giovedì 21 giugno 2018

Scipione de' Ricci: riformatore, giansenista, iconoclasta.


Avevo raccontato in un post alcuni mesi fa come la preziosa reliquia di S. Jacopo che si trovava nella Cattedrale di S. Zeno a Pistoia aveva fatto della città una meta di continuo pellegrinaggio. Nel 1786 questa reliquia rischiò di fare una brutta fine, mentre la cappella che la ospitava una brutta fine la fece per davvero.
Autore dell'impresa fu Scipione de' Ricci, Vescovo di Pistoia e Prato, personaggio di straordinaria complessità e ambivalenza, dai molti meriti e dai non pochi demeriti, forse sopravvalutato dagli storici del XX secolo.

Scipione de' Ricci nacque a Firenze nel 1741. Studiò inizialmente presso i gesuiti, si laureò nel 1762, fu ordinato prete nel 1766. Si appassionò di teologia, frequentò numerosi circoli letterari religiosi e ben presto si avvicinò al movimento giansenista, che tra l'altro considerava i gesuiti peggio di satana sceso in terra. Ma quando fu consacrato vescovo, nel 1780, la Compagnia di Gesù era stata soppressa da sette anni, ed egli non ebbe da combatterla.
Nel catalogo della mostra Scipione de' Ricci e la realtà pistoiese della fine del Settecento (1986), Chiara D'Afflitto sottolineò come l'intesa con il Granduca Pietro Leopoldo, che lo sponsorizzò e sostenne appassionatamente, costituì "il caso unico in Italia di una attività riformatrice nei campi civile e religioso sostenuta con pari determinazione da un regnante e da un vescovo.".
Non c'è dubbio. Scipione de' Ricci si trovò, appena consacrato, a dover porre mano a una situazione da tempo insostenibile e sulla quale già i suoi predecessori avevano iniziato a intervenire, anche se con minore irruenza. Scrive Claudio Gori, su Il Covile (luglio 2015), che nel 1733 a Pistoia, allora cittadina di 8690 abitanti, vi erano "420 tra sacerdoti e chierici, 452 monache tra corali, converse ed educande, 137 regolari, cioè monaci e frati. In tutto 1116 religiosi: più di un religioso ogni sette laici. ma di tutti questi ecclesiastici appena il 20% aveva cura d'anime nelle parrocchie e nell'ospedale." In definitiva una situazione, ereditata dal medioevo, di - diremmo oggi - fancazzismo e parassitismo diffuso, cui faceva da contraltare una scarsissima presenza delle istituzioni religiose nelle zone fuori dalla città e in particolare sulla montagna pistoiese. De' Ricci operò con vigore quanto con oculatezza una riduzione delle parrocchie cittadine, che al suo insediamento erano ben 23, eliminandone 15. Eliminò anche otto monasteri femminili e cinque maschili. Creò invece venti nuove parrocchie nel contado, di cui undici nella zona montana. Il nuovo assetto  delle parrocchie risultò del tutto valido, dato che si è mantenuto praticamente intatto fino ai giorni nostri. D'intesa col Granduca, fece sopprimere le compagnie laiche, creando una unica compagnia con distaccamenti nelle singole parrocchie. Istituì il Patrimonio ecclesiastico, organismo che controllava in modo centralizzato la gestione delle ricchezze e il relativo utilizzo, nella direzione di una maggiore equità distributiva. Si liberavano così in parte le singole parrocchie dalla frequente incombenza della scarsità di fondi per il loro sostentamento. Pietro Leopoldo, sull'esempio di de' Ricci, istituirà i Patrimoni ecclesiastici in tutte le diocesi del Granducato. 

Il Palazzo vescovile di Pistoia.
Il vescovo amministrava in prima persona  le rendite e l'utilizzo del ricavato dalle alienazioni delle chiese soppresse e dalla vendita delle opere in esse presenti. Con grande abilità gestionale, poté reperire i mezzi finanziari per la costruzione del nuovo Palazzo Vescovile, che fu preferita alla ristrutturazione di quello antico in Piazza del Duomo (foto d'apertura), e del Seminario Vescovile, realizzato utilizzando l'ex Monastero di Santa Chiara.

