La stamperia del convento di S. Jacopo a Ripoli, in via della Scala a Firenze, durò solo dal 1476 al 1485, ma ebbe il merito indiscusso di portare a Firenze, diremmo oggi su scala industriale, l'invenzione di Johannes Gutenberg.
La fatidica Bibbia a 42 linee (foto d'apertura, da Rai Storia), oggi visibile on line per esempio qui, uscì il 23 febbraio 1455 e fu, più che un punto di svolta, il punto di svolta per la cultura universale. "Ci sono voluti tre anni per completare la stampa di 180 copie della Bibbia. Il tempo che un amanuense avrebbe impiegato per portarne a termine una", si legge su questa bella pagina in cui, con grande abilità di sintesi, sono spiegati i precedenti e le conseguenze di questa data. E si aggiunge: "La nuova tecnica si diffonderà in poco tempo in tutta Europa: in 50 anni verranno stampati 30.000 titoli diversi per una tiratura complessiva superiore ai 12 milioni di copie. I libri stampati fino al 1500 verranno in seguito chiamati “incunaboli”.
Cesare Cantù, nella sua Storia della letteratura italiana (Firenze 1865), premette:
Pare condizione vitale della società che le scoperte vengano appunto quand'essa ne ha bisogno per ispingersi con nuovo slancio. Allora dunque che l'amore per la letteratura classica volgeva a cercar con passione e riprodurre gli esemplari, e che le grandi controversie dei re e della Chiesa faceano moltiplicare scritture, comparve l'arte più efficace fra le moderne, la stampa.
E più avanti:
Presto quell'arte giunse in Italia, e del 1465 abbiamo l'edizione di Lattanzio a Subiaco per Corrado Schweinheim e Arnoldo Pannatz, coll'assistenza di Giovanni Andrea Bussi di Vigevano, poi vescovo d'Aleria: ma dicesi preceduta da un Donato. In Roma al 70 eran uscite almeno ventitré stampe di antichi. (...) Fino al 1500 s'erano stampate a Parigi settecencinquantun'opere; in Italia quattromila novecentottantasette, di cui a Firenze trecento, a Bologna dugennovantotto, a Milano secenventinove, a Roma novecenventicinque, a Venezia duemila ottocentrentacinque; e altre cinquanta città aveano stamperie. Anche borgate vollero averne, come Sant'Orso presso Schio, Polliano nel Veronese, Pieve di Sacco nel Padovano, Nonantola e Scandiano nel Modenese, Ripoli presso Firenze.
L'ex Convento di S. Jacopo a Ripoli, via della Scala, Firenze |
Peccato che, proprio in fondo, Cantù faccia uno scivolone, ritenendo evidentemente che la stamperia di S. Jacopo a Ripoli fosse sorta per l'appunto a Ripoli, sulla Aretina, alla periferia est di Firenze. Mentre, come abbiamo visto, si trovava ben entro le mura cittadine, in via della Scala. Aveva mantenuto il nome di quello che è considerato il più antico monastero domenicano femminile in Toscana. All'inizio del 1200 un mercante dal nome scioglilingua, Diomicitidiede di Buonagiunta del Mercatante, edificò a Ripoli e intitolò a S. Jacopo un romitorio che ospitò nel 1221 i primi frati domenicani, in seguito dei padri francescani e, dopo il trasferimento di questi ultimi in città, fu promosso monastero di monache verso il 1229 (secondo certe fonti il 1250). La distanza da Firenze, l'isolamento del posto e probabilmente i disaccordi tra le occupanti, portarono a un trasferimento entro le mura. Le monache trovarono inizialmente ospitalità in casa dei Cerchi, dopodiché una parte di esse andò nel convento di S. Domenico del Maglio, mentre l'altra si stabilì in via della Scala. Si era intorno al 1300.
