giovedì 23 agosto 2018

Ottone Rosai: urla di lupi al trono di Dio


La sera del 12 dicembre 1913, il diciottenne Ottone Rosai si trovava in un palco del Teatro Verdi a Firenze, per assistere alla Serata Futurista in compagnia di un ragazzino che, allo stesso scopo, aveva eluso la sorveglianza dei genitori ed era sgattaiolato scalzo fuori da casa. Il ragazzino - 13 anni - si chiamava Primo Conti, e in ottobre ricorrerà il trentennale della sua dipartita. Avremo modo di riparlarne.
I due ragazzi applaudivano a più non posso, ma non c'era versi di sentirli. Come non c'era versi di sentire quello che i Futuristi proclamavano imperterriti sul palco. Il pubblico, la maggioranza del quale si era presentato con fagotti e ceste piene di ortaggi e non solo, copriva ogni cosa con un frastuono d'inferno. Urlava, spernacchiava, fischiava, tirava di tutto. Tutto ciò era non solo previsto, ma sperato. Fu, per i Futuristi, un trionfo.
La Serata era stata preceduta dalla grande mostra di pittura futurista in via Cavour, che aveva mandato in tilt, ma soprattutto in bestia, tutta quell'intellighenzia fiorentina provinciale, reazionaria e attaccata come una mignatta al passato, glorioso quanto si vuole, ma usato come scusante per far restare Firenze una città mummificata.

Dinamismo Bar San Marco, 1914, coll. Guggenheim
In contemporanea, e sempre in via Cavour, Ottone Rosai aveva allestito la sua prima personale. Strinse così amicizia con Boccioni, Balla, Papini, Marinetti, Palazzeschi. E Soffici. "In una prima esposizione dei miei lavori che feci a Firenze nel 1913", scrisse lo stesso Rosai, "conobbi Ardengo Soffici. Un tale incontro fu addirittura una rivelazione, e tenendo cari molti suoi consigli, maturai e maturò il mio temperamento d'artista." Soffici divenne un po' il nume tutelare di Ottone, e tale rimase sempre, nonostante un momento di feroce rottura, poi superato. I suoi rapporti con i futuristi rimasero pure vivi e vivaci per tutta la sua esistenza. S'intende: alla fiorentina. Cioè con discussioni, leticate che non di rado degeneravano in scazzottate, rappacificazioni...  Ma, se i rapporti con i futuristi durarono, la sua adesione artistica al futurismo fu ben più effimera. Nondimeno, produsse opere come Dinamismo Bar San Marco e contributi importanti alla rivista Lacerba. Rosai, nel secolo delle Avanguardie, non avrebbe potuto far parte di un'avanguardia. Il suo era uno spirito individualistico. Non aveva sopportato, nel 1910, l'ambiente borghese e muffito dell'Accademia di Belle Arti cui si era iscritto, e due anni dopo fu espulso. Da autodidatta avido di conoscenze e da uomo del Rinascimento nato secondo alcuni nel secolo sbagliato, percorse una strada solitaria.
Il suo stile si precisò in anni difficili. Interventista convinto come tutti i suoi colleghi - ma allora era una mentalità completamente diversa -, si arruolò volontario. Combatté e fu decorato. Nel 1919 riuscì a sopravvivere alla spagnola. Nel 1920 espose a Palazzo Capponi ed ebbe delle belle recensioni da parte di Soffici e Giorgio De Chirico - che come tutti sanno non fu mai molto prodigo di elogi per chicchessia -, e realizzò opere come Serenata, Partita a briscola, Giramontino. Due anni dopo la sua vita fu stravolta dal suicidio del padre, oppresso dai debiti. In un convegno tenutosi a Palazzo Medici Riccardi nel 2008, l'attore e regista Riccardo Lestini lesse la cronaca dell'accaduto, drammatica e commovente, scritta dallo stesso Rosai.