L'ingresso del Seminario vescovile, costruito
sulla ex facciata della chiesa di S. Chiara
I meriti di Scipione de' Ricci sono insomma numerosi e indiscutibili. Il suo fanatismo religioso, unito a una buona dose di megalomania, lo condusse però a gettare via il proverbiale bambino con l'acqua sporca. Abbiamo detto che de' Ricci aderì al giansenismo, un movimento religioso il cui credo fu codificato da Cornelius Otto Jansen (1585-1638). L'intento dei suoi adepti era quello di tornare alla purezza delle prime comunità cristiane, un'idea a dire il vero non originalissima. In più, e in questo la vicinanza al calvinismo era più che concreta, si sosteneva che Dio, con volontà imperscrutabile, concedeva la grazia solo a pochissimi, diversamente dagli altri irrimediabilmente dannati & marcati in eterno dal peccato originale. La tesi conseguente, secondo cui Gesù morì non per tutti ma solo per alcuni eletti, cioè loro, non poteva che essere tacciata di eresia, e la Chiesa la condannò a più riprese. Altri elementi del giansenismo erano il rigorismo, la lettura della Bibbia, il rifiuto di tutti i riti esteriori, comprese le processioni e la venerazione delle immagini sacre e/o delle reliquie. Infine, va ricordato l'odio furioso nei confronti  dei gesuiti e del loro presunto lassismo morale legato all'adesione al probabilismo. Il vescovo di Pistoia e Prato - l'abbiamo detto - agì in un'epoca in cui la Compagnia di Gesù era stata soppressa e quindi non la combatté, ma rivolse i suoi strali verso il culto del Sacro Cuore di Gesù, propagato appunto anche dai gesuiti, bollandolo sprezzantemente con il termine di cardolatria e proibendolo. Se da un lato introdusse parti liturgiche in lingua volgare perché da tutti fossero comprese, dall'altro cercò di inserire tesi gianseniste nel catechismo, il che acuì le tensioni con la Santa Sede. Si concesse licenze quanto meno stravaganti. Per esempio, eliminò i nomi dei genitori di Maria Vergine, Anna e Gioacchino, come se fossero falsi, dai messali e breviari, e il 25 luglio divenne semplicemente in festo parentum B.M.V.  Sostenne che i Santi martiri Cresci, Enzio ed Onione erano in realtà un solo santo: Crescenzione. Espresse più volte il suo odio per la musica barocca.

S. Giovanni Fuorcivitas, una delle otto parrocchie di Pistoia non soppresse.

Intervenne sulle processioni, che erano in effetti in numero esagerato, ma lo fece in pratica proibendole tutte o giù di lì. Tuonò contro i troppi altari in ciascuna chiesa, decorati con gran dispendio ed esibizione di ricchezza dai patrocinatori, e contro l'abitudine di recitare più messe contemporaneamente nella stessa chiesa (e su tutto ciò aveva ragione), e invocò il ritorno all'austerità dei templi protocristiani che avevano un solo altare (e questo era un falso storico). Fece scoprire in modo permanente le immagini sacre con fama di miracolose, che di solito venivano mostrate solo in poche e determinate occasioni. Mostrò nei confronti delle immagini e dell'arte sacra, più che disprezzo, una somma noncuranza. Ai fedeli risultò sempre più inviso, data la devozione con cui essi erano legati a tradizioni e riti non di rado antichissimi.
Curiosamente, le biografie su Scipione de' Ricci tacciono per quanto riguarda il vero e proprio scempio da lui compiuto a danno del patrimonio artistico pistoiese, e questo anche al netto della mentalità dell'epoca. Fu un iconoclasta di fatto. Opere d'arte e arredi sacri delle parrocchie soppresse furono valutati e venduti all'incanto. Gli affreschi e le opere murali andarono per lo più perduti. Le chiese furono considerate in quanto fabbricati e come tali vendute a privati. Dopo disinvolte ristrutturazioni, divennero abitazioni, officine, magazzini. I monasteri non ebbero miglior sorte, con la parziale eccezione  di quello delle Agostiniane di Santa Maria delle Grazie che, spiega Claudio Gori, fu inglobato nell'Ospedale del Ceppo; e quello degli Olivetani che divenne sede dell'Accademia Ecclesiastica per l'educazione del Clero. In definitiva, seppure con presupposti e con modalità diverse, il risultato finale fu nel complesso paragonabile a quello dello sventramento del quartiere fiorentino del Mercato Vecchio, avvenuto un secolo dopo. 