Le monache del Convento non tardarono ad acquisire la fama di abili miniaturiste. Un esempio citato da Fineschi (che reincontreremo tra breve) è il manoscritto de Lo Specchio di Croce, opera di Frate Domenico Cavalca (1270-1342), copiato e miniato da Suor Angelica monaca di Ripoli in data 1460. Nel 1474 Frate Domenico da Pistoia e Frate Piero di Salvatore da Pisa furono assegnati al Monastero in quanto provveditori. Avendo appreso, non si è riusciti a sapere dove e quando, l'arte della stampa, installarono in una stanza attigua ai locali del Monastero una tipografia, che iniziò l'attività nel 1477.
La produzione della stamperia Apud Sanctum Jacobum de Ripoli venne completamente dimenticata per trecento anni. Ciò è in parte spiegato - ma non giustificato - dal fatto che il primo testo a stampa prodotto a Firenze fu opera di Domenico Cennini (1415-1498), orafo. Questi, nel 1472, con notevole dispendio di energie fisiche ed economiche, produsse insieme con il figlio Piero i Commentaria in Vergilium di Mauro Servio Onorato. Rimase la sua sola opera stampata, ma il primato oscurò l'attività di gran lunga più intensa della stamperia di Ripoli. Nel 1722 Padre Pellegrino Orlandi scrisse Origine e progressi della stampa o sia dell'arte impressoria e notizie dell'opere stampate dall'anno 1457 sino all'anno 1500. Giunto a parlare di Fiorenza, dopo un ponderoso omaggio a Cennini, nominò sì i Frati Domenico e Pietro, ma citando quattro sole pubblicazioni della stamperia di Ripoli, "le quali non poco mi hanno incomodato nel ricercare qual luogo egli sia, e quali fussero gl'impressori vicino ad esso". Domenico Maria Manni, nel 1761, tenne una conferenza Della prima promulgazione de' libri in Firenze, in cui lodò Cennini e non fece alcun cenno alla stamperia di Ripoli. Non vi fece alcun cenno neanche il Richa, parlando del convento di S. Jacopo a Ripoli nelle Notizie istoriche delle chiese fiorentine (1756).
Nel 1781, Padre Vincenzio Fineschi, archivista di Santa Maria Novella, dette alle stampe le sue Notizie storiche sopra la stamperia di Ripoli. Aveva ritrovato quasi per caso un libriccino di 130 pagine: il libro delle spese della stamperia. Da qui poté ricostruirne la storia.
I quattro titoli citati dall'Orlandi erano la Vita di S. Caterina, l'Etica di Aristotele commentata da Donato Acciaioli, gli Argonauti di Valerio Flacco e il Libro degli Imperatori e Pontefici di Francesco Petrarca. Ma nell'arco di meno di dieci anni, Apud Sanctorum Jacobum de Ripoli, di titoli, dal 1476 al 1483 ne pubblicò almeno dieci volte tanto: Fineschi ne elenca quaranta. A cui vanno aggiunte "le Immagini principalmente quelle della Madonna del Rosario e di S. Margherita Verg. e Mart." che si tiravano a impronta di legno. Scrive Fineschi:
La prima Partita è sotto il dì 14 di Novembre dell'anno 1476. dalla quale si raccoglie il primo libretto ivi stampato, e che già era principiata la Stamperia da qualche mese; perché nel suddetto giorno furono portate a vendersi alla Bottega di Domenico Cartolaio numero 400 Grammatiche di Donato; lo che è stato ignorato fin qui da tutti gli storici.
Frate Domenico e Frate Pietro costituirono società con esperti tipografi, sopratutto tedeschi, per gli aggiornamenti e i miglioramenti della produzione.
