giovedì 30 agosto 2018

L'altro Campana


La mia amica Mitì Vigliero, nel suo Stupidario della maturità (Rizzoli 1991), scrive che, secondo un anonimo maturando, Dino Campana "era molto malato di nervi, diciamo pure che era completamente matto e per questo amava moltissimo Genova." Mitì chiosa: "Frase questa da inviare alla Agenzia di Soggiorno locale come slogan". 

Mettiamo da parte il capoluogo ligure che, mentre scrivo, sta pure vivendo un momento particolarmente difficile. La prodezza del candidato è comunque significativa: ecco in che considerazione è tenuto il poeta marradese, da parte non solo degli studenti, ma anche, diciamo così, del grande pubblico. La sua malattia mentale è vista come inscindibile dalla sua produzione letteraria, il che può anche in parte essere vero. Solo che si tende a scivolare inevitabilmente nei cliché: del poeta maledetto, della sua scrittura per la quale l'aggettivo visionaria pare quasi imposto per legge; dell'artista emarginato, dell'artista incompreso, e via elencando. A parte i luoghi comuni, il rischio continua ad essere quello di liquidarne così la figura. Era pazzo, sicché scriveva delirando, ed ecco perché tante sue liriche, prose o poesie che fossero, ci risultano così difficili da interpretare. Ottima scusante per farne a meno, e sia detto non solo riferito ai maturandi.

Esiste invece su Dino Campana una testimonianza illuminante. Anche se non si può definire esattamente inedita. Si tratta dei Ricordi di vita artistica e letteraria di Ardengo Soffici, la cui prima edizione si deve a Vallecchi e risale al 1931, quando Campana era ancora vivo, anche se ormai da anni vegetava nel manicomio di Castel Pulci. Vi è un lungo capitolo intitolato Dino Campana a Firenze, in cui Soffici racconta il primo incontro con il poeta, chiarisce in parte alcuni aspetti della vicenda relativa allo smarrimento del primo manoscritto dei Canti Orfici, e soprattutto - direi - getta su Campana una luce a ripensarci del tutto comprensibile, eppure che suona come inattesa.

Campana nel 1930
Per quanto riguarda i Canti, i fatti sarebbero noti (poi capirete perché uso il condizionale) e si possono così riassumere: Campana, nel 1913, consegna a Soffici e Papini, nella redazione di Lacerba, il manoscritto in copia unica allora intitolato Il più lungo giorno, che poi andrà smarrito. L'autore lo riscriverà a memoria e l'anno seguente lo pubblicherà a sue spese, e se ne andrà in giro a venderlo di persona.
Soffici, tuttavia, spiega che, dopo consegnato l'originale, Campana si era reso irreperibile. Alla fine del 1913 lo rividero alla mostra futurista di via Cavour. Campana fece amicizia con tutto il gruppo futurista, e anche con "tutti i componenti di quel gruppo che allora frequentava le Giubbe rosse e il Paszkowski, caffè ch'egli pure cominciò a frequentare e che anzi divennero il principale teatro delle sue gesta fiorentine, poi diventate famose". Sennonché d'improvviso sparì di nuovo, e senza che nel frattempo avesse mai fatto cenno al suo manoscritto. Solo l'anno seguente scrisse a Soffici per riaverlo, ma quest'ultimo non riuscì a trovarlo e, alcuni mesi dopo, vedrà nella vetrina di un libraio di via de' Martelli la prima edizione a stampa dei Canti Orfici.
Almeno questo è ciò che narra Soffici. Primo Conti, nelle sue memorie, riporta il frammento di una lettera di Campana in cui è scritto, riferito alla celebre Serata futurista tenutasi al Teatro Verdi il 12 dicembre 1913, "...ed era il giorno che [i futuristi] facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire...". Commenta Conti: "Lui aveva le sue sacrosante ragioni per dire così, perché forse in quei giorni gli era nato il sospetto che uno dei protagonisti della Serata, Ardengo Soffici, avesse smarrito il manoscritto dei suoi Canti Orfici"
Secondo la ricostruzione di Gabriel Cacho Millet (1939-2016), forse il maggior studioso di Campana, questi affidò il manoscritto, con altri quaderni, a Papini appena giunto a Firenze nel 1913. Lo riebbe quasi subito indietro, ma glielo consegnò di nuovo proprio il giorno della Serata. Nel febbraio seguente Papini restituì a Campana i quaderni, ma non Il più lungo giorno, che in seguito Soffici smarrì. Sempre Cacho Millet demolisce un mito, affermando che in realtà Campana non riscrisse i Canti a memoria, ma doveva avere copie del manoscritto o per lo meno appunti su cui basarsi. Ulteriori particolari di questa vicenda piuttosto intricata li potete leggere qui.
Il manoscritto originale fu rinvenuto solo nel 1971 tra le carte di un Soffici ormai mancato da tempo. Oggi è visibile on line qui. Mario Luzi, in questo articolo, sottolineò - se ce ne fosse stato bisogno - l'importanza del ritrovamento, oltre al fatto che in realtà le differenze con l'edizione a stampa erano piuttosto numerose, laddove Soffici aveva scritto che questa "era la stessa di quella dello scartafaccio smarrito, appena ritoccata qua e là, e con soltanto un paio di componimenti aggiunti, fra cui i versi dedicati al mio quadro futurista dell'inverno passato".
Il quadro in questione, in un'epoca in cui il politically correct non esisteva, aveva avuto vari titoli: Compenetrazione di piani plastici, Dinamismo plasticoBallo dei pederasti, Tarantella dei pederasti. Fu distrutto dall'autore ma, nel 2007, dopo il ritrovamento della cornice originale, ne fu esposta la ricostruzione fotografica in grandezza naturale (2 x 2 m) in una mostra a Poggio a Caiano. Riporto, dal sito www.campanadino.it, l'immagine del dipinto (sotto), e i versi di Campana.


