venerdì 28 settembre 2018

Una strada che sale, anelante, al cielo


Al paese di Monte Ripaldi accompagna una strada che ha per nome Via Suor Maria Celeste. È una strada che sale, anelante al cielo, una scia di profumo che vuol portarsi a Dio.

Così inizia Monte Ripaldi, secondo racconto della raccolta Via Toscanella, scritta da Ottone Rosai nel 1930. Veramente non è un racconto, è uno schizzo pittorico realizzato usando la penna anziché il pennello, ed è brevissimo. Una paginetta soltanto.
Queste poche parole mi avevano fatto ripromettere di andare in cerca della via e della mèta. A Monte Ripaldi c'ero già stato alcune volte in passato, ma di Via Suor Maria Celeste non avevo un ricordo preciso. Immaginavo fosse una delle tante stradine collinari che rendono i dintorni di Firenze unici al mondo. Non mi sbagliavo.

Suor Maria Celeste è il nome che assunse Virginia Galilei (1600-1634), figlia illegittima di Galileo, quando entrò nel convento delle Clarisse del vicino convento di San Matteo in Arcetri. Celeste. Anche lei, dunque, anelò al cielo, non meno del padre, anche se da un diverso punto di vista. Ma diverso forse fino a un certo punto. Adorava il babbo, lo rivela il nutrito carteggio epistolare con lui, giunto a noi purtroppo solo in un senso. Le risposte dello scienziato furono distrutte quand'egli ancora non era visto molto bene dalle autorità religiose. Solo nel 1737 si scoprì che padre e figlia erano stati sepolti assieme nello stesso feretro. Altri particolari sulla religiosa li trovate in questo articolo di Luciano Canova.



Lunga e tortuosa, Via Suor Maria Celeste si diparte dal Largo Enrico Fermi, presso il Poggio Imperiale, e, non limitandosi a condurre verso Monte Ripaldi ma anzi dipanandosi e anche sdoppiandosi più volte, finisce per sboccare in Via Gherardo Silvani, non distante dalla Propositura di San Felice a Ema. Io ne ho percorso solo una parte, per raggiungere appunto Monte Ripaldi. Dopo il tratto di Via San Leonardo opposto a quello che conduce al Forte Belvedere, con la bicicletta a mano perché è contromano e, contrariamente a quanto credevo, è trafficatissimo, mi sono letteralmente tuffato nella via anelante al cielo.

Per un ciclista con un minimo di allenamento, Via Suor Maria Celeste è - e ci risiamo - il Paradiso, perché ad ogni salita segue subito una discesa. Dopo il traffico di Via San Leonardo, qui domina il silenzio. Macchine rarissime, passanti ancora di più. Rosai scriveva:

Nei muri, negli alberi e nelle rade case che la costeggiano c'è impressa la fede e i pochi viandanti che passano hanno qualcosa di differente a tutti i viandanti di tutte le strade. Il loro passo è mite, lo sguardo dolce, il loro incedere: di gente tranquilla, serena, vicina agli spazi celesti. 

Io però ho incrociato solo due ragazze che, parlando tra loro fittofitto in americano, hanno proseguito il loro camminare abbastanza frettoloso dopo avermi guardato incuriosite e forse chiedendosi perché scattavo foto.

Coltivazioni. Soprattutto olivi. Muretti che sanno forse meno di Ottone Rosai che di Telemaco Signorini. Una villa chiamata Torre al Pino. Altre ville in lontananza. Boscaglia. Sulla destra della strada vi sono frequenti leggeri slarghi, che permettono alle macchine di sfilarsi, e ai passanti - se ci sono - di affacciarsi sulla valle dell'Ema. La quale compare in lontananza, quasi evanescente. Ha un che  di onirico.  Sarà la forza di suggestione, ma il colore che davvero rimane nella memoria percorrendo questa via è l'azzurro. Il Celeste. Gli olivi, onnipresenti alla vista, fanno quasi da tramite col verde del resto della vegetazione e, dal verde, dissolvono nell'azzurro..

Via Suor Maria Celeste prosegue a destra. Un gruppo di studenti e studentesse usciti da un portone quasi al bivio ci si avvia chiacchierando. Anche loro parlano americano. Io, dovendo raggiungere Monte Ripaldi, svolto in Via S. Matteo in Arcetri. Le sensazioni non cambiano. Non c'è da sorprendersi: per un buon tratto corre parallela a Via Suor Maria Celeste, a una quota più bassa. Si raggiunge la chiesa che dà il nome alla via. È chiusa. Da dentro si sente una musica d'organo. Il cartello I luoghi della fede ci informa che, dopo essere stato monastero femminile prima delle Agostiniane poi delle Clarisse, dal 1897 è passato ai Carmelitani Scalzi, e che l'attuale costruzione è recente. Poche centinaia di metri più avanti, al trivio di Via S. Matteo con Via del Pian dei Giullari e il Viuzzo di Monte Ripaldi, su una lapide senza data, leggeremo un proclama degli implacabili e Spetabili Otto di Guardia e di Balìa, che proibisce nel modo più assoluto di giocare a gioco di carte di palla palloncino di ruzzola et a qualunque altro simile gioco entro un raggio di duecento braccia dal convento.


Il silenzio quasi surreale che continua a dominare Via S. Matteo viene festosamente sbaragliato dal vocio di bambini proveniente dall'interno della Scuola Galilei - Istituto comprensivo Galluzzo. All'ingresso è rimasta la lapide con su scritto un rassicurante - per un anziano! - Scuola Elementare - maschile e femminile - Galileo Galilei. Siamo proprio all'angolo con Via S. Michele a Monte Ripaldi. Nuovo saliscendi, mentre le voci si affievoliscono rapidamente. Bivio con una strada senza uscita, annunciata da relativo cartello. Discesa. E mi trovo nella piazzetta di Monte Ripaldi, dominata sulla sinistra dalla bassa facciata della chiesa di S. Michele e dall'alto campanile neogotico. Pochi metri più in là, la via termina con la cancellata della Villa La Piccioncina. In un portone di fronte la chiesa entra un signore che aveva appena parcheggiato la sua auto e mi aveva gioiosamente salutato in francese. Sarà frutto del caso, ma in questa mia pedalata - passeggiata non ho incontrato un solo viandante italiano. 

Ci si sente irrazionalmente al sicuro, qui. Si ha come l'impressione che in questo luogo raccolto eppure prospiciente spazi aperti vastissimi nulla possa farci del male. La chiesa, antica ma modificata nel '700, è chiusa. Nel 1548 ne fu rettore il mugellano Monsignor Giovanni Della Casa. Sì, quello che scrisse il Galateo. Sulla bacheca, annunci dei prossimi festeggiamenti in onore del titolare. Il campanile è davvero bello e svetta sulla piazzetta in grande armonia ed equilibrio con la chiesa, la canonica e le altre case. Uno lì per lì s'immagina sia una costruzione antica che da secoli veglia rassicurante sulla piazzetta, e ci rimane quasi male a leggere che è stato costruito solo nel 1871, da un tale ingegner Adolfo Mariani.
Dall'altra parte, tra cipressi, un basso parapetto. Al di là, la valle dell'Ema. Per essere straordinaria, lo è. Eppure, come mai mi accorgo di non esserne così entusiasta come mi aspettavo?

Ero stato qui in un giorno di pausa dagli studi per la maturità (1979!) col mio compagno di liceo Gianni. Lo avevo fotografato seduto sul muretto. Entrambi eravamo rimasti incantati da quanto avevamo visto. Sono riuscito poi a ritrovare la foto. Scattata male e stampata peggio, rivela però, a differenza di adesso, l'ampio e disteso aprirsi di un panorama mozzafiato. Oggi, un folto e fastidioso cespugliame in primo piano ostruisce in gran parte la visione magica della valle, che si perde in lontananza. In questa lontananza, tra gli ondulamenti del terreno, i villaggi, le case sparse, le ville, spicca la Certosa. Ma ecco perché, affacciandomi, la mia ammirazione era disturbata da una perplessità che non sapevo spiegarmi, non ricordando bene.


Purtroppo una nota amara conclude dunque la relazione di questa pedalata, che costituisce il post numero 100 del mio blog. Mentre Ottone Rosai chiudeva così: 

Da i muri sgorgano fiori di ogni razza inondando il paese di delicati profumi.
Gli abitanti irreali, il cielo immenso, tutto fatto per lui. 
Tutto è nuovo, giovanile, in questo paese incantato. L'erba sempre verde è un continuo sbocciare di fiori. 
Il sole vi sosta delicato carezzando dolcemente le cose. 
Monte Ripaldi, dal giorno che ti ho scoperto ho trovato Dio. 

giovedì 20 settembre 2018

Incunaboli fiorentini


La stamperia del convento di S. Jacopo a Ripoli, in via della Scala a Firenze, durò solo dal 1476 al 1485, ma ebbe il merito indiscusso di portare a Firenze, diremmo oggi su scala industriale, l'invenzione di Johannes Gutenberg.