Un erudito dei nostri giorni, il Dr. Paolo Piccardi, scrive:
Historia d'Alexandro Magno, con iniziali miniate |
La stamperia era dotata di vari reparti, che si occupavano, rispettivamente, di tutte le fasi di composizione dei libri, compresa la fusione dei caratteri da stampa, che avveniva nella cosiddetta “getteria”, dove lavorò anche l’orafo Benvenuto di Chimenti, per il quale esistono mandati di pagamento per un totale di 110 lire, per la composizione di tre alfabeti, due di carattere antico e l’altro moderno. Per la “getteria” venivano acquistati vari metalli, fra i quali il rame, che serviva per fare le “madri” delle lettere, ossia quei piccoli pezzi, nell’estremità dei quali vi è un’ intaccatura, per fare i segni di punteggiatura e di abbreviazione. Poiché la scultura del rame richiedeva punzoni di acciaio, anche di questo metallo troviamo registrazioni di acquisti, così come di piombo, di stagno, e di “marcassita”, un additivo della lega, che veniva acquistato presso la Spezieria di S. Marco. Venne acquistata una tavola di marmo, che serviva per tenere in squadra i caratteri come uscivano dalla fusione, per essere rinettati accuratamente. Si compravano anche strumenti di lavoro, fra i quali un trapano “fatto a guisa di succhiello”, e una “gallinella”, che serviva per tenere fermo il punzone durante il lavoro. C’è l’acquisto, ovviamente, del “fornello” per la fusione e la “Tafaria”, ossia un vaso di legno dove venivano riposte le lettere.
Si servivano, per l'acquisto della carta, dei cartolai che all'epoca erano concentrati in particolare nella Via del Garbo, l'attuale Via Condotta, probabilmente nel tratto da Via Calzaioli a Via dei Magazzini. Prosegue Piccardi:
(...) La carta più comunemente usata era quella del Colle, che veniva pagata lire 2.6 la risma. La carta di Prato costava lire 2.10. La carta di Fabriano (la migliore era quella col segno del Balestro) era venduta da Andrea cartolaio e costava 3 lire. C’era poi la carta all’uso Bolognese, di due tipi, uno di qualità inferiore che costava lire 3.10 e l’altro, di qualità superiore, che costava lire 6.8 la risma.
Gli Argonauti di Valerio Flacco: incipit |
Alla cura nella produzione del prodotto corrispose altrettanta cura nella promozione, grazie alla quale si avviò una vera rete di distribuzione, costituita da eruditi e religiosi, entusiasti dell'opera compiuta dai frati e si suppone per nulla restii a fare da spedizionieri. Da un tale Antonio de' Nerli che andava a vendere i libri fuori Firenze, a "i Monaci della Badia Fiorentina, i Monaci degli Angioli, i Monaci di S. Salvi, i Frati di S. Bernardo, il Priore dello Spedale della Scala, e altri, che erano interessati ad estendere questo commercio virtuoso", un po' tutti divennero clienti e a loro volta distributori.
La citata Vita di S. Caterina da Siena, di Fra Raimondo da Capua, uscita già all'inizio del 1477, fu probabilmente il best seller. Costava una copia 2 lire e 10 soldi, ed esisteva la versione con le iniziali miniate manualmente da maestri miniatori, a 3 lire. I guadagni della tipografia consentirono l'acquisto di nuovi locali adiacenti al convento e di un mulino presso Brozzi.
Frate Pietro morì nel settembre 1479. L'attività della stamperia proseguì condotta da Frate Domenico insieme con il tipografo Lorenzo Veneziano. Il libretto in mano del Fineschi termina nel 1483. Frate Domenico morì nel 1489.
Gli Argonauti: colophon |
Ancora oggi si può rimanere sbalorditi, nel leggere i titoli delle opere prodotte dalla stamperia Apud Sanctum Jacobum de Ripoli. Dalla tipografia di un convento ci si aspetterebbe - ingenuamente - una produzione esclusiva, o almeno una prevalenza assoluta di opere sacre. Le opere sacre c'erano, ma accanto ad esse ne figuravano altre come il Morgante di Luigi Pulci, alla cui stampa contribuì e ne fu retribuita tale Suor Marietta del Convento. Come un Computo della Luna. E poi le Regole grammaticali di Giovanni Battista Guerrino, che ebbero una ristampa (fate caso all'attenzione dei produttori per l'argomento grammatica!). La Historia d'Alexandro Magno di Quinto Curzio Rufo tradotta da P. Candido. Abbiamo già visto l'Etica di Aristotele tradotta da Donato Acciaioli. Il Libro delle Selve di Stazio Papinio, tradotto da Ser Bartolommeo Della Fonte (Fonzio), umanista che pubblicò sempre per Ripoli (1477) l'Explanatio in Persium Poetam, con dedica a Lorenzo de' Medici, e lavorò anche in stamperia come correttore di bozze.