FANTASIA SU UN QUADRO DI ARDENGO SOFFICI


Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D'America: la rossa velocità
Di luci funambola che tanga
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfà:
Che guarda nel café chantant
D'America: 
Sul piano martellato tre 
Fiammelle rosse si sono accese da sé.


Ma la parte a mio parere più importante del racconto di Soffici è quella che riguarda Campana quando non era colto dalle sue crisi. Narra Soffici che, nel periodo della mostra futurista, lui e gli amici ebbero modo di conoscerlo meglio, e che

dalla sua conversazione trapelavano ogni momento conoscenze di paesi, di linguaggi, di usi e costumi alieni e remoti che nessuno di noi sapeva spiegarsi e che ci disorientavano. Si parlava di letteratura? e Campana citava nomi di poeti tedeschi, francesi, inglesi, spagnoli e brani delle loro opere nella lingua originale. Si trattava di nazioni e di popoli? e Campana mescolava al suo discorso frasi rivelatrici intorno all'Olanda, alla Francia, ai porti d'Inghilterra, alle pampe americane, come uno che avesse tali siti familiari. Di viaggi lontani e di avventure? ed egli faceva continue allusioni a pellegrinaggi qua e là per l'Europa, a navigazioni oceaniche, a casi allegri o tremendi occorsigli nel nord o nel sud del nuovo mondo. Riuscimmo piano piano a sapere che, cacciato dall'università per ribelle, e inviso alla polizia, il nostro poeta s'era dato sul fior degli anni all'ulissismo, e, lasciata, senza un soldo in tasca, la solatia Romagna e l'Italia, aveva errato un po' dappertutto, facendo l'operaio a Marsiglia, il rivoluzionario in via Mouffetard - che è come la suburra di Parigi - il servitore di stiva da Amburgo a Dover, da Liverpool a Montevideo, e il garzone e lo stalliere in più di una fazenda argentina.
Quanto al suo istituto mentale, esso si delineava pure via via ai nostri occhi; né era meno sorprendente. Le idee dei massimi pensatori antichi e moderni erano familiari a Campana, così i fatti delle storie dei vari popoli, i capolavori letterari del passato, mentre neanche le produzioni della modernità più moderna avevan segreti per lui. Tra una libazione e l'altra (era un bevitore validissimo) parlava di Nietzsche, citandone a memoria sentenze ed aforismi, approfondiva paradossi di Wilde e acutezze di Laforgue, tempestava o s'inteneriva (poiché c'era in lui dell'energumeno a un tempo e del bambino) intorno alle cupezze di Baudelaire o alle illuminazioni e alle vicende umane di Rimbaud, del quale poteva dirsi un fratello di vita e di spirito.

Da questa splendida prosa emergono anzitutto una ammirazione sincera e attonita da parte di Ardengo Soffici nei confronti del poeta, ammirazione che al primo incontro Campana non era riuscito, per certi versi non aveva voluto riscuotere; in secondo luogo la sua cultura. Cultura autodidatta (si era iscritto per errore a chimica e poi a chimica farmaceutica), cultura omnicomprensiva, senza dubbio disordinata, ma che si comprende vastissima e acquisita con una bramosia quasi paranoica di sapere, di apprendere, di conoscere, e ben si accorda con l'immagine più volte riportata da testimonianze dirette, di lui che camminava sempre con un libro o due sotto braccio. La sua opera, scrisse Mario Luzi nel 1980, "brucia allo stesso fuoco l'esperienza e la sua trasformazione e cioè i dati della sua storia e i simboli in cui sembra trasfigurarsi". Si può comprendere a questo punto come essa non fosse solo frutto della sua fantasia creativa, la stessa che poi avrebbe forse contribuito a quella pazzia di cui comunque già dai primi incontri Soffici e gli amici futuristi avevano avuto indizi inquietanti. Dietro, in realtà, c'era molto altro.

