole un sacco di pazienza e sacrifici. Se uno pensa di diventare subito famoso e fare soldi parte col piede sbagliato e non arriverà lontano. Deve lasciar perdere denaro e arrivismo, mettersi con molta umiltà a imparare, a studiare la natura, a cercare di capire cosa ha davanti, cosa vuole dire, perché lo vuole fare.
- Oltre all’opera per la Corea ha altri progetti cui sta lavorando?
- Sto facendo sculture anche per me. Lavoro dei graniti, e poi una scultura in bronzo lunga 12 metri. Non penso: questa scultura non la venderò mai perché è grande o perché è pesante o non piacerà. Ho sempre fatto ciò che mi piace fare. 
- Ultima domanda, Maestro: cos’è il Mugello per Giuliano Vangi? 
- Beh, intanto ci sono nato e qui ho ancora dei cugini. È una terra talmente bella, eccezionale, ove, come si sa, sono nati Giotto, l’Angelico, Andrea del Castagno, la mamma di Masaccio. È una terra fertile, colline bellissime, popolata da gente in gamba, gente semplice ma quadrata e sincera. Ho una vera mania per il Mugello e posso confermarle, come le avevo accennato, che, anche grazie alla nascita dell’Associazione Culturale Amici di Vangi, ho intenzione di tornarci molto più spesso di quanto non abbia potuto fare finora.

Penso che questa sia l'occasione per il ricordo commosso di una amica carissima: un'amica mia, del mondo culturale non solo mugellano, e di tutte le persone di buona volontà: Paola Leoni, scomparsa il 24 ottobre 2018 al termine di una lunga guerra contro un cancro implacabile. Come in mille altri eventi, anche in quel giorno di febbraio 2011 non fece mancare la sua professionalità di giornalista, la sua bravura, la sua gentilezza, la sua straordinaria umanità, che per me costituiranno sempre una delle più importanti lezioni di vita.