Via Toscanella, 1922
Negli anni seguenti l'attività si ridusse di parecchio. Ma il 1922 fu anche l'anno della celebre Via Toscanella. Nel già citato convegno, Cristina Acidini vedeva in questo dipinto come negli altri dedicati alla medesima strada emergere le radici rosaiane che affondavano fino al primo Rinascimento, negli affreschi di Masolino e Masaccio della Cappella Brancacci, all'epoca di Rosai non ancora restaurati e quindi mostranti tonalità ben più cupe di quelle cui noi siamo oggi abituati. Tonalità e architetture che riecheggiavano nella fuga prospettica di questa via che "Come un ragazzo discolo si è intrufolata insieme a altri lazzaroncelli tra Via Maggio e Via Guicciardini riuscendo a tenere il primo posto, il posto di comando, al centro della zona".
Sono anche queste parole di Ottone Rosai. Come tutti gli uomini del Rinascimento, un unico mezzo espressivo e comunicativo non poteva essergli sufficiente, e scrisse molto e bene. Nel 1994, Editori Riuniti ripubblicò Via Toscanella [1930] e altri scritti, a cura di Alessandro Parronchi. Per dirla con quest'ultimo, Rosai era uno scrittore dilettante, ma uno scrittore. Fu eccellente nella non facile translitterazione del vernacolo fiorentino, bestemmie comprese. I suoi racconti sono non di rado fogli di un taccuino per schizzi, con le parole al posto dei disegni. Parole di una essenzialità che da un lato rende la lettura godibilissima ancora oggi, dall'altro non va a scapito di un afflato poetico degno in tutto e per tutto della sua opera pittorica, che restava comunque per Rosai la (pre)occupazione principale. Scrisse a Vasco Pratolini nel 1942: "Chi ti dà di poeta, chi di descrittore, chi dice una fregna e chi un'altra e nessuno vuol vedere la pittura, la vera pittura che c'è nelle mie cose".

Se in Via Toscanella ritroviamo l'eco delle architetture e dei palazzi di Masolino e Masaccio, questi stessi palazzi sembra di vederli citati testualmente dietro l'Uomo sulla panchina o i Suonatori ambulanti (sono i Lungarni), mentre nei Giocatori di toppa (foto d'apertura) fanno da quinta a un gruppo umano che pare raccogliere l'eredità di quello del Tributo masaccesco.

Uomo sulla panchina, 1930

Già. Suonatori, uomini su panchine, giardinieri, lattai, giocatori di toppa, avventori di osterie. Se Ottone Rosai fosse vissuto ai giorni nostri, nulla lo avrebbe salvato dall'insipienza di certa stampa che gli avrebbe appioppato l'atroce luogo comune di artista sempre dalla parte degli ultimi. Che ultimi non voleva fossero. Per questo mi dà noia anche il luogo comune cui a suo tempo non sfuggì e ancora oggi lo perseguita, quello degli omìni. Gli omìni di Rosai come le bottiglie di Morandi e i fiori di Scatizzi? Forse, ma per Rosai è decisamente riduttivo. Questi omìni sono protagonisti di opere che Ungaretti nel 1935 definì urla di lupi al trono di Dio. Molti anni dopo, era il 1983, Mario Luzi scrisse a proposito del prototipo rosaiano:

Goffo, sformato, declassato a omuncolo non poche volte, incupito da una sua fondamentale inadeguatezza (a che cosa?) o peggio immiserito dalla sua pochezza, offeso comunque, non è però mai privato della dignità del dolore e della colpa. La tormentata umanità di Rosai ha salvato questi relitti di un'epoca oppressiva, violenta, numeraria, nullificante dal diventare manichini, robot, numeri; ha potuto non profanare la loro creaturale individualità, ha lasciato ciascuno al suo misero o grande dramma. E questo fa sì che a queste vive e talora potenti immagini ci aggrappiamo quasi come a reliquie salutari e propiziatorie. Sembra infatti vogliano significarci che per quanto abietto e reietto l'uomo non può essere derubato della sua umanità.