La fatidica Bibbia a 42 linee (foto d'apertura, da Rai Storia), oggi visibile on line per esempio qui, uscì il 23 febbraio 1455 e fu, più che un punto di svolta, il punto di svolta per la cultura universale. "Ci sono voluti tre anni per completare la stampa di 180 copie della Bibbia. Il tempo che un amanuense avrebbe impiegato per portarne a termine una", si legge su questa bella pagina in cui, con grande abilità di sintesi, sono spiegati i precedenti e le conseguenze di questa data. E si aggiunge: "La nuova tecnica si diffonderà in poco tempo in tutta Europa: in 50 anni verranno stampati 30.000 titoli diversi per una tiratura complessiva superiore ai 12 milioni di copie. I libri stampati fino al 1500 verranno in seguito chiamati “incunaboli”.

Cesare Cantù, nella sua Storia della letteratura italiana (Firenze 1865), premette:

Pare condizione vitale della società che le scoperte vengano appunto quand'essa ne ha bisogno per ispingersi con nuovo slancio. Allora dunque che l'amore per la letteratura classica volgeva a cercar con passione e riprodurre gli esemplari, e che le grandi controversie dei re e della Chiesa faceano moltiplicare scritture, comparve l'arte più efficace fra le moderne, la stampa. 

E più avanti:

Presto quell'arte giunse in Italia, e del 1465 abbiamo l'edizione di Lattanzio a Subiaco per Corrado Schweinheim e Arnoldo Pannatz, coll'assistenza di Giovanni Andrea Bussi di Vigevano, poi vescovo d'Aleria: ma dicesi preceduta da un Donato. In Roma al 70 eran uscite almeno ventitré stampe di antichi. (...) Fino al 1500 s'erano stampate a Parigi settecencinquantun'opere; in Italia quattromila novecentottantasette, di cui a Firenze trecento, a Bologna dugennovantotto, a Milano secenventinove, a Roma novecenventicinque, a Venezia duemila ottocentrentacinque; e altre cinquanta città aveano stamperie. Anche borgate vollero averne, come Sant'Orso presso Schio, Polliano nel Veronese, Pieve di Sacco nel Padovano, Nonantola e Scandiano nel Modenese, Ripoli presso Firenze.

L'ex Convento di S. Jacopo a Ripoli, via della Scala, Firenze

Peccato che, proprio in fondo, Cantù faccia uno scivolone, ritenendo evidentemente che la stamperia di S. Jacopo a Ripoli fosse sorta per l'appunto a Ripoli, sulla Aretina, alla periferia est di Firenze. Mentre, come abbiamo visto, si trovava ben entro le mura cittadine, in via della Scala. Aveva mantenuto il nome di quello che è considerato il più antico monastero domenicano femminile in Toscana. All'inizio del 1200 un mercante dal nome scioglilingua, Diomicitidiede di Buonagiunta del Mercatante, edificò a Ripoli e intitolò a S. Jacopo un romitorio che ospitò nel 1221 i primi frati domenicani, in seguito dei padri francescani e, dopo il trasferimento di questi ultimi in città, fu promosso monastero di monache verso il 1229 (secondo certe fonti il 1250). La distanza da Firenze, l'isolamento del posto e probabilmente i disaccordi tra le occupanti, portarono a un trasferimento entro le mura. Le monache trovarono inizialmente ospitalità in casa dei Cerchi, dopodiché una parte di esse andò nel convento di S. Domenico del Maglio, mentre l'altra si stabilì in via della Scala. Si era intorno al 1300.

Le monache del Convento non tardarono ad acquisire la fama di abili miniaturiste. Un esempio citato da Fineschi (che reincontreremo tra breve) è il manoscritto de Lo Specchio di Croce, opera di Frate Domenico Cavalca (1270-1342), copiato e miniato da Suor Angelica monaca di Ripoli in data 1460. Nel 1474 Frate Domenico da Pistoia e Frate Piero di Salvatore da Pisa furono assegnati al Monastero in quanto provveditori. Avendo appreso, non si è riusciti a sapere dove e quando, l'arte della stampa, installarono in una stanza attigua ai locali del Monastero una tipografia, che iniziò l'attività nel 1477.

La produzione della stamperia Apud Sanctum Jacobum de Ripoli venne completamente dimenticata per trecento anni. Ciò è in parte spiegato - ma non giustificato - dal fatto che il primo testo a stampa prodotto a Firenze fu opera di Domenico Cennini (1415-1498), orafo. Questi, nel 1472, con notevole dispendio di energie fisiche ed economiche, produsse insieme con il figlio Piero i Commentaria in Vergilium di Mauro Servio Onorato. Rimase la sua sola opera stampata, ma il primato oscurò l'attività di gran lunga più intensa della stamperia di Ripoli. Nel 1722 Padre Pellegrino Orlandi scrisse Origine e progressi della stampa o sia dell'arte impressoria e notizie dell'opere stampate dall'anno 1457 sino all'anno 1500. Giunto a parlare di Fiorenza, dopo un ponderoso omaggio a Cennini, nominò sì i Frati Domenico e Pietro, ma citando quattro sole pubblicazioni della stamperia di Ripoli, "le quali non poco mi hanno incomodato nel ricercare qual luogo egli sia, e quali fussero gl'impressori vicino ad esso". Domenico Maria Manni, nel 1761, tenne una conferenza Della prima promulgazione de' libri in Firenze, in cui lodò Cennini e non fece alcun cenno alla stamperia di Ripoli. Non vi fece alcun cenno neanche il Richa, parlando del convento di S. Jacopo a Ripoli nelle Notizie istoriche delle chiese fiorentine (1756).

Nel 1781, Padre Vincenzio Fineschi, archivista di Santa Maria Novella, dette alle stampe le sue Notizie storiche sopra la stamperia di Ripoli. Aveva ritrovato quasi per caso un libriccino di  130 pagine: il libro delle spese della stamperia. Da qui poté ricostruirne la storia. 

I quattro titoli citati dall'Orlandi erano la Vita di S. Caterina, l'Etica di Aristotele commentata da Donato Acciaioli, gli Argonauti di Valerio Flacco e il Libro degli Imperatori e Pontefici di Francesco Petrarca. Ma nell'arco di meno di dieci anni, Apud Sanctorum Jacobum de Ripoli, di titoli, dal 1476 al 1483 ne pubblicò almeno dieci volte tanto: Fineschi ne elenca quaranta. A cui vanno aggiunte "le Immagini principalmente quelle della Madonna del Rosario e di S. Margherita Verg. e Mart." che si tiravano a impronta di legno. Scrive Fineschi:

La prima Partita è sotto il dì 14 di Novembre dell'anno 1476. dalla quale si raccoglie il primo libretto ivi stampato, e che già era principiata la Stamperia da qualche mese; perché nel suddetto giorno furono portate a vendersi alla Bottega di Domenico Cartolaio numero 400 Grammatiche di Donato; lo che è stato ignorato fin qui da tutti gli storici.

Frate Domenico e Frate Pietro costituirono società con esperti tipografi, sopratutto tedeschi, per gli aggiornamenti e i miglioramenti della produzione. 
Un erudito dei nostri giorni, il Dr. Paolo Piccardi, scrive:

Historia d'Alexandro Magno, con
iniziali miniate
La stamperia era dotata di vari reparti, che si occupavano, rispettivamente, di tutte le fasi di composizione dei libri, compresa la fusione dei caratteri da stampa, che avveniva nella cosiddetta “getteria”, dove lavorò anche l’orafo Benvenuto di Chimenti, per il quale esistono mandati di pagamento per un totale di 110 lire, per la composizione di tre alfabeti, due di carattere antico e l’altro moderno. Per la “getteria” venivano acquistati vari metalli, fra i quali il rame, che serviva per fare le “madri” delle lettere, ossia quei piccoli pezzi, nell’estremità dei quali vi è un’ intaccatura, per fare i segni di punteggiatura e di abbreviazione. Poiché la scultura del rame richiedeva punzoni di acciaio, anche di questo metallo troviamo registrazioni di acquisti, così come di piombo, di stagno, e di “marcassita”, un additivo della lega, che veniva acquistato presso la Spezieria di S. Marco. Venne acquistata una tavola di marmo, che serviva per tenere in squadra i caratteri come uscivano dalla fusione, per essere rinettati accuratamente. Si compravano anche strumenti di lavoro, fra i quali un trapano “fatto a guisa di succhiello”, e una “gallinella”, che serviva per tenere fermo il punzone durante il lavoro. C’è l’acquisto, ovviamente, del “fornello” per la fusione e la “Tafaria”, ossia un vaso di legno dove venivano riposte le lettere.

