mercoledì 16 gennaio 2019

Il poeta che non conosceva le virgole


Giovanni Bellini, nato nei pressi di Poggio a Caiano (FI), rimase ucciso da una granata il 7 luglio 1915, a Plava, durante la battaglia dell'Isonzo. Aveva venticinque anni.
Il suo amico Fernando Agnoletti raccolse con commossa e devota cura tutti i suoi scritti in un volume che fu pubblicato da Vallecchi nel 1921. Ristampato in anastatica nel 2003, il volume si intitola Arciviaggio e si compone di 143 pagine, compresi la nota introduttiva dello stesso Agnoletti e l'indice. Leggere questo libro fa rabbia.

Nato il 22 novembre 1889 nella frazione di Trefiano, Giovanni Bellini era figlio di un acetaio che lavorava in una bottega di Firenze, e di una trecciaia. In famiglia non si moriva di fame, ma i soldi per studiare non c'erano proprio. Giovanni continuò il mestiere del babbo e intanto imparò da solo a leggere e a scrivere. Movendosi tra campagna e città, iniziò a conoscere nonché a farsi conoscere nel mondo intellettuale fiorentino. Ardengo Soffici lo conobbe nelle sale dell'esposizione futurista del dicembre 1913. Così lo descrive:

Il suo aspetto era di campagnuolo, magari di contadino: soltanto osservandolo meglio vidi che sula faccia forte, maschiamente modellata dalle larghe mascelle, faccia d'antico guerriero, errava un sorriso timido e fine, mentre di sotto alla tesa del cappello due occhi scuri incastonati in profonde orbite sfavillavano di quella pura luce spirituale che solo emana dalle profonde anime dei veri artisti.

Soffici rimase senza fiato quando, in un suo paesaggio futurista, quindi scomposto e disarticolato, questo giovane riconobbe un casolare nei pressi di Carmignano. E non si sbagliava. Erano quasi vicini di casa, ma non si erano ancora incontrati.

Necrologio di Giovanni Bellini. L'Illustrazione Italana, 10 ottobre 1915

Giovanni Bellini incontrò Agnoletti con una specie di gaffe:

Ci si conobbe a una dimostrazione, di notte. Si camminava in molti in catena per rompere le cariche della polizia. Notai che il mio vicino di destra mi attanagliava forte. Dopo l'inno di Oberdan domandò: "Perché non si canta quello dell'Agnoletti?" "Il mio? ancora non lo sanno." "Il suo? Scusi." E mi lasciò eclissandosi.

Primo Conti, nelle sue memorie, ricordava alcuni versi dell'inno di Agnoletti:

La baionetta nelle schiene ai cani
la pianteremo - senza pietà

Gioia bella - vo lontano, 
dammi la mano - dimmi l'addio.
Se ti nasce - un figlio mio 
TRENTO E TRIESTE - menalo a baciare

Giovanni Bellini fu dunque un interventista, e dei più accesi. Apriamo una breve parentesi per ricordare che interventista non può essere inteso come sinonimo di guerrafondaio, almeno come lo intendiamo oggi. La percezione della guerra che abbiamo noi, dopo i due spaventosi conflitti mondiali, non si può equiparare a quella che si aveva prima. All'epoca il termine guerra non poteva evocare gli orrori che evoca - giustamente - ai giorni nostri semplicemente perché ancora non c'erano stati, e non ci si deve stupire se all'inizio del '900 il concetto di pacifismo neanche esisteva.

Bellini, scrive Agnoletti, era per l'Italia. Con Luigi di Savoia dittatore. In Arciviaggio trovano spazio due lettere, una a quest'ultimo e una agli ufficiali, ed entrambe erano state pubblicate su Lacerba. Lettere dense di retorica meno ingenua che appassionata. Bellini le aveva consegnate alla redazione senza la punteggiatura, cui provvidero Agnoletti e Papini. Perché, scrive il primo, "ancora non padroneggiava la sintassi, e nemmen bene l'ortografia, ma pure conosceva e valutava l'arte e la faceva". "Bellini", continua Agnoletti, "adoperava segni di interpunzione quando annotava pensieri o strofe per la prima volta, ma li adoperava male. Erano per lui una biffatura provvisoria, piuttosto vaga; copiando, ricopiando e modificando la sostituiva man mano con spazii che segnassero le pause logiche e quelle del ritmo. Avrà imparato dai futuristi?"

