mercoledì 25 aprile 2018

Dalla mosca di Giotto alla rosa del Paladino


La storiella dello scherzo di Giotto al suo maestro Cimabue la conoscono tutti. Anche se è solo una storiella. Ecco come la riporta Giorgio Vasari:

Dicesi che stando Giotto ancor giovinetto con Cimabue, dipinse una volta in sul naso d’una figura che esso Cimabue avea fatta una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro, si rimise più d’una volta a cacciarla con mano pensando che fusse vera, prima che s’accorgesse dell’errore. [Giorgio Vasari, Le vite, ed. Giuntina, 1568, vol. 2, p. 121.]

Che sia una storia vera, ripetiamolo, è altamente improbabile (*). Lo stesso scherzo viene attribuito al Mantegna. Quello di Giotto ha però avuto grande successo, e forse non c'è da sorprendersene. In fondo esprime e riassume bene un fatto epocale: il reale stava compiendo  una trionfale rentrée nella pittura. Giotto il realista inganna Cimabue il simbolico. E lo supererà, non solo in senso dantesco (credette Cimabue ne la pittura ecc.), ma soprattutto nel senso che, dopo dieci secoli in cui generazioni e generazioni di pittori  avevano prodotto simboli, il ragazzo di bottega annunciava che si sarebbe tornati a riprodurre la realtà. Quello stesso ragazzo che di lì a poco, chiosò mirabilmente Cennino Cennini, rimutò l'arte di greco in latino, e la ridusse al moderno. Quello stesso ragazzo che, in definitiva, inventò la pittura così come ancora oggi è concepita.

Ad ogni modo, la mosca di Giotto non rappresenta una novità. La riproduzione al naturale della realtà, l'abilità degli artisti nell'imitare la natura erano in antico argomenti dibattuti a livello filosofico. E che livello. Il concetto di mimesis vide contrapporsi Platone ad Aristotele. Senza addentrarci nell'argomento, leggiamo cosa scrive Plinio il Vecchio, nel I secolo d.C. in un celebre passo della sua Historia naturalis

Si racconta che Parrasio venne a gara con Zeusi; mentre questi presentò dell’uva dipinta così bene che gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro, quello espose una tenda dipinta con tanto verismo che Zeusi, pieno di orgoglio per il giudizio degli uccelli, chiese che, tolta la tenda, finalmente fosse mostrato il quadro; dopo essersi accorto dell’errore, gli concesse la vittoria con nobile modestia: se egli aveva ingannato gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui stesso, un pittore. Si racconta che poi Zeusi dipinse anche un fanciullo che portava l’uva sulla quale, al solito, volarono gli uccelli; onde, con la stessa spontaneità, si fece dinanzi al quadro adirato e disse: «Ho dipinto l’uva meglio del fanciullo, perché, se avessi fatto bene anche lui, gli uccelli avrebbero dovuto averne paura». [Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XXXV, 65-66, tr. it. Storia naturale, vol. V, Einaudi, Torino 1988, pp. 361-363.] (Ringrazio per le citazioni questo blog)

Sarà il Rinascimento a riproporre la questione dell'arte come imitazione del vero. Nel 1584  viene pubblicato il Trattato dell'arte della pittura, scoltura, et architettura, di Giovanni Paolo Lomazzo, pittore milanese, Diviso in sette libri. Nel capitolo dedicato alla virtù del Colorire, Lomazzo scrive: 


Non è dubbio, che tutte le cose ben formate, e condotte per disegno; e doppoi colorire secondo l'ordine loro non rendano il medesimo aspetto che rende la natura istessa in quel moto, o gesto. Peroché fino a gli cani vedendo altri cani dipinti dietro gl'abbaiano, quasi chiamandogli, e sfidandogli; credendo che siano vivi per la sola apparenza: non altrimenti che facciano vedendo se stessi in uno specchio; come si narra haver fatto un cane che né guastò uno c'haveva dipinto Gaudenzio sopra una tavola di un Christo, che portava la Croce, a Canobbio [sotto].

Gaudenzio Ferrari (ca. 1475-1546), Salita al Calvario
Lomazzo continua citando un tale Barnazano, fine paesaggista, il quale aveva dipinto fragole così realistiche da attirare i pavoni, che cercavano di beccarle, e Bramantino, che dipinse in una porta di Milano un famiglio così naturale che i cavalli non cessarono mai di lanciar gli calzi, finché non gli rimase più forma d'huomo. 
Federico Zuccari, nel suo L'idea de' pittori, scultori e architetti (1608), cita anch'egli Zeusi e Parrasio, e poi porta altri esempi di pitture che, stavolta, ingannarono gli umani: dal ritratto di Papa Leone X di Raffaello (sopra), davanti al quale attonito e meraviglioso restò il cardinal Pesia Datario, che presentò bolle, e calamajo, e penna a far la signatura inginocchiato; a un ritratto di Carlo V opera di Tiziano, posto su un tavolino e con il quale il figlio Filippo (futuro monarca dei Re, e dell'uno e dell'altro emisfero) si mise a discutere. Lo stesso Tiziano resterà poi talmente affascinato dai trompe l'oeil realizzati da Baldassarre Peruzzi nella Sala delle Prospettive di Villa Farnesina a Roma (sotto), da dover toccare con mano per sincerarsi che quelle colonne erano solo dipinte.


