venerdì 24 febbraio 2017

Il mistero del monastero: S. Caterina al Vetriciaio



Il monastero di Santa Caterina al Vetriciaio ebbe una vita molto breve, a cavallo tra Duecento e Trecento. Non ci sono immagini di sorta che possano suggerircene l’aspetto né l’ubicazione esatta.
Particolare di una cartina di Firenze del 1875
La località Il Vetriciaio si trovava a Firenze fuori della Porta al Prato, quasi a metà strada tra questa e il Ponte alle Mosse. Il curioso nome vetriciaio si deve ai vetrici, piante non dissimili dai salici che crescono in luoghi umidi. In effetti la zona per molti secoli quanto a umidità non scherzò. Meno di un secolo fa vi persistevano alcuni laghetti, piccoli stagni. Oggi comprende vie tra le più trafficate di Firenze.

Via del Vetriciaio


Via del Vetriciaio, salvo errore toponimo unico in Italia, è una viuzza tra Via del Ponte alle Mosse e Via Toselli, di solito neanche menzionata sulle piantine data la sua esiguità.
Lo studioso Padre Enrico Lombardi narra che negli ultimi anni del secolo XIII alcune “Donne ditte di S. Caterina si trovano al Vetriciaio, fuori Porta al Prato nella zona di S. Iacopino, e che le medesime, all’inizio del secolo successivo, fondano un nuovo monastero in Cafaggio presso le mura, e vi si trasferiscono.” Ricerche d’archivio hanno portato a concludere che il monastero dovette comparire dopo il 1291, mentre nel 1312 le monache che l'avevano occupato dovevano trovarsi già in un nuovo edificio detto di S. Caterina al Mugnone.   
Il monastero del Vetriciaio, intitolato a S. Caterina d'Alessandria, visse il suo attimo di gloria nel 1304. Il Cardinale Niccolò da Prato, vescovo di Ostia e Velletri, giunge a Firenze per mettere pace a una delle non rarissime contese tra guelfi e ghibellini. Ci riesce, come narrato anche da Dino Compagni: “A dì 26 d’aprile 1304, raunato il popolo sulla piazza S. Maria Novella, nella presenzia dei Signori, (…) con rami d’ulivo pacificarono i Gherardini con gli Amidei. E tanto parea che la pace piacesse a ognuno, che, vegnendo quel dì una gran piova, niuno si partì, e non parea la sentissino.”.
Lo stesso giorno il Cardinale scrive, alla badessa e alle monache di S. Caterina al Vetriciaio, una missiva in cui concede 100 giorni di indulgenza a chi, pentito e confessato, frequenti la chiesa del monastero nella festa della Beata Vergine, per la festa di S. Caterina, o di S. Nicola, o per la Domenica delle Palme.

Ma il luogo ove sorgeva il monastero, lungi dalle mura e in pratica in aperta campagna, non doveva essere all’epoca troppo sicuro per la vita delle monache. Già nel 1306 l’Arcivescovo Lottieri della Tosa concedeva 40 giorni di indulgenza a chi aiutasse finanziariamente la costruzione di un nuovo convento da intitolarsi a S. Caterina. Questo sorse nell’odierna via – appunto – S. Caterina, ove oggi si trova il palazzo dell'Agenzia delle Entrate, all'epoca in prossimità del corso del Mugnone. Anche dopo il trasferimento, non è chiaro in quale anno, le monache mantennero tuttavia le proprietà del Vetriciaio.
Non ci sono notizie sul destino dell’edificio negli anni seguenti. Probabilmente venne abbandonato. Se non fu demolito prima, di sicuro subì la stessa sorte degli altri fabbricati intorno Firenze che, nel 1528, furono rasi al suolo per fare terra bruciata in vista dell’arrivo delle truppe imperiali.

Dove si trovava esattamente il monastero? La domanda non ha mai avuto una risposta certa. Io però azzardo una ipotesi, che so ampiamente confutabile. La zona fuori dalla Porta a Prato ebbe una centuriazione estremamente precisa. Il primo decumanus minor settentrionalis, composto dalle odierne via degli Alfani, Guelfa, Ghiacciaie, Cassia, Maragliano, Novoli, è intersecato con regolarità da una serie di cardines minores, all’altezza di ognuno dei quali, meno uno, ancor oggi sorge un edificio religioso: la chiesa di S. Jacopino (quando si trovava nella piazza omonima), quelle di S. Donato a Torri, di S. Maria a Novoli, di S. Cristofano a Novoli. Il monastero di S. Caterina al Vetriciaio potrebbe avere occupato la posizione tra S. Jacopino e S. Donato, press'a poco all’altezza di via Giambattista Lulli, costituendo così il tassello mancante alla serie di edifici sacri che punteggiavano una via di intenso pellegrinaggio verso Pistoia, dove i fedeli si recavano per adorare una reliquia di S. Giacomo. Via del Vetriciaio, è vero, si trova più vicino a Via del Ponte alle Mosse, ma  la località omonima era abbastanza ampia, e si spingeva nelle vicinanze della attuale via Maragliano. La zona dove avrebbe potuto sorgere il Monastero di S. Caterina al Vetriciaio è oggi occupata dalla Casa dello Studente.