Ardengo Soffici, Sintesi di un paesaggio primaverile, 1913

Domanda senza risposta. Di sicuro sono le liriche, con spaziature al posto dei punti e delle virgole, a far intuire la statura, seppure ancora in embrione, di Giovanni.
Ho scritto che leggere l'Arciviaggio fa rabbia. Fa rabbia perché davanti ai suoi versi e alla sua, diciamo così, prosa poetica, si comprende che Bellini stava cercando di individuare il suo percorso affinando e perfezionando le sue conoscenze non solo grammaticali, e si può avere non più di un'idea molto vaga dei vertici cui sarebbe giunto se una granata non lo avesse ucciso.

Di tutte le morti precoci, la più catastrofica della storia è stata forse quella di Masaccio, a 26 anni. 26 anni non li aveva ancora compiuti Clifford Brown, quando morì nel 1956 in un incidente stradale che gli impedì di divenire probabilmente il più grande musicista jazz mai esistito. Jean Vigo morì a 29 anni dopo aver girato due soli film. Tutti e tre (ma altri esempi si potrebbero fare, e in tutti i campi dello scibile), quanti e quali contributi  avrebbero potuto ancora dare alle rispettive arti? Ma tutti e tre avevano comunque fatto in tempo a dipanare il loro talento e a lasciare la loro traccia nella storia dell'umanità. Bellini, no. Guardate l'apparente ingenuità di Insalatina di campo:

(...) E tutti quei fiori     tazze adoprate dalla terra
a bever sole    ad esalar sospiri di profumi
Tutti i ricordi si guardano innamorati 
su argini paralleli
viso a viso
quando sui rii fioriti     toppe di paradiso
passa la voce
Insalatinaaa     di campoooo...

Leggete un paragrafo di Serenata:

Tu cantasti     La tua anima di femmina bramosa di carezze si profuse in fila di musica e luce     Segmenti di rette che andavano da te alle stelle destarono sconosciuti splendori geometrici fino a divine alpi piramidali che il cielo appuntò sulla terra

O Un sepolcro:

Il cielo impaurito di me s'incava sopra il mio capo     diviene paonazzo e marmoreo     e non è più che il coperchio del mio sepolcro posato sulle rocche dei monti

Agnoletti raccolse meticolosamente tutto ciò che riuscì a trovare di Giovanni,  anche frammenti, in termini letterali. Una lettera non finita di cui s'ignora il destinatario. Un taccuino, dal titolo Memorie della Campagna d'Italia nella Guerra della Salute, che in parte era comparso su La Voce dopo la sua morte. E note volanti. Ne copio una:

Brani di luce si sdraiano 
sulle ferrane tenere
trine di luce compaiono
di tra gli ulivi cenere.
 
Sono parole, frasi, versi che affascinano. Ma non sanno di capolavoro. Sembrano annunciarne. Suggeriscono l'inizio di un cammino, brutalmente interrotto. Prima dell'arruolamento Giovanni Bellini, racconta Agnoletti,

chiudeva lo stanzone degli aceti, accendeva il sigaro e si metteva accanto alle sorelle chine e attente sul ricamo. Raccontava: "un giorno o l'altro bisogna che vada a fare un gran viaggio". E a me spiegava: "Dovrà essere un gran bel viaggio; un arciviaggio"

Questo viaggio non lo poté compiere. Il suo amico volle come omaggiare il suo progetto dando il titolo alla raccolta.  
Notte eroica, brano di prosa poetica che - parere personale - mi ha richiamato certe suggestioni visionarie di Dino Campana, termina con una frase che dà anche il titolo a un bel saggio di Niccolò Lucarelli

Quella che non calpestò nessuno sarà la strada che mi ricondurrà

Una strada che non calpestò nessuno, e che nessuno più calpesterà.












Nessun commento:

Posta un commento

I commenti sono liberi a tutti & benvenuti, Sono apprezzate precisazioni, segnalazioni di refusi, integrazioni. Ma sempre - e purtroppo non si può più dare per scontato - all'insegna della buona educazione.