Francesco di Niccolò Berlinghieri e Filippo di Bartolommeo Valori, discepoli di Marsilio Ficino, "desiderando di rendersi grati al suo Maestro" scrive Fineschi, "il quale aveva tradotto l'Opere di Platone convennero con F. Domenico nostro, e Lorenzo Veneziano, perché nella Stamperia di Ripoli si stampassero più Dialoghi di Platone in numero di mille venticinque esemplari".
Una copia tradotta in latino del De regimine sanitatis ad soldanum babyloniae di Maimonides (Moses Ben Maimon) (1135-1204) è andata aggiudicata nel 2015 da Sotheby's per 25.000 dollari. Ma è leggibile on line, anche se certo non è la stessa cosa, quella conservata alla Nazionale, a questo indirizzo. Tra i testi non citati dal Fineschi, ho rintracciato un Decamerone, datato 13 maggio 1483, e La morte degli uomini famosi - Nessun si puote felice chiamare (agosto 1484).
Altri esemplari originali sono consultabili on line e per lo più scaricabili. Leggere questi incunaboli è come pilotare un'auto del 1902 o pedalare una bicicletta del 1850. Difficile e faticoso. Per forza. Eravamo ai primordi. Caratteri tutti uguali, pochi capoversi, italiano - se italiano - dell'epoca. Ma ammettiamolo: hanno un fascino esagerato.
Il ruolo della stamperia Apud Sanctum Jacobum de Ripoli nel progresso della cultura e del sapere ci si immagina all'epoca fenomenale. Nonostante il periodo di oblio cui ho accennato, della sua certo immensa eredità ancora oggi ne giunge forse qualche traccia a tutti noi. Tutti noi che amiamo i libri quasi con furore e cerchiamo disperatamente e quotidianamente di essere meno ignoranti. O, volgendo il concetto in positivo, di sapere oggi sempre qualcosina di più rispetto a ieri. Frate Domenico da Pistoia e Frate Piero di Salvatore da Pisa meritano la nostra più profonda e sincera gratitudine.
Francesco di Niccolò Berlinghieri e Filippo di Bartolommeo Valori, discepoli di Marsilio Ficino, "desiderando di rendersi grati al suo Maestro" scrive Fineschi, "il quale aveva tradotto l'Opere di Platone convennero con F. Domenico nostro, e Lorenzo Veneziano, perché nella Stamperia di Ripoli si stampassero più Dialoghi di Platone in numero di mille venticinque esemplari".
Una copia tradotta in latino del De regimine sanitatis ad soldanum babyloniae di Maimonides (Moses Ben Maimon) (1135-1204) è andata aggiudicata nel 2015 da Sotheby's per 25.000 dollari. Ma è leggibile on line, anche se certo non è la stessa cosa, quella conservata alla Nazionale, a questo indirizzo. Tra i testi non citati dal Fineschi, ho rintracciato un Decamerone, datato 13 maggio 1483, e La morte degli uomini famosi - Nessun si puote felice chiamare (agosto 1484).
Altri esemplari originali sono consultabili on line e per lo più scaricabili. Leggere questi incunaboli è come pilotare un'auto del 1902 o pedalare una bicicletta del 1850. Difficile e faticoso. Per forza. Eravamo ai primordi. Caratteri tutti uguali, pochi capoversi, italiano - se italiano - dell'epoca. Ma ammettiamolo: hanno un fascino esagerato.
Il ruolo della stamperia Apud Sanctum Jacobum de Ripoli nel progresso della cultura e del sapere ci si immagina all'epoca fenomenale. Nonostante il periodo di oblio cui ho accennato, della sua certo immensa eredità ancora oggi ne giunge forse qualche traccia a tutti noi. Tutti noi che amiamo i libri quasi con furore e cerchiamo disperatamente e quotidianamente di essere meno ignoranti. O, volgendo il concetto in positivo, di sapere oggi sempre qualcosina di più rispetto a ieri. Frate Domenico da Pistoia e Frate Piero di Salvatore da Pisa meritano la nostra più profonda e sincera gratitudine.
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