Si servivano, per l'acquisto della carta, dei cartolai che all'epoca erano concentrati in particolare nella Via del Garbo, l'attuale Via Condotta, probabilmente nel tratto da Via Calzaioli a Via dei Magazzini. Prosegue Piccardi:

(...) La carta più comunemente usata era quella del Colle, che veniva pagata lire 2.6 la risma. La carta di Prato costava lire 2.10. La carta di Fabriano (la migliore era quella col segno del Balestro) era venduta da Andrea cartolaio e costava 3 lire. C’era poi la carta all’uso Bolognese, di due tipi, uno di qualità inferiore che costava lire 3.10 e l’altro, di qualità superiore, che costava lire 6.8 la risma.

Gli Argonauti di Valerio Flacco: incipit

Alla cura nella produzione del prodotto corrispose altrettanta cura nella promozione, grazie alla quale si avviò una vera rete di distribuzione, costituita da eruditi e religiosi, entusiasti dell'opera compiuta dai frati e si suppone per nulla restii a fare da spedizionieri. Da un tale Antonio de' Nerli che andava a vendere i libri fuori Firenze, a "i Monaci della Badia Fiorentina, i Monaci degli Angioli, i Monaci di S. Salvi, i Frati di S. Bernardo, il Priore dello Spedale della Scala, e altri, che erano interessati ad estendere questo commercio virtuoso", un po' tutti divennero clienti e a loro volta distributori.
La citata Vita di S. Caterina da Siena, di Fra Raimondo da Capua, uscita già all'inizio del 1477, fu probabilmente il best seller. Costava una copia 2 lire e 10 soldi, ed esisteva la versione con le iniziali miniate manualmente da maestri miniatori, a 3 lire. I guadagni della tipografia consentirono l'acquisto di nuovi locali adiacenti al convento e di un mulino presso Brozzi. 
Frate Pietro morì nel settembre 1479. L'attività della stamperia proseguì condotta da Frate Domenico insieme con il tipografo Lorenzo Veneziano. Il libretto in mano del Fineschi termina nel 1483. Frate Domenico morì nel 1489.

Gli Argonauti: colophon
Ancora oggi si può rimanere sbalorditi, nel leggere i titoli delle opere prodotte dalla stamperia Apud Sanctum Jacobum de Ripoli. Dalla tipografia di un convento ci si aspetterebbe - ingenuamente - una produzione esclusiva, o almeno una prevalenza assoluta di opere sacre. Le opere sacre c'erano, ma accanto ad esse ne figuravano altre come il Morgante di Luigi Pulci, alla cui stampa contribuì e ne fu retribuita tale Suor Marietta del Convento. Come un Computo della Luna. E poi le Regole grammaticali di Giovanni Battista Guerrino, che ebbero una ristampa (fate caso all'attenzione dei produttori per l'argomento grammatica!). La Historia d'Alexandro Magno di Quinto Curzio Rufo tradotta da P. Candido. Abbiamo già visto l'Etica di Aristotele tradotta da Donato Acciaioli. Il Libro delle Selve di Stazio Papinio, tradotto da Ser Bartolommeo Della Fonte (Fonzio), umanista che pubblicò sempre per Ripoli (1477) l'Explanatio in Persium Poetam, con dedica a Lorenzo de' Medici, e lavorò anche in stamperia come correttore di bozze.
Francesco di Niccolò Berlinghieri e Filippo di Bartolommeo Valori, discepoli di Marsilio Ficino, "desiderando di rendersi grati al suo Maestro" scrive Fineschi, "il quale aveva tradotto l'Opere di Platone convennero con F. Domenico nostro, e Lorenzo Veneziano, perché nella Stamperia di Ripoli si stampassero più Dialoghi di Platone in numero di mille venticinque esemplari".
Una copia tradotta in latino del De regimine sanitatis ad soldanum babyloniae di Maimonides (Moses Ben Maimon) (1135-1204) è andata aggiudicata nel 2015 da Sotheby's per 25.000 dollari. Ma è leggibile on line, anche se certo non è la stessa cosa, quella conservata alla Nazionale, a questo indirizzo. Tra i testi non citati dal Fineschi, ho rintracciato un Decamerone, datato 13 maggio 1483, e La morte degli uomini famosi - Nessun si puote felice chiamare (agosto 1484).
Altri esemplari originali sono consultabili on line e per lo più scaricabili. Leggere questi incunaboli è come pilotare un'auto del 1902 o pedalare una bicicletta del 1850. Difficile e faticoso. Per forza. Eravamo ai primordi. Caratteri tutti uguali, pochi capoversi, italiano - se italiano - dell'epoca. Ma ammettiamolo: hanno un fascino esagerato.
Il ruolo della stamperia Apud Sanctum Jacobum de Ripoli nel progresso della cultura e del sapere ci si immagina all'epoca fenomenale. Nonostante il periodo di oblio cui ho accennato, della sua certo immensa eredità ancora oggi ne giunge forse qualche traccia a tutti noi. Tutti noi che amiamo i libri quasi con furore e cerchiamo disperatamente e quotidianamente di essere meno ignoranti. O, volgendo il concetto in positivo, di sapere oggi sempre qualcosina di più rispetto a ieri. Frate Domenico da Pistoia e Frate Piero di Salvatore da Pisa meritano la nostra più profonda e sincera gratitudine.















sabato 8 settembre 2018

Su questo ponte passò Annibale (mah, forse, dice)


Nonostante alle elementari i sussidiari ci avessero inculcato tanto odio e disprezzo per il bieco e sanguinario cartaginese Annibale, acerrimo nemico di quella Roma i cui generali spesso non erano da meno, la toponomastica a lui dedicata supera ogni immaginazione. Proviamo a cercare su Google "ponte d'annibale", virgolettato. Troviamo nella prima pagina notizie di quattro ponti con questo nome: quello sulla Sieve a Sagginale presso Borgo S. Lorenzo, favorito per avere anche una via ad esso intitolata; il ponte sull'Arno a Bruscheto tra Reggello e Incisa val d'Arno; il ponte tra Rapallo e Santa Margherita Ligure; a sud, il ponte a Ricigliano, in provincia di Salerno ma quasi al confine con la Basilicata. 

Il ponte d'Annibale a Bruscheto. Sandro Fabrizi ne parla qui
Esistono poi non distanti da quest'ultimo almeno altri due ponti d'Annibale: uno sul Titerno a Cerreto Sannita (Benevento); l'altro che incredibilmente, nonostante l'antichità, il terremoto del 1980 non riuscì ad abbattere, è posto sul fiume Melandro che scorre tra le province di Potenza e Salerno.
Siamo già a sei ponti intitolati al condottiero cartaginese, e sempre con la motivazione che secondo un'antica tradizione vi transitò Annibale. Di sicuro ce ne sono altri, ma fermiamoci pure qui, e anzi restiamo nella zona appenninica.

Il ponte d'Annibale su Titerno a Cerreto Sannita

In un reportage storico dedicato appunto ad Annibale (poi divenuto un libro intitolato appunto 'Annibale', Feltrinelli 2008), il giornalista Paolo Rumiz stila un breve e certo anch'esso non esaustivo elenco di siti relativo al centro nord: 

Casteggio: fontana di Annibale. Modigliana: pozzo di Annibale. Due ponti d'Annibale sull'Arno e due sulla Sieve. Un canto d'Annibale nel Mugello. Un monte Annibolina verso le spiagge di Rimini. Una singolar, popolarissima tenzone medioevale a Faenza, chiamata 'palio del Niballo'. Pievepelago passa ogni limite: passo di Annibale, ponte d'Annibale, via d'Annibale, campi d'Annibale. Poi un paese di nome Magona (da Magone, si dice, il fratello minore di Annibale), una frazione di nome Tàrtago e un'altra di nome Zerba, fantasticamente attribuite a Cartago e Djerba dai valligiani piacentini.
Pazzesco. Nella sua Blitzkrieg [guerra lampo] il Nostro ha attraversato Emiia e Toscana quasi di corsa, eppure il suo nome è ovunque. Perché? (...) Come sulle Alpi, dove almeno venti passi si contendono la palma dell'attraversamento, anche in Appennino tutti vorrebbero far passare il Cartaginese da casa loro. Ma mentre sulle Alpi la memoria si sorregge anche su dibattiti accademici, qui essa affonda soprattutto nell'immaginario - nel subconscio quasi - della nazione. Entra nella carne del paese, diventa leggenda.  