La V Ginnasio del liceo Torricelli, a.s. 1900-1901.
Il sedicente Campana è seduto, secondo da destra.
Nel documentarmi per scrivere questo post, ho scoperto che neanche l'immagine di Dino Campana ha avuto, per così dire, una vita tranquilla. Il volto del poeta è quello della foto d'apertura (1912) ma, a illustrare articoli su di lui (o trasmissioni: anche questa della Rai!),  compare molto più spesso la foto di un individuo che magari gli somigliava, ma si è rivelato essere certo Filippo Tramonti. Il quale con Campana ebbe in comune solo l'aver frequentato il medesimo liceo. Tutto ciò nasce non da una millanteria, ma da un equivoco quando nel 1957 fu ritrovata una foto di classe della V ginnasio del liceo faentino Torricelli, e si credette di riconoscere il poeta in uno degli studenti.

Filippo Tramonti
Il professor Stefano Drei, che insegnava nell'Istituto, partì dalla constatazione che nell'anno scolastico 1900-1901, a cui risale la foto, Campana frequentava la I liceo e non la V ginnasio, e volle avviare indagini minuziose. Ricostruì alla fine la vera identità del presunto Campana: si  chiamava appunto Filippo Tramonti, in seguito svolse l'attività di cancelliere, e Drei ne rinvenne la tomba al cimitero di Bologna. Sul sito del liceo Torricelli, in particolare su questa pagina troverete i dettagli dell'immagine, mentre, su questa pagina del sito dedicato a Dino Campana è una intervista a Drei, intervista che tra l'altro si conclude con questa affermazione:

Dopo la scoperta (chiamiamola così), mi ha telefonato Gabriel Cacho Millet. Si è congratulato, ma sembrava anche un po’ dispiaciuto: ora c’è un vuoto nella parete del suo studio, gli è toccato di staccare una foto che aveva avuto il valore di un’icona, di un’immagine mitica: «come il ritratto di Che Guevara per un giovane degli anni ’60». Aveva sperato fino all’ultimo che io avessi torto. Lo capisco. Delle poche foto conosciute di Campana era quella la più bella: nitidissima, in posa, a figura intera, fatta da un professionista. Aveva solo un difetto: non era lui.

Salvo errore, a parte quella citata e quella scattatagli nel 1930, l'unica altra fotografia esistente di Dino Campana è quella (sotto) che riprendo ancora dal sito del liceo Torricelli. Fu scattata nel gennaio 1912 (due anni dopo il pellegrinaggio in solitaria a La Verna che generò il prodigioso diario facente parte dei Canti), probabilmente sul Falterona. Il poeta è il secondo da sinistra.


Gabriel Cacho Millet, nel 2011, con la pubblicazione per Polistampa di Lettere di un povero diavolo, concluse e coronò il suo lunghissimo e meticoloso lavoro di raccolta e di riordino di tutto il carteggio epistolare di Dino Campana, e aggiunse:

Il poeta di Marradi, autore di un piccolo libro infinito, vi darà ancora molto filo da torcere. Non ho dubbi.






2 commenti:

  1. Il più lungo giorno non fu ritrovato nel 1971 ma come ha ben testimoniato Luigi Cavallo fin dal 1965 nota tra le carte di Soffici a Poggio a Caiano il manoscritto smarrito conservato in posizione privilegiata insieme alle lettere di Mussolini. Non un ritrovamento , quindi, quello del 1971 ma una scelta di opportunità e in questa operazione di restituzione ritardata del manoscritto fu coinvolto Mario Luzi...(Per un approfondimento completo leggere "Per l'amor dei poeti o principessa dei sogni segreti, Rodolfo Ridolfi Edizioni Centro Studi Campaniani Enrico Consolini 2005 pag 65-68)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Ridolfi, la ringrazio per la precisazione. Ho letto con grande interesse il suo scritto sul Galletto, che ha arricchito la mia forse frammentaria conoscenza sul poeta di Marradi, e mi riservo di cercare il suo libro (ho visto che è disponibile su Maremagnum).
      Con miei più cordiali saluti
      Paolo Marini

      Elimina

I commenti sono liberi a tutti & benvenuti, Sono apprezzate precisazioni, segnalazioni di refusi, integrazioni. Ma sempre - e purtroppo non si può più dare per scontato - all'insegna della buona educazione.