mercoledì 17 aprile 2019

Due chiese, due epoche


La chiesa di S. Ilario a Colombaia è documentata dal 1072, quella di S. Leone Magno fu costruita nel 1972. Una distanza di novecento anni nel tempo e di neanche un chilometro nello spazio, per due chiese situate sulla destra di Via Senese, dalle due parti dello scollinamento.

Raggiungere in bicicletta S. Ilario sarà pure impegnativo - ma non più di tanto -, però mi consente di transitare per la via omonima: una di quelle numerose, sconosciute viuzze che contribuiscono in modo determinante a dare a Firenze la patente di città unica al mondo.Il lungo muretto a secco da cui si affacciano rampicanti e chiome di alberi dalle foglie festosamente primaverili, è punteggiato anche dai sette tabernacoli che vi furono collocati nel 1934, e che contraddistinguono la via matris, ovvero i sette dolori della Beata Vergine, com'è annunciato dalla lapide posta all'inizio della via. L'ultimo è sotto il portico della chiesa.
Ma la chiesa è irrimediabilmente chiusa, e ci si rimane davvero male dopo la salita. Al numero della parrocchia che mi ero annotato risponde una segreteria telefonica. Un peccato, perché speravo di vedere e fotografare l'affresco sulla parete di sinistra e il crocifisso ligneo nell'oratorio. Il primo, leggo sulla guida al quartiere n. 3 compilata nel 2005 da Bettino Gerini, è attribuito ad Ambrogio di Baldese (1342-1429). Di questo artista mi ricordavo perché nel 1417 fu incaricato di affrescare la cappella Gherardini (oggi perduta) nella chiesa di S. Stefano al Ponte. Avrebbe dovuto dipingere anche la tavola centrale, ma poi, e non se ne sa il motivo preciso, si preferì ingaggiare un giovane artista: un Guido di Piero non ancora divenuto frate domenicano. Il futuro Fra Giovanni Angelico.
Quanto al Crocifisso, Gerini nel citarlo scrive uno svarione: "un Crocifisso ligneo cinquecentesco, detto dei Bianchi, lasciato nel 1400 [!] a Firenze da alcuni pellegrini, colpiti dalla peste". Da altre fonti ricostruisco che si tratta di tedeschi di una Compagnia dei Bianchi i quali, giunti in città nel 1399 in occasione del giubileo, furono sorpresi e massacrati dalla peste, sicché il Crocifisso rimase nella chiesa. Questa storia non mi suonava punto nuova, e la rilettura del saggio di Marco Pinelli L'Oratorio del SS. Crocifiso dei Miracoli (2000) mi ha confermato che non mi sbagliavo: non solo si ripete quasi parola per parola riguardo al SS. Crocifisso di Borgo San Lorenzo, ma sembra essersi ripetuta più volte e in più luoghi a Firenze. Scrive Pinelli:

È il caso della Compagnia di Sant'Agostino, detta del Crocifisso dei Bianchi, fondata proprio nel 1399, e con sede nei pressi della chiesa di S. Spirito, di quella del crocifisso dei Bianchi, che si riuniva nella chiesa di S. Pietro del Murrone in via S. Gallo e soprattutto quella del SS. Sacramento di S. Lucia sul Prato, le  cui vicende  appaiono in tutto simili a quelle della Compagnia del Corpus Domini.

E non cita S. Ilario. Ad andare su Google si scopre che ce n'è ancora altri, e non solo a Firenze. Insomma, un crocifisso ligneo, lasciato da dei tedeschi della compagnia dei Bianchi morti di peste nel 1399, non si nega a nessuno. Bene. Chissà se sarò in grado di scrivere un post in merito.