Il ponte d'Annibale sul Melandro

Annibale come Garibaldi, insomma: un suo passaggio e magari una bella lapide commemorativa non si nega a nessuna località. Tanto, se non si può dimostrare con certezza che c'era stato, come si fa a smentire con certezza che non c'era stato?

Il ponte di Sagginale, tra Vicchio e Borgo San Lorenzo (foto d'apertura), colpisce l'immaginazione, data la sua architettura forse esagerata rispetto al corso d'acqua che permette di superare. Pur essendo piuttosto stretto - in definitiva a una sola corsia -, poggia su ben sei ampie arcate. Giorgio Batini, nel suo bel libro Toscana fuoristrada (Bonechi 1969), afferma: "risulta dai documenti che il ponte fu ricostruito in pietra nel 1331, con il concorso della gente di vari paesi, sopra le pile di un ponte romano.", confermando quanto scritto da Brocchi (1748): "fabbricato sopra le pile del Ponte antico, il quale dicono, che vi fosse fino (d)a tempo de' Romani". Ciò renderebbe per lo meno plausibile una tradizione secondo la quale il condottiero in persona fece costruire il ponte; o più semplicemente sfruttò il ponte già esistente, per attraversare la Sieve con il suo esercito (40.000 soldati, più cavalli, carriaggi ecc.). In realtà si tratta di una tradizione impossibile sia da dimostrare, sia da smentire. Certo, il viadotto sagginalese è ben più corposo e robusto rispetto agli altri 'ponti d'Annibale' - alcuni di essi poco più che passerelle, per quanto suggestive -, e ci s'immagina istintivamente che avrebbe sopportato un transito così abnorme. Il problema è che non si saprà mai con precisione il tragitto che Annibale compì dopo varcate le Alpi e prima di giungere al Trasimeno, dove nel 217 a.C. vinse una delle battaglie cruciali della Seconda Guerra Punica. I testi storici di riferimento (Tito Livio e Polibio) sono stati interpretati in vari modi dagli studiosi, senza giungere a una conclusione certa. Le conseguenze ce le dice ancora Rumiz: 

Non c'è una delle valli da Piacenza a Cesena che non rivendichi il blasone del transito illustre. (…) Giogo della Scarperia! Ma no, non esiste, il posto giusto è il Sasso di San Zenobio. La Futa! Fu sicuramente la Futa! Macché Futa, a quei tempi la strada migliore per l'Arno era il valico di Porta Collina, poco oltre Porretta. Niente affatto, giurano alcuni: la strada è Forlì, Meldola, passo del Muraglione. No, no e poi no, giurano altri, Lui è passato per Castel dell'Alpi. Oppure in Val Lamone.

Il tabernacolo al centro del ponte d'Annibale a Saggnale


Ad ogni modo, secondo Emanuele Repetti (1846) "non lascia più dubbio [eh, magari] il passaggio d'Annibale per il toscano Appennino, escluso quello del Lucchese e della Lunigiana (…) dopo tutto ciò devesi convenire, che tale traversa non poté aver luogo altrove fuori che per la montagna di Pistoja o per l'Appennino del Mugello". Chini, nella sua Storia antica e moderna del Mugello (1875), formula l'ipotesi più precisa di un passaggio "dalla valle del Santerno ascendendo l'Appennino e calando co' suoi feroci affricani in mezzo alla val di Sieve. Piegando quindi a levante e prendendo la via che ora dal Borgo S. Lorenzo conduce a Vicchio (…)". Non si sono tuttavia trovati - tanto per cambiare - riscontri sicuri a questa tesi. Né alle altre. Nondimeno, Chini prosegue: "Che Annibale passasse di Mugello è anche costante tradizione popolare", ma il ponte di Sagginale, da lui come dagli altri storici, non viene nominato. Cita invece un non meglio precisato 'Canto d'Annibale' - quello citato anche da Rumiz - di cui però oggi non è rimasta memoria. Il ponte di Sagginale, nei secoli, ha assistito certamente a parecchi eventi storici oltre che naturali. Può darsi che chissà, in antico, una quantità di individui guidati da un africano lo abbiano superato.

Di sicuro altri individui, oltre settant'anni fa, riuscirono per la prima volta, in parte, a distruggerlo. Venne subito ricostruito. La lapide sotto al tabernacolo posto al centro del ponte è datata 8 settembre 1947. La (ri)costruzione di un ponte è sempre qualcosa che induce alla speranza e oggi, qualunque sia il suo passato, il ponte d'Annibale collega ancora le due sponde della Sieve, tra Borgo San Lorenzo e Vicchio.
La collocazione di un tabernacolo su un ponte è peraltro retaggio di una usanza fatta risalire al medioevo, quando - ce lo ricorda la mia amica Beatrice Pucci nel suo prezioso Le romite del Ponte alle Grazie - "Le cappelle costruite sugli attraversamenti fluviali in onore della Madonna e dei Santi Patroni garantivano l'intervento divino che neutralizzava il pericolo delle acque sottostanti". Pericolo che in tempi recenti si è manifestato almeno due volte, nel marzo 2013 e nel febbraio 2017, quando la Sieve si ingrossò in modo preoccupante, lambì le arcate e costrinse alla chiusura al traffico del ponte. Ma in entrambi i casi la minaccia rientrò senza danni rilevanti. Non fu così nel febbraio 2014, quando la Sieve esondò. Il campo sportivo finì sotto 70 centimetri d'acqua. La piazza di Sagginale, giardini e orti, scantinati, alcune case, furono allagati.

La lapide sul tabernacolo (8 settembre 1947)

giovedì 30 agosto 2018

L'altro Campana


La mia amica Mitì Vigliero, nel suo Stupidario della maturità (Rizzoli 1991), scrive che, secondo un anonimo maturando, Dino Campana "era molto malato di nervi, diciamo pure che era completamente matto e per questo amava moltissimo Genova." Mitì chiosa: "Frase questa da inviare alla Agenzia di Soggiorno locale come slogan". 

Mettiamo da parte il capoluogo ligure che, mentre scrivo, sta pure vivendo un momento particolarmente difficile. La prodezza del candidato è comunque significativa: ecco in che considerazione è tenuto il poeta marradese, da parte non solo degli studenti, ma anche, diciamo così, del grande pubblico. La sua malattia mentale è vista come inscindibile dalla sua produzione letteraria, il che può anche in parte essere vero. Solo che si tende a scivolare inevitabilmente nei cliché: del poeta maledetto, della sua scrittura per la quale l'aggettivo visionaria pare quasi imposto per legge; dell'artista emarginato, dell'artista incompreso, e via elencando. A parte i luoghi comuni, il rischio continua ad essere quello di liquidarne così la figura. Era pazzo, sicché scriveva delirando, ed ecco perché tante sue liriche, prose o poesie che fossero, ci risultano così difficili da interpretare. Ottima scusante per farne a meno, e sia detto non solo riferito ai maturandi.

Esiste invece su Dino Campana una testimonianza illuminante. Anche se non si può definire esattamente inedita. Si tratta dei Ricordi di vita artistica e letteraria di Ardengo Soffici, la cui prima edizione si deve a Vallecchi e risale al 1931, quando Campana era ancora vivo, anche se ormai da anni vegetava nel manicomio di Castel Pulci. Vi è un lungo capitolo intitolato Dino Campana a Firenze, in cui Soffici racconta il primo incontro con il poeta, chiarisce in parte alcuni aspetti della vicenda relativa allo smarrimento del primo manoscritto dei Canti Orfici, e soprattutto - direi - getta su Campana una luce a ripensarci del tutto comprensibile, eppure che suona come inattesa.