L'altare argenteo dedicato a S. Jacopo. 
La Cappella di S. Jacopo, nella Cattedrale, fu la vittima più illustre - e il danno più grave - dell'azione del vescovo. Scipione de' Ricci riteneva sacrilego che "...all'altare di sant'Iacopo in una indecentissima cappella si tenga acceso un numero superfluo di lampade, che superi di gran lunga quello che si vede davanti all'augustissimo Sacramento". È ancora Claudio Gori a elencare i provvedimenti:

Il reliquiario
Fu eliminato il pavimento rialzato, abbattute le volte, scrostati tutti gli affreschi alle pareti, opera dei più grandi maestri medievali a partire da Coppo di Marcovaldo, disperse le suppellettili, le lampade, gli arredi e le tanto odiate immagini di devozione: non ne rimarrà praticamente traccia alcuna, se non alcuni frammenti di affreschi negli intradossi di una monofora tamponata e gli scassi sulle due colonne che delimitavano la Cappella, nei quali erano state infisse le cancellate. Neppure queste cancellate, pregevole lavoro in ferro battuto del 1327, sfuggirono alla dispersione. 

Lo splendido altare argenteo dedicato a S. Jacopo fu brutalizzato da un orafo, certo Francesco Ripaioli, che lo ridusse a una sorta di oggetto bidimensionale da appendere o appoggiare al muro. Fu restaurato e restituito alla sua conformazione originale nel secondo dopoguerra. Non sono riuscito a rintracciare il percorso, immagino avventuroso, compiuto dal reliquiario attribuito alla bottega del Ghiberti, che per fortuna si è salvato, e il cui ultimo restauro risale al 2011.

Contrariamente agli affreschi, la Croce
di Coppo di Marcovaldo (1274) è giunta fino a noi.
Fin qui il fanatismo religioso del vescovo. E la megalomania? Lo condusse alla disfatta. Scipione de' Ricci convocò nel 1786 un Sinodo dei vescovi toscani con lo scopo di ratificare le riforme espresse nei 57 punti ecclesiastici da lui elaborati. Si puntava decisamente verso una sorta di indipendenza della diocesi da Roma, oltre che all'introduzione nell'istituto religioso di diversi elementi di derivazione giansenista. Altre proposizioni, come la riduzione di tutto il clero regolare a un ordine religioso unico, nel quale si eliminavano i voti di povertà e obbedienza, non potevano non suscitare diffidenza e dissensi tra i religiosi. Nel frattempo Papa Pio VI aveva inviato in loco lo studioso antigiansenista Giovanni Marchetti che redasse in forma anonima le Annotazioni pacifiche di un parroco cattolico a mons. Vescovo di Pistoia e Prato. De' Ricci non la prese bene e, in una pastorale, ricoprì d'insulti l'autore. Nel 1787 l'Assemblea dei vescovi e arcivescovi toscani tenuta a Firenze condannò in modo irrimediabile le tesi di Scipione de' Ricci. Se è vero che le riforme ricciane andavano a colpire parecchi interessi all'interno del clero, è altrettanto vero che i vescovi percepivano nettamente - e su questo si erano ricompattati - una tendenza verso lo scisma.

Il Sinodo di Pistoia in un'incisione del 1786.

Nello stesso anno, a Prato si sparse la voce che de' Ricci aveva intenzione di proibire il culto e chiudere la cappella della Sacra Cintola della Beata Vergine. Un po' come proibire a Napoli il culto del sangue di San Gennaro. Fu una fake news ante litteram? Non è chiaro. Mario Rosa nel Dizionario biografico degli Italiani la definisce falsa, mentre per Chiara D'Afflitto è forse non infondata. Di sicuro ci fu una vera rivolta popolare. La lettera pastorale che de' Ricci scrisse l'anno seguente è un miscuglio di vittimismo e arroganza infarcito di retorica pesantissima. Ne copio un passaggio. Siamo a pagina 12 di 104.

Chiamo ad esame i miei sentimenti e le mie massime, e li cito al tribunale dell'Evangelio, de' Concilj, e dei Padri, e parmi vederle prefettamente concordi: ritorno sopra me stesso, e domando qual sia la disposizione del mio cuore, e non sento che i desiderj più vivi di conoscer maggiormente la dottrina della Chiesa, ed un umile soggezione per abbracciarli; esamino le vaghe censure e le accuse dei miei contraddittori, e non vi ritrovo che falsità, che ignoranza, che errore. Invece di scuoprire in queste accuse alcun lume per istruirmi, io non vi leggo che sforzi impotenti di anime irritate, interpretazioni maligne delle massime più sacrosante, calunnie le più insussistenti e più false.

