mercoledì 25 ottobre 2017

La triste storia di un gigante del Liberty


L'architetto Giovanni Michelazzi si tolse la vita nella notte tra il 21 e il 22 agosto 1920, davanti la Badia Fiesolana, perché, nella causa di separazione, la custodia dei figli era stata assegnata alla moglie. In seguito il destino, manovrato dall'imbecillità umana,  non sarà benevolo neanche con parecchie delle sue opere.
Michelazzi, che Giovanni Michelucci ricordò come «un gentiluomo con grandi baffi biondi: una persona che aveva viaggiato e letto molto», nasce a Roma nel 1879, ma si stabilisce ben presto a Firenze, in un'epoca in cui, sul piano architettonico, se "tutta l'Italia è troppo assorta nella contemplazione dei morti a danno dei vivi", nel capoluogo toscano la situazione è ancora più impaludata. Scrive nel 1899 il critico Alfredo Melani che "a Firenze è in uso un tipo d'architettura derivato dallo stile il cui rappresentante maggiore fu Filippo Brunesseschi; e la imitazione quasi pedantesca toglie ogni originalità alle costruzioni fiorentine. Ne fanno fede non solo i Villini ma le Palazzine della città (...): sovente graziose, costrutte in pietra serena azzurreggiante, sembrano uscite tutte da un medesimo stampo. E non par vero che gli architetti fiorentini non tentino qualcosa di nuovo, di inedito, di personale".

Una delle poche foto rimaste
del Villino Ventilari
Diplomatosi nel 1901, a soli 23 anni Giovanni ebbe il primo incarico: alcune aggiunte a un villino in viale del Poggio Imperiale. In pratica uno di quelli citati da Melani. Michelazzi fece un po' come Mozart che, nel film Amadeus (Milos Forman, 1984), appone un paio di aggiunte e modifiche alla sciatta marcetta di Salieri infondendole una vita completamente nuova e luminosa. Le aggiunte di Michelazzi - una veranda, una pensilina e un balcone, e un'esedra con fontana - già mostravano in nuce un artista non solo dal talento innato, ma che mostrava di avere già assorbito e aderito ad un incalzante movimento artistico. Un movimento, è vero, dalle tante sfaccettature e anche dai tanti nomi a seconda dei diversi paesi in cui si affermava: Art Nouveau, Jugendstil, Sezessionstil, Arte Jóven, e via elencando. In Italia si chiamò Arte floreale, o Liberty. Ciononostante, ebbe una sorta di unitarietà che ne fece il primo vero movimento artistico internazionale. Quanto più oggi - giustamente - viene studiato, celebrato, promosso, tanto più allora ebbe in Italia vita difficile - i motivi sono quelli sopra spiegati -, e giunse in forte ritardo rispetto agli altri Paesi. Michelazzi fu, diciamo così, in anticipo sul ritardo.

Le sue prime opere furono un villino in viale Michelangelo (1904), il villino Ventilari in viale Mazzini (1905-1906), e il villino Ravazzini in via Scipione Ammirato (1906-1907). Il secondo fu forse dei tre il più originale, con una svettante torre cilindrica d'angolo.

L'arabesco musicale, o piuttosto, il principio dell'ornamento è la base di tutte le forme dell'arte.

Questa frase scritta, strano a dirsi, da Claude Debussy nel 1901, è forse quella che riesce a sintetizzare nel più breve spazio il concetto di Art Nouveau. Michelazzi fece tesoro di questa, e di altre dichiarazioni di principio. Le linee curve e sinuose, i colpi di frusta, l'uso del ferro e del vetro, i riferimenti alla natura che amava - sculture, immagini, bassorilievi fitomorfi e zoomorfi -, interpolazioni ceramiche quasi sempre opera di Galileo Chini, davano alle sue architetture un movimento e un dinamismo nuovo, suggestivo e probabilmente insopportabile per molta intellighenzia fiorentina. 

Il villino di Adolfo Lampredi e,sulla destra, quello di Giulio Lampredi

Dopo il villino Del Beccaro, dirimpettaio al villino Ventilari, vennero i primi capolavori: i due villini per i fratelli Lampredi, in via Giano della Bella. Riferendosi in particolare a quello di Giulio Lampredi (foto d'apertura), Luca Quattrocchi, nella sua bella monografia Giovanni Michelazzi 1879-1920 (Franco Cosimo Panini 1993) scrive che "sembra una costruzione sottomarina appena emersa dall'acqua, ancora grondante, colante, cui aderiscono molluschi indefiniti e bestie nate da oscuri incroci subacquei". 
Michelazzi si superò in due opere che dovrebbero essere presenti in qualunque testo antologico che riguardi non solo il Liberty italiano, ma tutta l'Art Nouveau. Cosa che non sempre avviene. 