Campana nel 1930
Per quanto riguarda i Canti, i fatti sarebbero noti (poi capirete perché uso il condizionale) e si possono così riassumere: Campana, nel 1913, consegna a Soffici e Papini, nella redazione di Lacerba, il manoscritto in copia unica allora intitolato Il più lungo giorno, che poi andrà smarrito. L'autore lo riscriverà a memoria e l'anno seguente lo pubblicherà a sue spese, e se ne andrà in giro a venderlo di persona.
Soffici, tuttavia, spiega che, dopo consegnato l'originale, Campana si era reso irreperibile. Alla fine del 1913 lo rividero alla mostra futurista di via Cavour. Campana fece amicizia con tutto il gruppo futurista, e anche con "tutti i componenti di quel gruppo che allora frequentava le Giubbe rosse e il Paszkowski, caffè ch'egli pure cominciò a frequentare e che anzi divennero il principale teatro delle sue gesta fiorentine, poi diventate famose". Sennonché d'improvviso sparì di nuovo, e senza che nel frattempo avesse mai fatto cenno al suo manoscritto. Solo l'anno seguente scrisse a Soffici per riaverlo, ma quest'ultimo non riuscì a trovarlo e, alcuni mesi dopo, vedrà nella vetrina di un libraio di via de' Martelli la prima edizione a stampa dei Canti Orfici.
Almeno questo è ciò che narra Soffici. Primo Conti, nelle sue memorie, riporta il frammento di una lettera di Campana in cui è scritto, riferito alla celebre Serata futurista tenutasi al Teatro Verdi il 12 dicembre 1913, "...ed era il giorno che [i futuristi] facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire...". Commenta Conti: "Lui aveva le sue sacrosante ragioni per dire così, perché forse in quei giorni gli era nato il sospetto che uno dei protagonisti della Serata, Ardengo Soffici, avesse smarrito il manoscritto dei suoi Canti Orfici"
Secondo la ricostruzione di Gabriel Cacho Millet (1939-2016), forse il maggior studioso di Campana, questi affidò il manoscritto, con altri quaderni, a Papini appena giunto a Firenze nel 1913. Lo riebbe quasi subito indietro, ma glielo consegnò di nuovo proprio il giorno della Serata. Nel febbraio seguente Papini restituì a Campana i quaderni, ma non Il più lungo giorno, che in seguito Soffici smarrì. Sempre Cacho Millet demolisce un mito, affermando che in realtà Campana non riscrisse i Canti a memoria, ma doveva avere copie del manoscritto o per lo meno appunti su cui basarsi. Ulteriori particolari di questa vicenda piuttosto intricata li potete leggere qui.
Il manoscritto originale fu rinvenuto solo nel 1971 tra le carte di un Soffici ormai mancato da tempo. Oggi è visibile on line qui. Mario Luzi, in questo articolo, sottolineò - se ce ne fosse stato bisogno - l'importanza del ritrovamento, oltre al fatto che in realtà le differenze con l'edizione a stampa erano piuttosto numerose, laddove Soffici aveva scritto che questa "era la stessa di quella dello scartafaccio smarrito, appena ritoccata qua e là, e con soltanto un paio di componimenti aggiunti, fra cui i versi dedicati al mio quadro futurista dell'inverno passato".
Il quadro in questione, in un'epoca in cui il politically correct non esisteva, aveva avuto vari titoli: Compenetrazione di piani plastici, Dinamismo plasticoBallo dei pederasti, Tarantella dei pederasti. Fu distrutto dall'autore ma, nel 2007, dopo il ritrovamento della cornice originale, ne fu esposta la ricostruzione fotografica in grandezza naturale (2 x 2 m) in una mostra a Poggio a Caiano. Riporto, dal sito www.campanadino.it, l'immagine del dipinto (sotto), e i versi di Campana.


FANTASIA SU UN QUADRO DI ARDENGO SOFFICI


Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D'America: la rossa velocità
Di luci funambola che tanga
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfà:
Che guarda nel café chantant
D'America: 
Sul piano martellato tre 
Fiammelle rosse si sono accese da sé.


Ma la parte a mio parere più importante del racconto di Soffici è quella che riguarda Campana quando non era colto dalle sue crisi. Narra Soffici che, nel periodo della mostra futurista, lui e gli amici ebbero modo di conoscerlo meglio, e che

dalla sua conversazione trapelavano ogni momento conoscenze di paesi, di linguaggi, di usi e costumi alieni e remoti che nessuno di noi sapeva spiegarsi e che ci disorientavano. Si parlava di letteratura? e Campana citava nomi di poeti tedeschi, francesi, inglesi, spagnoli e brani delle loro opere nella lingua originale. Si trattava di nazioni e di popoli? e Campana mescolava al suo discorso frasi rivelatrici intorno all'Olanda, alla Francia, ai porti d'Inghilterra, alle pampe americane, come uno che avesse tali siti familiari. Di viaggi lontani e di avventure? ed egli faceva continue allusioni a pellegrinaggi qua e là per l'Europa, a navigazioni oceaniche, a casi allegri o tremendi occorsigli nel nord o nel sud del nuovo mondo. Riuscimmo piano piano a sapere che, cacciato dall'università per ribelle, e inviso alla polizia, il nostro poeta s'era dato sul fior degli anni all'ulissismo, e, lasciata, senza un soldo in tasca, la solatia Romagna e l'Italia, aveva errato un po' dappertutto, facendo l'operaio a Marsiglia, il rivoluzionario in via Mouffetard - che è come la suburra di Parigi - il servitore di stiva da Amburgo a Dover, da Liverpool a Montevideo, e il garzone e lo stalliere in più di una fazenda argentina.
Quanto al suo istituto mentale, esso si delineava pure via via ai nostri occhi; né era meno sorprendente. Le idee dei massimi pensatori antichi e moderni erano familiari a Campana, così i fatti delle storie dei vari popoli, i capolavori letterari del passato, mentre neanche le produzioni della modernità più moderna avevan segreti per lui. Tra una libazione e l'altra (era un bevitore validissimo) parlava di Nietzsche, citandone a memoria sentenze ed aforismi, approfondiva paradossi di Wilde e acutezze di Laforgue, tempestava o s'inteneriva (poiché c'era in lui dell'energumeno a un tempo e del bambino) intorno alle cupezze di Baudelaire o alle illuminazioni e alle vicende umane di Rimbaud, del quale poteva dirsi un fratello di vita e di spirito.

Da questa splendida prosa emergono anzitutto una ammirazione sincera e attonita da parte di Ardengo Soffici nei confronti del poeta, ammirazione che al primo incontro Campana non era riuscito, per certi versi non aveva voluto riscuotere; in secondo luogo la sua cultura. Cultura autodidatta (si era iscritto per errore a chimica e poi a chimica farmaceutica), cultura omnicomprensiva, senza dubbio disordinata, ma che si comprende vastissima e acquisita con una bramosia quasi paranoica di sapere, di apprendere, di conoscere, e ben si accorda con l'immagine più volte riportata da testimonianze dirette, di lui che camminava sempre con un libro o due sotto braccio. La sua opera, scrisse Mario Luzi nel 1980, "brucia allo stesso fuoco l'esperienza e la sua trasformazione e cioè i dati della sua storia e i simboli in cui sembra trasfigurarsi". Si può comprendere a questo punto come essa non fosse solo frutto della sua fantasia creativa, la stessa che poi avrebbe forse contribuito a quella pazzia di cui comunque già dai primi incontri Soffici e gli amici futuristi avevano avuto indizi inquietanti. Dietro, in realtà, c'era molto altro.

La V Ginnasio del liceo Torricelli, a.s. 1900-1901.
Il sedicente Campana è seduto, secondo da destra.
Nel documentarmi per scrivere questo post, ho scoperto che neanche l'immagine di Dino Campana ha avuto, per così dire, una vita tranquilla. Il volto del poeta è quello della foto d'apertura (1912) ma, a illustrare articoli su di lui (o trasmissioni: anche questa della Rai!),  compare molto più spesso la foto di un individuo che magari gli somigliava, ma si è rivelato essere certo Filippo Tramonti. Il quale con Campana ebbe in comune solo l'aver frequentato il medesimo liceo. Tutto ciò nasce non da una millanteria, ma da un equivoco quando nel 1957 fu ritrovata una foto di classe della V ginnasio del liceo faentino Torricelli, e si credette di riconoscere il poeta in uno degli studenti.

Filippo Tramonti
Il professor Stefano Drei, che insegnava nell'Istituto, partì dalla constatazione che nell'anno scolastico 1900-1901, a cui risale la foto, Campana frequentava la I liceo e non la V ginnasio, e volle avviare indagini minuziose. Ricostruì alla fine la vera identità del presunto Campana: si  chiamava appunto Filippo Tramonti, in seguito svolse l'attività di cancelliere, e Drei ne rinvenne la tomba al cimitero di Bologna. Sul sito del liceo Torricelli, in particolare su questa pagina troverete i dettagli dell'immagine, mentre, su questa pagina del sito dedicato a Dino Campana è una intervista a Drei, intervista che tra l'altro si conclude con questa affermazione:

Dopo la scoperta (chiamiamola così), mi ha telefonato Gabriel Cacho Millet. Si è congratulato, ma sembrava anche un po’ dispiaciuto: ora c’è un vuoto nella parete del suo studio, gli è toccato di staccare una foto che aveva avuto il valore di un’icona, di un’immagine mitica: «come il ritratto di Che Guevara per un giovane degli anni ’60». Aveva sperato fino all’ultimo che io avessi torto. Lo capisco. Delle poche foto conosciute di Campana era quella la più bella: nitidissima, in posa, a figura intera, fatta da un professionista. Aveva solo un difetto: non era lui.