Solo l'ultimo degli aneddoti elencati può avere un fondo di verità. Il passare del tempo ha confermato l'inverosimiglianza degli altri racconti che, più che a figure retoriche come l'iperbole, fanno pensare al pescatore che raccontava di aver preso un pesce così grosso che la sola fotografia pesava tre chili. Ai tempi nostri non si hanno notizie di uccelli che cercano di beccare fotografie di grappoli d'uva, né di cani che abbaiano a cani in fotografia, né di cavalli che prendono a zoccolate gigantografie di persone che gli stanno antipatiche.

Filippo Paladini, Martirio di S. Agata.
Cattedrale di S. Agata, Catania
Sempre prendendola come storiella, quella riguardante Filippo Paladini meriterebbe forse maggiore notorietà. La racconta Paolo Russo nel suo "Un genio vagante... in giro nella Sicilia" Filippo Paladini e la pittura della tarda Maniera nella Sicilia centrale (Edizioni Lussografica, 2012).

Un anonimo testimone del Seicento riferisce un curioso episodio di cui fu protagonista Paladini al tempo in cui si trovava a Ragusa, dimorante presso il palazzo del nobile Leonardo Giampiccolo (...). Il pittore toscano, "uomo faceto e pittore straordinario", conoscendo la passione per le rose dell'aristocratico ragusano, decise di tirarvi uno scherzo, dando prova al tempo stesso della sua abilità: dipinse egli una rosa che sistemò tra quelle "rose naturali" da cui il Giampiccolo "molto traeva diletto", questi "ci credette e la prese, e alle risa del Paladino capì di essere stato burlato".

Racconterò la storia, inaspettatamente avventurosa, di questo pittore il prossimo 20 maggio nelle stanze della Villa di Poggio Reale alla Rufina (FI). Qui mi limito a pochi elementi riassuntivi, in modo anche da ...incuriosirvi. Filippo Paladini - o Paladino - (1544?-1615) nacque a Casi, frazione appunto della Rufina, ma lavorò a Malta e in Sicilia. Ciononostante, forte del suo solido retroterra, anche se ignoriamo il nome del suo maestro (Poccetti? Empoli? Passignano?), rimase toscano fino al midollo e fino alla fine dei suoi giorni. Viene definito manierista o tardo manierista, ma presuntuosamente sostengo che questi termini gli stanno stretti. In realtà Filippo, specie nell'ultimo periodo si portò oltre.
Filippo Paladini, Adorazione dei Magi.
Convento dei Cappuccini, Calascibetta (EN)
In un'epoca in cui il Concilio di Trento aveva dettato i canoni da seguire nelle immagini sacre, improntati alla sobrietà e alla chiarezza del messaggio e/o della storia narrata, Paladini non poté non tenere presente la lezione di Santi di Tito. Questi ricondusse la pittura nel solco della tradizione fiorentina, che aveva le sue radici in Giotto, sottraendola alle degenerazioni estreme della maniera. Filippo Paladini sembra seguirlo in un percorso che riscopre quel realismo e quel naturalismo che la Chiesa post tridentina non solo approva ma incoraggia. L'incontro con l'opera del Caravaggio avrà su di lui grande influenza, e arricchirà notevolmente il suo stile senza tradirlo. Il ciclo di pale d'altare realizzate nel 1613 per il Duomo di Enna, forse la sua opera più significativa, ce lo conferma. Potete vedere le cinque grandi tele in questa bella guida illustrata.
L'episodio della rosa, vero o più probabilmente inventato che sia, è ad ogni modo sintomatico non solo dell'abilità tecnica, ma anche della propensione di Filippo verso il naturalismo, verso la rappresentazione reale, e dunque verso il superamento di quello stile manieristico che, in Toscana come in Sicilia, ormai aveva fatto il suo tempo.
Se volete saperne di più su Filippo Paladini, non vi resta che segnare sull'agenda il pomeriggio del 20 maggio 2018, da trascorrere presso la Villa di Poggio Reale, Rufina (FI). Queste le coordinate. Ulteriori particolari a breve.

(*) esiste, in forma di variante, anche una barzelletta in cui il babbo di Giotto si è procurato delle terribili ustioni alla lingua perché il vispo suo figlioletto gli ha proditoriamente dipinto non vi dico cosa su una stufa rovente.

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