Nel 1790 Scipione de' Ricci dovette lasciare Pistoia. Pietro Leopoldo, che gli aveva rinnovato più volte l'appoggio e la solidarietà, nello stesso anno tornò a Vienna per la morte del fratello. Anche lui, però, aveva iniziato a stufarsi del carattere del suo protetto e - riporta Mario Rosa - in una lettera del 1791 lamentava «la maniera troppo sollecita e qualche volta violenta e si può dire fanatica colla quale il vescovo di Pistoia, riscaldato dalle persone che aveva d’intorno, strapazzava, disprezzava e minacciava e perseguitava tutti quelli che non erano aderenti ai suoi principi e massime». Scipione de' Ricci, perso il sostegno principale al suo vescovado, lo richiese al successore Ferdinando III, ma questi fece orecchi da mercante. A Scipione non rimase che dimettersi. Era il 3 giugno 1791. Tre anni più tardi la bolla papale Auctorem fidei decretò la condanna definitiva del sinodo di Pistoia e delle tesi in esso espresse. Nel 1799, Scipione de' Ricci fu arrestato in quanto sospettato di filofrancesismo. Dopo varie sedi di detenzione ottenne gli arresti domiciliari - c'erano anche allora - nella sua villa di Rignana nel Chianti.

Tommaso Gazzarrini (1790-1853), Antonio Verico (1775-1846?) La riconciliazione di Scipione de' Ricci con Pio VII

Il 9 maggio 1805 avvenne, a Firenze, quell'incontro tra Scipione de' Ricci e Papa Pio VII sull'esito del quale gli storici non hanno trovato un accordo. Si può parlare di autentica riconciliazione? Di sincero ripensamento e quindi ritrattazione da parte del vescovo ribelle? O di manovra opportunistica? Anche la Chiesa fu decisamente ambigua in merito. Ma ancor più lo fu il vescovo stesso. Chiara D'Afflitto parla di "una sua meditata convinzione in quella che egli chiamò una 'riconciliazione'", basandosi sulla lettera da lui scritta a Pio VII lo stesso giorno dell'incontro, nella quale dichiara tra l'altro "di non aver mai sostenute o credute le proposizioni enunciate nel senso giustamente condannato dalla surriferita Bolla  [Auctorem fidei], avendo sempre inteso che, se mai qualche parola o parole avessero dato luogo ad alcun equivoco, fossero subito ritrattate o corrette."
Un paio di pagine più avanti nelle sue memorie, però, il vescovo scrive che "in tutta questa trattativa né prima né dopo, né monsignor Feraia né il Papa, né in voce né in scritto, hanno mai parlato di ritrattazione o di  equivalente termine". Poi, dopo una discreta supercazzola ante litteram, aggiunge: "Il bene della pace non meritava questo piccolo sagrifizio grammaticale, quando era salva la verità che forse malamente si supponeva negata?". Secondo Alida Caramagno (scheda del fondo Ricci nell'Archivio di Stato), questa frase in particolare fa pensare piuttosto a una abiura dettata dalla convenienza.
Scipione de' Ricci morì nella sua villa di Rignana nel 1810.

sabato 9 giugno 2018

XXI secolo, o della globalità dell'arte


Il mio amico Vincenzo Nobile colpisce ancora. Nel giugno 2017, nel Salone Donatello della Basilica di San Lorenzo a Firenze, la Nag-Art di cui egli è deus ex machina aveva allestito la mostra Il cammino dell'uomo tra arte e fede - da Ugo Guidi a Igor Mitoraj, di cui avevo parlato in questo post, e che aveva avuto un successo ben oltre le aspettative. Quasi non se n'è ancora spenta l'eco, e Vincenzo torna a distanza di un anno, con una nuova collettiva. Stessa location, stessa filosofia artistica, stesso periodo d'apertura - chiude il 24 giugno salvo proroghe -, titolo diverso: Presenze nell'arte contemporanea - emergenti del XXI secolo e maestri del XX secolo.


Ottone Rosai, Strada e case
"In sostanza" mi racconta Vincenzo "ho detto agli artisti: stavolta non c'è un tema. Esprimetevi come ritenete opportuno nell'intento di lasciare una traccia di voi per il futuro. Ma tenete presente che siete nella cripta di una delle chiese più belle del mondo, e che vi confronterete con le opere di cinque giganti del Novecento: Annigoni, Carrà, Guttuso, Rosai, Sironi!"