Via San Leonardo, oggi
Rosai era stato entusiasticamente fascista, ma il fascismo non ricambiò affatto questo entusiasmo nei suoi confronti. I suoi personaggi non si trovavano certo in linea con il trionfalismo imperante (in senso letterale), e non era difficile gettare sull'autore sospetti di disfattismo. E all'epoca non c'era nulla di peggio. Secondo Nicola Coccia, giornalista de La Nazione, Rosai abbandonò il fascismo nel 1936 dopo la guerra civile spagnola. I suoi precedenti gli giocarono un brutto tiro: l'8 settembre 1943 fu aggredito da un gruppo di antifascisti in piazza Adua. Il che non lo fece tornare sui suoi passi. Sempre Coccia, al convegno del 2008, riportò una cronaca precisa e circostanziata di come l'artista durante la Resistenza rischiò la vita dando rifugio a Bruno Fanciullacci, prima nel suo studio di via San Leonardo, poi nel suo appartamento in via de' Benci. Nascose anche un altro partigiano, Enzo Faraoni, che l'anno precedente era stato suo assistente all'Accademia, e un militare tedesco passato alla Resistenza. 

Via San Leonardo, 1935
Terminata la guerra, Rosai riprese a lavorare nello studio dove si era sistemato a partire dal 1933, in quella via San Leonardo di cui divenne il cantore.  
Il trasferimento coincise con un periodo felice e produttivo della sua esistenza. Realizzò diverse personali tra cui una a Genova, creò i pannelli per la Stazione di Firenze, nel 1939 fu nominato professore di figure disegnata al Liceo artistico, per chiara fama.
Per questo artista che cantò in sostanza tutta la Firenze Diladdàrno, la strada che sinuosamente collega il viale Galileo con il Forte Belvedere divenne il paesaggio per eccellenza: paesaggio urbano, paesaggio straordinariamente umano, ogni volta nuovo, ogni volta rinnovato, da ritrarre, rianalizzare, ripensare, ristudiare senza interruzione. Via San Leonardo fu per Rosai ciò che la Montagna Sainte Victoire era stata per Cézanne. Le sue vedute accompagnarono questi anni come un leit-motiv. Proseguirono nel dopoguerra, nel cosiddetto periodo bianco, in cui lo stile di Rosai si fece sempre più scarno, disadorno, e le tonalità sempre più chiare. "Uomo e paesaggio" è ancora Parronchi a scrivere "non sono in Rosai termini contrastanti, ché anzi tanta acredine dell'uomo non si capirebbe, non si ambienterebbe, se non nella dolcezza dei colori della natura. Come si fa a scinderli, a separarli?"

Come ho raccontato in questo post, Sergio Scatizzi fece in tempo a vedere realizzata la grande esposizione a lui dedicata nella Galleria d'Arte Moderna di Firenze nel novembre 2009, per spegnersi pochi giorni dopo. A Ottone Rosai andò peggio, purtroppo. Era malato di cuore a partire dal 1954. Nel 1957 si trovava a Ivrea per l'allestimento di una sua prestigiosa personale presso il Centro Culturale Olivetti. Un infarto lo fulminò il 13 maggio, il giorno prima dell'inaugurazione.

Via San Leonardo, 1954 ca.
Vorrei concludere queste brevi note - su un Artista del genere le note sono sempre troppo brevi: non ho parlato dei disegni, dei nudi, degli autoritratti... - con uno scritto dello stesso Rosai, risalente a prima del suo trasferimento in via San Leonardo, quando aveva posto il suo studio nell'ex casotto del dazio di via Villamagna all'Anconella. Il 30 aprile 1932 scrisse a Berto Ricci:

Relegato in questo casotto che tu conosci, al limite della città, mi par d'essere un naufrago miracolosamente scampato alla morte costretto a sopravvivere i giorni necessari all'autoconsumazione. E giorni lunghi, eterni son questi quanto gli attimi di un torturato. Misurerò palmo palmo l'infinita immensità del cielo, conterò tutti i fiori innocenti della terra, rivedrò a uno a uno i miei e l'altrui peccati e finalmente esaudito un mio costante desiderio avrò trovato Dio.

Anconella, 1933








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