Tornando alla nostra chiesa chiusa, si chiamava anche S. Ilario alla Fonte, perché vicina a una fontana pubblica sulla strada regia, ovvero sull'odierna via Senese. Documentata, abbiamo detto, fin dal 1072, aveva nel suo ampio circuito parrocchiale ben cinque conventi. Di due non resta traccia, dopo la loro distruzione avvenuta nel 1529 per far terra bruciata alle truppe che assediavano Firenze. Uno era quello di S. Maria a Monticelli, e ne ho accennato anche in questo post. L'altro era S. Donato a Scopeto, che per la verità una traccia l'ha lasciata. Furono i suoi frati a commissionare a Leonardo da Vinci una pala, quell'Adorazione dei Magi che l'inaffidabile genio lasciò incompiuta per partirsene alla volta di Milano nel 1482. 
Anche S. Caterina al Monte non c'è più. S. Girolamo delle Campora c'è, ma oggi è una villa, e non si può visitare. L'avevo letto, ma voglio ugualmente arrivarci, per il gusto di pedalare su un'altra delle strad(in)e più belle di Firenze: via delle Campora, entro cui via S. Ilario sbocca. Pazienza per la salita. È una fatica ripagata dallo splendore silenzioso della primavera che sembra sporgersi dai muretti a secco come dagli slarghi che annunciano cancelli verso ville facoltose.


Racconta Emanuele Repetti che a questo monastero Giovanni Boccaccio, nel testamento, fece dono di tutte le reliquie sacre che 'in tanto tempo e con gran lavoro procurò di avere da diverse parti del mondo'. "Il qual documento" commenta Repetti "giova a provare la rettitudine de' principi religiosi di chi avvertiva i troppo facili credenti con la novella di Ra Cipolla."

San Gaggio

Constatata l'impossibilità di fare foto all'ex monastero o quel che ne resta, oltre un ingresso che ne protegge anche la visuale, torno indietro con la bicicletta a mano perché la strada è in gran parte a senso unico, e alla fine risbocco in via Senese. Altra erta, al culmine della quale si erge il quinto monastero del territorio: quello di San Gaggio, che dà il nome alla zona. E che non versa in condizioni eccellenti.


Ora, finalmente, la strada è tutta in discesa, fino alla traversa intitolata alla Beata Angela, che mi conduce all'ampio piazzale antistante la chiesa e il convento di San Leone Magno. Nulla da dire: siamo in un'altra epoca. Il fascino delle stradine tra muretti a secco lascia il posto a una sensazione di vastità, di spazio, di respiro. Evitiamo paragoni. È un altro tipo di bellezza. Nei confronti delle chiese moderne non si devono avere pregiudizi, né in un senso né nell'altro. Ci sono chiese antiche orrende, e chiese moderne bellissime. Questa mi piace, a parte il rosso mattone del marciapiede e della scalinata, troppo forte in confronto a quello della costruzione.


L'interno mi piace ancora di più. La sensazione è di entrare in un anfiteatro. Le panche accoglienti a frammenti di semicerchio sembrano avvolgere senza soffocare. La luce è soffusa, ma i colori delle vetrate distribuite lungo l'abside rendono l'atmosfera festosa, seppure devota. La conformazione a conchiglia dell'edificio si deve all'Ingegner Luigi Lucherini. 


La chiesa è stata costruita nel 1972 in posizione arretrata, scrive Gerini, rispetto a quella preesistente, nata come cappella nel 1880, poi ampliata, consacrata nel 1891 e divenuta parrocchia nel 1937. Ma nel 1964 gli smottamenti del terreno ne compromisero la stabilità e non si poté che demolirla. Ho cercato invano su internet delle fotografie del vecchio fabbricato. Possibile che non ve ne siano? Sì, possibile. Me lo conferma Romano, un signore dal sorriso sereno che mi accoglie calorosamente in sacrestia. Neanche lui è riuscito a trovarne. Però mi mostra due quadretti, e mi autorizza a fotografarli, che raffigurano l'esterno e l'interno della vecchia chiesa. L'autore è anonimo, ma le immagini, mi assicura, sono abbastanza precise. In effetti, su La chiesa fiorentina (1993) si legge: 

A tre navate, di stile romanico, corredata di un grazioso campanile dello stesso carattere, la chiesa fu progettata dall'arch. Salvatore Pirisini e dedicata a S. Leone Magno in omaggio al regnante Pontefice Leone XIII. La località scelta per la costruzione della chiesa, alla confluenza dei confini delle parrocchie di S. Ilario a Colombaia, S. Lucia al Galluzzo e S. Felice a Ema tutte assai distanti, si rivelò indovinata quando la popolazione della zona andò aumentando.




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