Nel 1910 realizzò la Casa galleria, o Casa emporio, in Borgognissanti, forse - sono sempre parole di Quattrocchi - "l'esempio italiano più puro di Art Nouveau di tipo belga. Che però Michelazzi seppe rendere inconfondibilmente personale". Questo stretto e slanciato edificio evidenzia anche - e questo è un parere personale - lo straordinario retroterra culturale di cui Michelazzi era in possesso, e che gli consentì di costruire nel centro storico fiorentino tra palazzi per lo più medievali un'opera che, per quanto senza precedenti nella concezione, si integra perfettamente con le costruzioni adiacenti senza il minimo stridore estetico.


Asimmetrico, onirico, visionario, il villino Broggi Caraceni sorprende e incanta ancora oggi. Probabilmente Michelazzi ebbe carta bianca sul progetto e, libero da vincoli, creò nel 1911 in via Scipione Ammirato, accanto al Ravazzini, un edificio - cito ancora Quattrocchi -

strutturato come un organismo cellulare, fortemente dipendente dall'azione del nucleo interno (la scala elicoidale), con gli angoli tagliati ed un'andatura planimetrica sghemba che ricalca, accettandolo quasi come un vincolo stimolante, il perimetro irregolare del lotto.

La terrazza d'angolo del villino Broggi Caraceni.
In alto, la firma dell'architetto.
Leggiamo nel Repertorio delle architetture civili, a cura di Claudio Paolini: 

Si noti inoltre, a sottolineare l'assenza di un qualsiasi compromesso con l'esperienza ottocentesca, come gli elementi più propriamente Art Nouveau non si propongano quali semplici decorazioni sovrapposte alla scatola architettonica (come invece appare nel vicino villino Ravazzini sempre opera di Michelazzi), ma vadano a incidere profondamente sulla struttura stessa dell'intero villino, fino a definire una forma di notevole dinamismo.

La palazzina di via Repetti. 
Dopo, purtroppo, inizierà per Michelazzi un inarrestabile declino, dovuto in parte certamente ai vincoli posti dalle committenze. Michelazzi non sembra trovarsi a suo agio nella costruzione di palazzine multifamiliari, come quella, desolantemente anonima, di via Repetti (1912-1913). Che è opera sua si è potuto appurare solo dai documenti d'archivio. Più personale il villino Galeotti-Fiori di via XX Settembre. Il progetto di una villa Michelazzi in via Gamberaia, presso viale Michelangelo, non vedrà la luce.

Il villino Galeotti-Fiori
Giovanni Michelazzi partecipò alla Grande Guerra come tenente del Genio Militare. Al ritorno, dalle scarne notizie che se ne hanno, non sarà più lui. Era sempre stato un lavoratore instancabile, con un carattere imprevedibile che, in ultimo, si accentuò. Anche da qui dovette scaturire la causa di separazione. Ad ogni modo, riprese a lavorare e il villino Baroncelli in via Dupré fu un improvviso colpo d'ala, nel quale sembrò di ritrovare il Michelazzi più creativo e innovatore. Anche qui la collaborazione con Galileo Chini fu fruttuosa. L'anno seguente, il tragico epilogo.

Durante il fascismo, la campagna Date Ferro Alla Patria portò alla rimozione e conseguente distruzione di molte inferriate, cancelli, ornamenti in ferro che per Michelazzi erano componente fondamentale delle sue creazioni. Il villino Broggi Caraceni e il villino Ventilari in particolare furono vandalizzati. E se oggi il primo è stato restituito al suo splendore originale, il Ventilari ha poi subito una completa ristrutturazione dei locali interni.
Negli anni 60, in pieno miracolo economico, quando la Prima Repubblica non sentiva neanche il bisogno di avere un Ministero della Cultura, non si ebbe problemi, per far posto a redditizie palazzine, a radere al suolo il villino di Viale Michelangelo, il villino Ventilari e il villino Del Beccaro. Di quest'ultimo esiste una sola fotografia, poche degli altri.

La torre del villino Baroncelli
Quanto ci è rimasto è tuttavia sufficiente a comprendere e a rendere giustizia a uno dei più grandi architetti del primo '900, ciò che ancora non è avvenuto. Salvo errori, l'unica monografia su di lui è quella citata di Luca Quattrocchi, ripeto molto bella ma irrintracciabile nelle biblioteche. Tocca alla nostra epoca, per lo meno in questo superiore ai due secoli che l'hanno preceduta, colmare una lacuna che non ci fa punto onore. 



4 commenti:

  1. Spiegazione esaustiva delle opere di un architetto dotatissimo e purtroppo dimenticato

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  2. Molto interessante e piacevole lettura. Il liberty a Firenze meriterebbe un'attenzione maggiore

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