Salvo errore, a parte quella citata e quella scattatagli nel 1930, l'unica altra fotografia esistente di Dino Campana è quella (sotto) che riprendo ancora dal sito del liceo Torricelli. Fu scattata nel gennaio 1912 (due anni dopo il pellegrinaggio in solitaria a La Verna che generò il prodigioso diario facente parte dei Canti), probabilmente sul Falterona. Il poeta è il secondo da sinistra.


Gabriel Cacho Millet, nel 2011, con la pubblicazione per Polistampa di Lettere di un povero diavolo, concluse e coronò il suo lunghissimo e meticoloso lavoro di raccolta e di riordino di tutto il carteggio epistolare di Dino Campana, e aggiunse:

Il poeta di Marradi, autore di un piccolo libro infinito, vi darà ancora molto filo da torcere. Non ho dubbi.






giovedì 23 agosto 2018

Ottone Rosai: urla di lupi al trono di Dio


La sera del 12 dicembre 1913, il diciottenne Ottone Rosai si trovava in un palco del Teatro Verdi a Firenze, per assistere alla Serata Futurista in compagnia di un ragazzino che, allo stesso scopo, aveva eluso la sorveglianza dei genitori ed era sgattaiolato scalzo fuori da casa. Il ragazzino - 13 anni - si chiamava Primo Conti, e in ottobre ricorrerà il trentennale della sua dipartita. Avremo modo di riparlarne.
I due ragazzi applaudivano a più non posso, ma non c'era versi di sentirli. Come non c'era versi di sentire quello che i Futuristi proclamavano imperterriti sul palco. Il pubblico, la maggioranza del quale si era presentato con fagotti e ceste piene di ortaggi e non solo, copriva ogni cosa con un frastuono d'inferno. Urlava, spernacchiava, fischiava, tirava di tutto. Tutto ciò era non solo previsto, ma sperato. Fu, per i Futuristi, un trionfo.
La Serata era stata preceduta dalla grande mostra di pittura futurista in via Cavour, che aveva mandato in tilt, ma soprattutto in bestia, tutta quell'intellighenzia fiorentina provinciale, reazionaria e attaccata come una mignatta al passato, glorioso quanto si vuole, ma usato come scusante per far restare Firenze una città mummificata.

Dinamismo Bar San Marco, 1914, coll. Guggenheim
In contemporanea, e sempre in via Cavour, Ottone Rosai aveva allestito la sua prima personale. Strinse così amicizia con Boccioni, Balla, Papini, Marinetti, Palazzeschi. E Soffici. "In una prima esposizione dei miei lavori che feci a Firenze nel 1913", scrisse lo stesso Rosai, "conobbi Ardengo Soffici. Un tale incontro fu addirittura una rivelazione, e tenendo cari molti suoi consigli, maturai e maturò il mio temperamento d'artista." Soffici divenne un po' il nume tutelare di Ottone, e tale rimase sempre, nonostante un momento di feroce rottura, poi superato. I suoi rapporti con i futuristi rimasero pure vivi e vivaci per tutta la sua esistenza. S'intende: alla fiorentina. Cioè con discussioni, leticate che non di rado degeneravano in scazzottate, rappacificazioni...  Ma, se i rapporti con i futuristi durarono, la sua adesione artistica al futurismo fu ben più effimera. Nondimeno, produsse opere come Dinamismo Bar San Marco e contributi importanti alla rivista Lacerba. Rosai, nel secolo delle Avanguardie, non avrebbe potuto far parte di un'avanguardia. Il suo era uno spirito individualistico. Non aveva sopportato, nel 1910, l'ambiente borghese e muffito dell'Accademia di Belle Arti cui si era iscritto, e due anni dopo fu espulso. Da autodidatta avido di conoscenze e da uomo del Rinascimento nato secondo alcuni nel secolo sbagliato, percorse una strada solitaria.
Il suo stile si precisò in anni difficili. Interventista convinto come tutti i suoi colleghi - ma allora era una mentalità completamente diversa -, si arruolò volontario. Combatté e fu decorato. Nel 1919 riuscì a sopravvivere alla spagnola. Nel 1920 espose a Palazzo Capponi ed ebbe delle belle recensioni da parte di Soffici e Giorgio De Chirico - che come tutti sanno non fu mai molto prodigo di elogi per chicchessia -, e realizzò opere come Serenata, Partita a briscola, Giramontino. Due anni dopo la sua vita fu stravolta dal suicidio del padre, oppresso dai debiti. In un convegno tenutosi a Palazzo Medici Riccardi nel 2008, l'attore e regista Riccardo Lestini lesse la cronaca dell'accaduto, drammatica e commovente, scritta dallo stesso Rosai.

Via Toscanella, 1922
Negli anni seguenti l'attività si ridusse di parecchio. Ma il 1922 fu anche l'anno della celebre Via Toscanella. Nel già citato convegno, Cristina Acidini vedeva in questo dipinto come negli altri dedicati alla medesima strada emergere le radici rosaiane che affondavano fino al primo Rinascimento, negli affreschi di Masolino e Masaccio della Cappella Brancacci, all'epoca di Rosai non ancora restaurati e quindi mostranti tonalità ben più cupe di quelle cui noi siamo oggi abituati. Tonalità e architetture che riecheggiavano nella fuga prospettica di questa via che "Come un ragazzo discolo si è intrufolata insieme a altri lazzaroncelli tra Via Maggio e Via Guicciardini riuscendo a tenere il primo posto, il posto di comando, al centro della zona".
Sono anche queste parole di Ottone Rosai. Come tutti gli uomini del Rinascimento, un unico mezzo espressivo e comunicativo non poteva essergli sufficiente, e scrisse molto e bene. Nel 1994, Editori Riuniti ripubblicò Via Toscanella [1930] e altri scritti, a cura di Alessandro Parronchi. Per dirla con quest'ultimo, Rosai era uno scrittore dilettante, ma uno scrittore. Fu eccellente nella non facile translitterazione del vernacolo fiorentino, bestemmie comprese. I suoi racconti sono non di rado fogli di un taccuino per schizzi, con le parole al posto dei disegni. Parole di una essenzialità che da un lato rende la lettura godibilissima ancora oggi, dall'altro non va a scapito di un afflato poetico degno in tutto e per tutto della sua opera pittorica, che restava comunque per Rosai la (pre)occupazione principale. Scrisse a Vasco Pratolini nel 1942: "Chi ti dà di poeta, chi di descrittore, chi dice una fregna e chi un'altra e nessuno vuol vedere la pittura, la vera pittura che c'è nelle mie cose".

Se in Via Toscanella ritroviamo l'eco delle architetture e dei palazzi di Masolino e Masaccio, questi stessi palazzi sembra di vederli citati testualmente dietro l'Uomo sulla panchina o i Suonatori ambulanti (sono i Lungarni), mentre nei Giocatori di toppa (foto d'apertura) fanno da quinta a un gruppo umano che pare raccogliere l'eredità di quello del Tributo masaccesco.

Uomo sulla panchina, 1930

Già. Suonatori, uomini su panchine, giardinieri, lattai, giocatori di toppa, avventori di osterie. Se Ottone Rosai fosse vissuto ai giorni nostri, nulla lo avrebbe salvato dall'insipienza di certa stampa che gli avrebbe appioppato l'atroce luogo comune di artista sempre dalla parte degli ultimi. Che ultimi non voleva fossero. Per questo mi dà noia anche il luogo comune cui a suo tempo non sfuggì e ancora oggi lo perseguita, quello degli omìni. Gli omìni di Rosai come le bottiglie di Morandi e i fiori di Scatizzi? Forse, ma per Rosai è decisamente riduttivo. Questi omìni sono protagonisti di opere che Ungaretti nel 1935 definì urla di lupi al trono di Dio. Molti anni dopo, era il 1983, Mario Luzi scrisse a proposito del prototipo rosaiano:

Goffo, sformato, declassato a omuncolo non poche volte, incupito da una sua fondamentale inadeguatezza (a che cosa?) o peggio immiserito dalla sua pochezza, offeso comunque, non è però mai privato della dignità del dolore e della colpa. La tormentata umanità di Rosai ha salvato questi relitti di un'epoca oppressiva, violenta, numeraria, nullificante dal diventare manichini, robot, numeri; ha potuto non profanare la loro creaturale individualità, ha lasciato ciascuno al suo misero o grande dramma. E questo fa sì che a queste vive e talora potenti immagini ci aggrappiamo quasi come a reliquie salutari e propiziatorie. Sembra infatti vogliano significarci che per quanto abietto e reietto l'uomo non può essere derubato della sua umanità.

