domenica 23 aprile 2017

Gli ebrei ribelli

In prossimità della Festa per l'anniversario della Liberazione dal fascismo, ripropongo, con alcune correzioni, un articolo che scrissi nel 2011 per il settimanale di Borgo S. Lorenzo Il Galletto.
Le località menzionate nel testo, all'epoca dei fatti abitate, oggi abbandonate e ignote ormai alla maggior parte degli stessi mugellani, sono situate nel cuore dell'Appennino, per lo più a nord est di Vicchio.
Il mio vuole essere soprattutto un modesto omaggio alla figura - nonché un altrettanto modesto contributo a perpetuare la memoria - del giovane eroe ritratto nella foto d'apertura: Dante Valobra.


L'INVERNO MUGELLANO DEGLI EBREI RIBELLI
La baracca c’è ancora. È un vecchio seccatoio che servì anche da rifugio per gli scalpellini, subito sotto Case Pian Bertozzi nel cuore dell’Appennino, di fronte alla stazione di Fornello che si trova al di là della vallata del Muccione. In questa baracca, non dotata di molti comfort, i fratelli Alfredo e Franco Papini e i fratelli Cesare, Enzo, Sauro e Dante Valobra trascorsero l’inverno tra il 1943 e il 1944.
La Repubblica Sociale Italiana aveva scatenato la caccia agli ebrei. Il famigerato Manifesto di Verona recitava: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. E i Papini e i Valobra erano ebrei. Come scritto di recente in un articolo di Adam Smulevich comparso su Toscana Ebraica, “Il coraggio dei fratelli Valobra (…) rappresenta una risposta al cliché ancora ampiamente diffuso che vede l’ebreo eterna vittima del marcio della Storia”.

La stazione di Fornello, oggi abbandonata.
Ricostruire le vicissitudini di questi sei ebrei ribelli, tre dei quali caduti da eroi, è impresa ardua. Mi limito a pochi elementi. Secondo quanto riferitomi dalla signora Enrichetta Cecchini, che allora come adesso abitava nel piccolo agglomerato di Malnome, trovarono rifugio prima in Granocchio, dove c’era un podere vuoto, indicato loro da Bruno Gasparrini, antifascista di Gattaia. Anche di lì era possibile raggiungere la stazione di Fornello e, col treno, tornare a Firenze per qualche ora, rischiando non poco. Alla stazione, ad ogni modo, si fermavano spesso, ben voluti e aiutati da tutti, a cominciare dal capostazione Adolfo Orlandi, anch’egli partigiano. Poi in Granocchio giunse un gruppo di partigiani reduci dal Pratomagno. I sei ragazzi andarono alla baracca sotto Case Pian Bertozzi e vi rimasero fino a primavera. Non erano abituati alla vita di quasi montagna. Erano cittadini, di famiglie benestanti, avevano studiato a Firenze. I Papini, da parte di madre, “erano imparentati con i Coen, che erano facoltosi commercianti di stoffe. Erano ragazzi molto per bene”, ricorda Enrichetta che li conobbe. Dante, per motivi di salute, dovette tornare a Firenze. Qui fu catturato dall’infame banda Carità e liberato da Villa Triste grazie all’intercessione del Cardinale Dalla Costa.
Patrizia Valobra, figlia di Enzo e nipote di Dante, mi ha raccontato: “Mio nonno con mia zia Velleda, zia Lea, zia Rossana, che facevano le staffette partigiane, erano nascosti – in quanto ebrei - in via delle Forbici. Dante fu catturato perché partigiano, non perché ebreo. Lo torturarono e costrinsero a dire dove era il nonno con la famiglia, ma anch’essi come antifascisti. Riuscì a tacere sui fratelli, ma comunque se fosse stato preso come ebreo la sua sorte sarebbe stata segnata, e neanche il Cardinale Dalla Costa avrebbe potuto salvarlo, ciò che invece accadde. Mia nonna era cattolica e fece interessare Dalla Costa che ottenne la liberazione sua e del nonno, ma sempre in quanto partigiani. Nulla poté fare purtroppo per la famiglia Volterra, che fu catturata nella stessa occasione e poi deportata.”
Sauro e Cesare Valobra a Cetica, 2002

Dante era stato dunque torturato, ma – o meglio: per questo - raggiunse di nuovo i fratelli e riprese a combattere. Dopo l’assalto a Vicchio del 6 marzo, per sfuggire al rastrellamento del 12 si unirono alla Caiani, che poi sarebbe divenuta la divisione Potente, e raggiunsero il monte Filetta, ove rimasero una settimana circa. Secondo Adolfo Orlandi, che faceva parte della Brigata Rosselli, probabilmente c’erano anche loro al Pian degli Arali in occasione di uno scontro avvenuto il 7 aprile. Mancano testimonianze dirette, ma la cosa non è improbabile dato che il 2 si erano recati a Malnome insieme con altri partigiani, come racconta ancora Enrichetta Cecchini. “Erano venuti tutti a pranzo da noi, per la domenica delle Palme. Ricordo molto bene soprattutto Dante, che sembrava proprio un ragazzino. Pranzarono insieme con altri partigiani, poi partirono, e Dante non lo rividi più.”. Sul Pratomagno il 12 aprile morirono entrambi i Papini. Orazio Barbieri, in ‘Ponti sull’Arno’, narra che i partigiani “stanno dedicandosi alla riorganizzazione del gruppo, alla revisione delle armi, quando vengono completamente accerchiati da forze preponderanti. I partigiani tentano di resistere o di sfuggire, ma inutilmente. Gli ultimi sei, compreso Pancino [uno dei capi], son fatti prigionieri dai tedeschi. Dopo averli maltrattati e derubati anche degli oggetti personali, i tedeschi decidono di fucilarli all’istante. Pancino, i fratelli Papini, Attilio Maglioni, Scarpa e Quito, vengono messi al muro con le mani legate. (…). Senza attendere nessun ordine di fuoco i nazisti sparano una, due, tre, quattro, cinque raffiche.” Solo Pancino riuscirà a sopravvivere miracolosamente.

Patrizia Valobra ha messo a disposizione dell’Archivio dell’Istituto Storico per la Resistenza in Toscana un diario e una straziata lettera del padre, grazie alla quale è stato possibile ricostruire la tragica fine di Dante Valobra, avvenuta a Cetica il 29 giugno. “Dante, staffetta”, scrive Enzo Valobra al fratello Sauro, “fu incaricato di andare a prendere al comando un cannocchiale. Nel ritorno Dante sentendo in fondo valle la sparatoria si diresse senz’altro in quella direzione. (…) Fatti pochi passi sentì dietro una macchia fischiare e credendo essere partigiani si espose un po’ troppo, tanto che bastasse ai tedeschi (vestiti in borghese) di tirargli una prima raffica che lo colpiva allo stomaco. Caduto in terra, il povero Dante estraeva la rivoltella, ma una nuova raffica in faccia gli impediva di compiere l’estrema vendetta. È morto da eroe e citato all’ordine del giorno della Divisione [nella foto] con la seguente motivazione: ‘Tornando da una missione ed intuendo la sua Compagnia in combattimento impegnata cadeva nell’intento di raggiungere ad ogni costo il suo Comandante’”. Oltre al Giglio della Liberazione, conferito anche ai fratelli, a Dante Valobra è stata concessa la Stella Garibaldina.

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