sabato 11 febbraio 2017

Elisa Marianini e il Nuovo Umanesimo di Tito Chini


Tito Chini (Firenze 1898 Desio 1947), figlio di Chino e fratello di Augusto, studiò presso la Scuola d'Arte in Piazza Santa Croce a Firenze e si diplomò nel 1916. Collaborò giovanissimo con le Fornaci San Lorenzo divenendo nel 1925 direttore artistico dopo l'abbandono di questo ruolo da parte di Galileo. Fu protetto dal conte Guglielmo Pecori Giraldi, maresciallo d'Italia e suo superiore in guerra. Ottenne varie committenze per la decorazione di ville gentilizie in Mugello ed anche di memorie legate al ricordo dei caduti della Grande Guerra, in particolare eseguì affreschi a Palazzuolo sul Senio, nell'Oratorio del Pasubio, nel Duomo di Schio, nel Tempio Ossario di Bassano del Grappa e nel Caffè Margherita di Viareggio, eseguì le vetrate dell'Hotel Roma a Firenze, collaborò alla progettazione del complesso termale di Castrocaro realizzando tutto l'apparato decorativo interno ed esterno. Numerosa e artisticamente importante risulta la sua produzione in Mugello spesso offuscata dalla celebrità di Galileo Chini. A Borgo San Lorenzo nel 1931 progettò e decorò il Palazzo Comunale (la foto d'apertura lo ritrae davanti al Sacello Ossario sul Pasubio).

Questa nota biografica, straordinaria nella sua essenzialità, è opera della mia amica Elisa Marianini, pittrice, restauratrice, divulgatrice ecc. ecc. (non ne conosco tanti che, a nominare le loro attività, possono permettersi un ecc. ecc.!).
Elisa con la figura di Tito Chini ha da sempre un rapporto privilegiato. L'atto più recente di questo rapporto è la pubblicazione di uno splendido volume pubblicato dai tipi di Francesco Noferini, intitolato Percorsi di luce - una lettura esoterica del palazzo comunale di Borgo San Lorenzo e di altre opere di Tito Chini, frutto di un lavoro durato oltre dieci anni.

Elisa Marianini presenta il suo libro nella Sala consiglio del palazzo comunale di Borgo S. Lorenzo
Durante la presentazione, tenutasi lo scorso 18 dicembre nello stesso palazzo comunale, Elisa parlò di un nuovo umanesimo come elemento decisivo nella vicenda di questo artista che si sposò nella cappella dei pittori in SS. Annunziata a Firenze, si batté perché l’arte entrasse nella quotidianità e, in una lettera redatta due anni prima della morte, scrisse di vedere il futuro come un serramento infinito.
"Nuovo umanesimo" mi spiega adesso Elisa "nel senso che Tito voleva porre in primo piano i valori dell'uomo come costruttore di se stesso, un'idea vicina a quella di un Pico della Mirandola. Questi assegnava all'uomo un privilegio: quello di poter forgiare se stesso in modo da poter cambiare la sua posizione, salendo o scendendo di grado in dignità e valore. Una possibilità agli animali - e agli angeli - del tutto preclusa."
Tito si riconobbe nei principi della Massoneria (che, tanto per chiarire, sta alla P2 come l'Islam sta all'Isis) a partire dal primo dei comandamenti: conosci te stesso. E dal compito fondamentale assegnato a ognuno, quello di contribuire, ognuno coi propri mezzi e le proprie possibilità, alla costruzione di una sorta di grande tempio morale.

Foto di Francesco Noferini
"Tutto ciò emerge in quella che è forse la sua opera più significativa. Nel palazzo comunale di Borgo domina la stella, cioè la luce, e il simbolo più evidente a chiunque, anche profano, vi entri, è il passaggio dal buio alla luce che si compie nel salire le scale."

Foto di Francesco Noferini
Non importa soffermarsi sul resto della complessa simbologia rappresentata nel palazzo stesso, e che è minuziosamente quanto chiaramente spiegata nel libro. Ciò che importa è comprendere che, quanto più Tito Chini aveva creduto nei valori umani e umanistici, tanto più ricavò delusioni profonde e terribili frustrazioni dal susseguirsi dei fatti storici. "Tito aveva aderito a un fascismo che inizialmente gli pareva non essere privo di affinità con l'ideologia massonica. Poi però ne divenne la negazione - annullamento, altro che valorizzazione dell'uomo! -, e infatti mise la Massoneria fuori legge. Scontò in prima persona le tragiche vicende della Seconda Guerra Mondiale: il bombardamento e distruzione delle Fornaci, la disoccupazione, la disperazione." Era ridotto a uno scheletro quando scrisse del già citato serramento infinito. Era il 1945. Sarebbe vissuto (malissimo) ancora due anni.
Dopo la morte ha rischiato e, ammettiamolo, tuttora rischia un oblio causato anche dal giganteggiare straripante della figura del più celebre ed estroverso Galileo. "Solo un'analisi superficiale" precisa Elisa "può accostare i due stili artistici. I loro caratteri erano, si può dire, opposti. Uno estroverso e un po' esibizionista, l'altro del tutto schivo. Galileo Chni fu uno dei maggiori esponenti italiani del liberty. Il suo pane erano le curve, gli arabeschi, i coup de fouet, i colpi di frusta. Si deve riconoscere che non di rado percorreva volentieri strade artistiche già collaudate e sicure. Tito apparteneva all'Art nouveau, e infatti aveva come cifra stilistica, al contrario, la simmetria, le linee rette, le linee spezzate. Mai del tutto soddisfatto del proprio lavoro, si rimetteva costantemente in discussione. Di ritorno da una visita a una villa affrescata dal Tiepolo, scrisse una volta alla moglie quanto si sentiva, a confronto, una nullità."