Via San Leonardo, oggi
Rosai era stato entusiasticamente fascista, ma il fascismo non ricambiò affatto questo entusiasmo nei suoi confronti. I suoi personaggi non si trovavano certo in linea con il trionfalismo imperante (in senso letterale), e non era difficile gettare sull'autore sospetti di disfattismo. E all'epoca non c'era nulla di peggio. Secondo Nicola Coccia, giornalista de La Nazione, Rosai abbandonò il fascismo nel 1936 dopo la guerra civile spagnola. I suoi precedenti gli giocarono un brutto tiro: l'8 settembre 1943 fu aggredito da un gruppo di antifascisti in piazza Adua. Il che non lo fece tornare sui suoi passi. Sempre Coccia, al convegno del 2008, riportò una cronaca precisa e circostanziata di come l'artista durante la Resistenza rischiò la vita dando rifugio a Bruno Fanciullacci, prima nel suo studio di via San Leonardo, poi nel suo appartamento in via de' Benci. Nascose anche un altro partigiano, Enzo Faraoni, che l'anno precedente era stato suo assistente all'Accademia, e un militare tedesco passato alla Resistenza. 

Via San Leonardo, 1935
Terminata la guerra, Rosai riprese a lavorare nello studio dove si era sistemato a partire dal 1933, in quella via San Leonardo di cui divenne il cantore.  
Il trasferimento coincise con un periodo felice e produttivo della sua esistenza. Realizzò diverse personali tra cui una a Genova, creò i pannelli per la Stazione di Firenze, nel 1939 fu nominato professore di figure disegnata al Liceo artistico, per chiara fama.
Per questo artista che cantò in sostanza tutta la Firenze Diladdàrno, la strada che sinuosamente collega il viale Galileo con il Forte Belvedere divenne il paesaggio per eccellenza: paesaggio urbano, paesaggio straordinariamente umano, ogni volta nuovo, ogni volta rinnovato, da ritrarre, rianalizzare, ripensare, ristudiare senza interruzione. Via San Leonardo fu per Rosai ciò che la Montagna Sainte Victoire era stata per Cézanne. Le sue vedute accompagnarono questi anni come un leit-motiv. Proseguirono nel dopoguerra, nel cosiddetto periodo bianco, in cui lo stile di Rosai si fece sempre più scarno, disadorno, e le tonalità sempre più chiare. "Uomo e paesaggio" è ancora Parronchi a scrivere "non sono in Rosai termini contrastanti, ché anzi tanta acredine dell'uomo non si capirebbe, non si ambienterebbe, se non nella dolcezza dei colori della natura. Come si fa a scinderli, a separarli?"

Come ho raccontato in questo post, Sergio Scatizzi fece in tempo a vedere realizzata la grande esposizione a lui dedicata nella Galleria d'Arte Moderna di Firenze nel novembre 2009, per spegnersi pochi giorni dopo. A Ottone Rosai andò peggio, purtroppo. Era malato di cuore a partire dal 1954. Nel 1957 si trovava a Ivrea per l'allestimento di una sua prestigiosa personale presso il Centro Culturale Olivetti. Un infarto lo fulminò il 13 maggio, il giorno prima dell'inaugurazione.

Via San Leonardo, 1954 ca.
Vorrei concludere queste brevi note - su un Artista del genere le note sono sempre troppo brevi: non ho parlato dei disegni, dei nudi, degli autoritratti... - con uno scritto dello stesso Rosai, risalente a prima del suo trasferimento in via San Leonardo, quando aveva posto il suo studio nell'ex casotto del dazio di via Villamagna all'Anconella. Il 30 aprile 1932 scrisse a Berto Ricci:

Relegato in questo casotto che tu conosci, al limite della città, mi par d'essere un naufrago miracolosamente scampato alla morte costretto a sopravvivere i giorni necessari all'autoconsumazione. E giorni lunghi, eterni son questi quanto gli attimi di un torturato. Misurerò palmo palmo l'infinita immensità del cielo, conterò tutti i fiori innocenti della terra, rivedrò a uno a uno i miei e l'altrui peccati e finalmente esaudito un mio costante desiderio avrò trovato Dio.

Anconella, 1933








giovedì 9 agosto 2018

GABBATO LO SANTO 14: quando su S. Cresci finì in caciara



La storia del primo martire della cristianità in Mugello narra che S. Cresci, fuggito da Firenze insieme con un soldato convertito, raggiunse nel Mugello la località di Valcava. Qui trovò ospitalità  dalla vedova Panfila, che convertì guarendole il figlio Serapione, battezzato poi col nome di Cerbone. Fece fuggire madre, figlio e vicini di casa del pari convertiti al sopraggiungere dei militi dell’Imperatore Decio. Questi condussero Cresci e due compagni (Enzio e Onione, ma dei nomi riparleremo) presso il vicino tempio pagano e gli ordinarono di fare sacrifici agli dei. Al loro rifiuto, li uccisero il 24 ottobre 250. Sul luogo del martirio Panfila, Cerbone e altri sodali non nominati costruirono un altare. Qui furono sorpresi a pregare da soldati romani, e martirizzati  il 4 maggio 251. 

Scorcio della Pieve di S. Cresci in Valcava
Sono questi gli elementi essenziali di una Passio sanctorum, redatta con ogni probabilità verso il XII secolo da un anonimo che dovette avere attinto a degli Acta martyrum preesistenti e oggi perduti. La Passio rimase sconosciuta per secoli. Fu rintracciata solo nel 1588 nella biblioteca della Badia fiorentina, dopo anni di ricerche, dal monaco cassinese Don Marco di Francesco Bartolini da Borgo San Lorenzo. Il monaco trascrisse con fedeltà assoluta, grazie all’assistenza di altri padri religiosi eruditi, quanto riportato nel ponderoso volume in merito alla vita e al martirio di San Cresci e dei suoi compagni. In fondo, collocò una postilla nella quale scriveva brevemente di sé e della sua storia. Aveva avuto l’incarico da Benedetto Paoli, Pievano di Valcava, cioè del tempio dove il corpo del Martire e dei suoi compagni riposano. Ma ne aveva il desiderio fin dalla sua più tenera età, quando sentiva intorno a sé una profonda devozione per questo santo martire del quale però non si sapeva quasi nulla.
Del manoscritto originale si persero poi le tracce, ma quello ricopiato giunse nelle mani dell’abate Antonio Maria De’ Mozzi il quale, prima di farne dono all’Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, scrisse la Storia di S. Cresci e dei SS. Martiri e della Chiesa del medesimo Santo posta in Valcava nel Mugello. Era il 1710. Negli anni precedenti, però, il passionale era finito in mani sbagliate e si trovò al centro di una polemica furiosa, di cui fece le spese la figura dello stesso San Cresci.

La Pieve di S. Cresci a Macioli, Comune di Vaglia
Premessa: vanno distinti gli Acta martyrum dalle Passiones Sanctorum. Gli Acta erano compilati in contemporanea o subito dopo gli eventi narrati. Di solito non si andava oltre la semplice registrazione del processo, condanna ed esecuzione del martire in questione. Si attingeva per lo più dai verbali, aggiungendo luogo e data. Venivano utilizzati anche per la compilazione dei martirologi. Somigliavano a certi odierni flash d'agenzia.
Ma degli Acta, in Italia, non è rimasto quasi nulla. Abbiamo, in greco, gli atti relativi a S. Giustino e compagni e a S. Apollonio. Nulla in latino.
Ben più diffusi sono i Passionali, scritti a partire dal V secolo, sempre e comunque molto tempo dopo le vicende che vi vengono narrate, e arricchiti con elementi frutto della fantasia degli autori, in genere a scopi didattici. Fantasia spesso malata, aggiungiamo tra parentesi, data la quantità di particolari raccapriccianti sulle torture subite dai protagonisti, per fortuna appunto quasi sempre frutto di invenzione.

Quello di S. Cresci era un Passionale. Come consuetudine dell’epoca, l’anonimo estensore infarcì l’ossatura della vicenda con una quantità di interpolazioni personali e gli sfuggirono numerosi evidenti anacronismi. Mise poi in bocca a San Cresci una serie di monologhi pesantissimi e interminabili. Li ho letti: fossero veri, verrebbe da parteggiare per i soldati. Quanto agli anacronismi, mi limito all'esempio della citazione testuale di alcuni passi del Credo, che all'epoca non era ancora stato scritto, oltre ad allusioni ad argomenti oggetti di dispute teologiche di parecchi anni posteriori (lotta all'arianesimo, ecc). Insomma il testo non poteva risalire al 250 d.C.

Il religioso romano Giacomo Laderchi, devoto meno di S. Cresci che del Granduca Cosimo III - lui sì devoto di S. Cresci e finanziatore del restauro ricostruzione & ristrutturazione della Pieve di Valcava - pubblicò nel 1607 il passionale, proclamando però ai quattro venti trattarsi degli Acta originali, redatti in contemporanea ai fatti narrati. L'Abate Giusto Fontanini chiese un parere sulla pubblicazione all'erudito servita Gerardo Capassi. Questi espresse forti e legittime perplessità sull'autenticità del testo, e lo fece in una risposta riservata che però finì nelle mani di Laderchi.
Laderchi non la prese bene. Pubblicò, con lo pseudonimo di Pietro Polidori, una Lettera ad un Cavaliere Fiorentino, in risposta di quella scritta dal p. Fr. Gherardo Capassi dell'Ordine dei Servi di Maria, a Giusto Fontanini (il titolo prosegue ma ve lo risparmio), in cui si cimentò in poderose arrampicate sugli specchi riguardo gli anacronismi, ma soprattutto a Capassi ne disse di tutti i colori. Lo trattò da eretico blasfemo che non credeva neanche all'esistenza di S. Cresci. S'inserì nella polemica, a favore di Capassi, il monaco cassinese Benedetto Bacchini. Capassi replicò, anche lui sotto pseudonimo, scrivendo le Nugae laderchianae in epistola ad equitem flor (anche qui vi risparmio il resto), nelle quali a Laderchi restituiva con gli interessi gli insulti subiti. Cosimo III perse definitivamente la pazienza, fece bruciare pubblicamente le Nugae, mandò ...altrove tutti i protagonisti della rissa e incaricò De' Mozzi di rimettere le cose a posto. E

La Pieve di S. Cresci a Montefioralle, Comune di Greve
De' Mozzi scrisse così il libro sopra accennato. Fece un ottimo lavoro, dal punto di vista sia storico che diplomatico. Ammise la scarsa attendibilità di buona parte del passionale, ma fu indulgente nei confronti dell'estensore, ammettendo che le Passiones dovevano servire per fare catechismo ai religiosi. Le notizie e i documenti da lui forniti sono ancora oggi una fonte di riferimento.

S. Cresci a Campi Bisenzio, oggi. Della chiesa originale non è rimasto nulla.
Evidentemente però non riuscì a riparare del tutto al danno di immagine - diremmo oggi - subito dal Santo Martire. Quello di S. Cresci è in effetti uno dei molti casi in cui gli elementi di invenzione hanno soffocato la storia originale al punto di far risultare inverosimile anch’essa. L'averla buttata in caciara contribuì ulteriormente alla svalutazione della sua figura. Sulla ‘Bibliotheca Sanctorum’, Giuseppe Raspini (1966) bolla la ‘Passio’ come “del tutto favolosa”. Oggi S. Cresci, malgrado la devozione mai sopita da parte dei suoi fedeli, non figura tra i Santi riconosciuti dalla Chiesa. Nemmeno i suoi compagni di martirio. Li cercherete inutilmente sul sito www.santiebeati.it. Ciò a dispetto di molti elementi che fanno supporre una storicità di fondo della vicenda. Riassumo brevemente i principali.
Anzitutto le quattro chiese, di cui tre pievanie, tutte antiche, intitolate a S. Cresci: quella di Valcava, secondo Niccolai documentata dal 1177, ma secondo il Lami risalente al IV secolo; la Pieve di Montefioralle (Greve) (menzionata per la prima volta nel 963), la Pieve di Macioli (Pratolino) (941) e la chiesa di Campi Bisenzio, che figura come monastero in una carta dell'866: il più antico documento in cui è fatto il nome di Cresci.

Plutei 16.08. S. Cresci è al terzultimo rigo.
In secondo luogo il nome del Santo riportato in diversi antichi martirologi. Salvo errore, il più antico è conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana, è segnato Plutei 16.08, risale al 1100-1110 ed è un martyrologium Bedae, ovvero un martirologio secondo Beda, dal nome del Compilatore. In realtà è un semplice calendario, con riportati i nomi dei santi (quando ci sono), che occupa le prime sette carte. In fondo alla carta 5v troviamo il IX Calendae, e il nome di S. Cresci.
A S. Cresci Giovanni Villani dedica un capitolo della sua Cronica (il XXI del Libro secondo), in cui lo definisce de le parti di Germania gentile uomo. Altri storici hanno dato per molto probabile l'origine tedesca di Cresci.
Quando nel 1613 l’Arcivescovo fiorentino Alessandro Marzi Medici compì a Valcava la sua visita pastorale, l’allora pievano Matteo Dalle Pozze chiese autorizzazione a effettuare scavi in chiesa, per dirla con De’ Mozzi, “per lo ritrovamento di così preziosi Tesori, appoggiato sulla fede degli Scrittori, e sulla continovata tradizione delle genti”. Ad autorizzazione ottenuta, si scavò sotto l'altare maggiore, e venne alla luce una sorta di camera funeraria con entro le ossa di un essere umano, privo della testa. La testa era già presente nella Pieve e venerata come reliquia, ed è quella che si vede nella foto d'apertura. Durante la medesima visita gli scavi proseguirono ai gradini dell’altare. Qui si ritrovarono, in una sepoltura murata di mattoni, due scheletri umani integri. Erano quelli di Enzio e Onione? Il Pievano non si contentò. Fece scavare sotto il fonte battesimale, sulla destra all'ingresso della Pieve. Vennero alla luce otto crani e una quantità di ossa umane affastellate e confuse tra di loro. Erano i resti di Panfila, Cerbone e compagni?
De' Mozzi descrive poi minuziosamente i ritrovamenti su un poggio non distante dall'odierna Pieve, ove molti indizi (tra cui monete antiche e piccole sculture) fanno pensare fosse situato un tempio pagano intitolato a Esculapio.

S. Cresci e compagni non hanno avuto pace neanche negli anni seguenti. Vi è stata una diatriba sui loro nomi. Come ho accennato in questo post, alla fine del '700 il Vescovo di Pistoia e Prato Scipione de' Ricci si prese la libertà di riunire i Santi Cresci, Enzio e Onione in un solo santo: Crescenzione. Fu mosso in questo da urgenze politiche (c'erano allora troppi santi in giro verso i quali vi era troppa devozione, a suo parere ai limiti della superstizione) e non certo da preoccupazioni di tipo storico filologico, che non lo sfioravano. Ammettiamolo: l'assonanza c'è. Va però considerato che il nome di Cresci - o Crescio, o Criscus, o Acriscus - è come abbiamo visto antichissimo, mentre dei nomi Enzio e Onione non vi è traccia prima del ritrovamento del passionale. Questo mi porta, forse con una certa presunzione, a ipotizzare che il redattore del passionale stesso, forse in cerca di nomi da dare ai soci di S. Cresci, credette di averli trovati male interpretando una qualche lapide o pergamena dedicata a S. Crescenzione, il quale era stato martirizzato insieme con S. Lorenzo.

Biblioteca Moreniana, Inc. 62_01. Cerbone è citato in alto nella pagina di destra.

Diverso il discorso per il nome di Cerbone che, secondo alcuni, originerebbe dal S. Cerbone vescovo di Populonia, vissuto nel VI secolo. Ma, oltre che dalla presenza di una località presso la Pieve di Valcava che da tempi immemorabili si chiama Bosco di S. Cerbone, questa ipotesi sarebbe smentita dalla celebrazione del Santo fin da tempi antichi come risulta anche da un martirologio stampato nel 1486 a Firenze da Benedetto dei Buonaccorsi, e compilato da Don Antonio Vespucci. L'unica copia è conservata alla Biblioteca Moreniana. Qui, alla data del 4 maggio, è specificatamente citato il martirio Cerboni & sociorum eius presso la tomba di S. Cresci in Valcava.


Non molto distante dalla Pieve di S. Cresci in Valcava esiste(rebbe) ancora l'oratorio dedicato a S. Cerbone fatto costruire da Cosimo III, ma è in condizioni disperate. Pericolante da tempo, è stato murato e transennato. Ed è un peccato, perché al suo interno si trova(va) un affresco che mostra(va) appunto la guarigione di Cerbone ad opera di S. Cresci. Questo affresco - la notizia è inedita - fu realizzato nel 1881 su incarico del Pievano Pietro Lorenzi dal pittore fiorentino Ferdinando Folchi (1822-1883) .