In fondo al corridoio d'entrata (foto d'apertura) spicca, quasi un ideale filo di collegamento con l'esposizione dell'anno scorso, la sbalorditiva versione piccola de L'Ultima Cena di Sauro Cavallini, circondata da altri suoi dipinti.
Sulla parete laterale del corridoio medesimo, si lasciano ammirare le opere dei sopra citati Maestri, quasi guardiani dell'epoca cui seppero dare il loro contributo estetico talora influente, talora determinante.
Nelle sale, opere di pittura, scultura, fotografia elaborata, tecniche miste. Non più di un paio le installazioni, con molto senso della misura e prive di invadenza. Nessuna concessione alla magniloquenza e alla retorica. Sul risvolto del catalogo curato da Silvia L. Matini è lo stesso Nobile a scrivere:

Il nostro intendimento è di mostrare al grande pubblico che è ancora possibile parlare di bellezza dell'arte nel senso classico del termine per narrare, commemorare e denunciare utilizzando il linguaggio della figurazione o dell'astrazione a seconda dei propri convincimenti culturali.
Vogliamo mostrare opere di pittura e scultura evitando il 'gigantismo' e le 'animazioni psichedeliche che a volte risultano di gusto alquanto discutibile.

La creazione artistica, dunque, in tutte le sfumature che dal figurativo sfociano nel materico. La creazione artistica prodotta da tutte le generazioni. La creazione artistica di quasi tutti i continenti. Sono tre possibili binari su cui condurre la visita, ma tre binari del tutto svincolati l'uno dall'altro. 
Il figurativo è tornato a vivere, e non costituisce più un tabù come qualche decennio fa. Visto e vissuto, s'intende, con altri occhi, come quelli di Alessandra Benini. Le sue Amorose (sotto), da Silvia Matini definite botticelliane, sembrano a chi scrive afferrare al volo anche il testimone lasciato da Annigoni. Per inciso: quanti critici d'arte dovrebbero chiedere scusa a quest'ultimo, seppure tardivamente? 


Figurativi rarefatti ed evanescenti sono i villaggi di Arnaldo Marini (1952) che quasi raccolgono una sorta di sfida lanciata dal Guttuso qui esposto.

Renato Guttuso: Terrazzino e tetti alla Kalsa

Arnaldo Marini: L'ultimo villaggio
Nelle elaborazioni della francese Yasmina Barbet (1973) si assiste quasi a una  dissolvenza incrociata, che conduce verso la dissoluzione dell'immagine e l'approdo al (quasi) astratto di Lorenzo D'Angiolo (1939), all'astratto e suggestivo brulicare di colori di Luisella Traversi Guerra (1944) e al materico puro di Caterina Ruggeri (1956).

Yasmina Barbet: Divine Creation

Caterina Ruggeri: CR467

La forte tonalità blu dei dipinti di Caterina (la foto non rende sufficientemente l'idea) mi aveva fatto pensare che si fosse servita, per realizzarli, del nuovo pigmento scoperto in tempi recentissimi, come spiegato in questo articolo. Un avvenimento epocale, anche se passato quasi del tutto sotto silenzio. L'Artista mi ha spiegato che no, non si tratta di questo pigmento dal nome per ora tremendo: YlMn; bensì di una tonalità ottenuta con una tecnica complessa a partire da un pigmento trovato a Marrakesh.
Forse un po' meno eterogeneo, ma non per questo meno affascinante, il contributo della scultura, che parte dal già citato Cavallini (1927-2016) e vede artisti come Raffaella Robustelli (1939), Roberto Bricalli, classe 1959 (il cui Malleus Maleficarum rivisita certe soluzioni di Giuliano Vangi), la brasiliana Sylvia Loew, la turca Esin Çakir, in una continua ricerca di stilizzazioni espressive che non abbandonano mai del tutto la figura reale come elemento di partenza. Ciò è vero soprattutto per la giovane Cecilia Birsa, nata nel 1983, le cui opere, si legge, "sono caratterizzate dall'uso di pietre di epoca paleozoica: pietre di montagna e di torrente, mucronite, serpentino, quarzo e sienite"

Sylvia Loew, Vita extraterrestre

Esin Çakir, Awakening

Cecilia Birsa, s.t.
La mostra può essere seguita secondo molti altri criteri, a seconda delle preferenze e della sensibilità di ognuno. Mi sono limitato ad alcuni spunti arbitrari, fedele all'ammonimento di Roberto Longhi secondo il quale  non si può fare il riassunto di un elenco.
Contrariamente a quanto si potrebbe credere, aggirandosi per la cripta non si ha affatto la sensazione di anarchia. Al contrario, il senso di una certa unitarietà, nella molteplicità di proposte, domina i padiglioni. Globalità della creazione artistica, superamento delle avanguardie e dei movimenti (con relative scomuniche & anatemi), valore del contributo individuale per la crescita di tutti? Difficile dirlo. Auguriamocelo. E fa piacere rilevare che l'opera forse più sorprendente di tutta la mostra sia quella del partecipante più giovane. Anche in questo caso, le foto (sotto) possono dare solo un'idea parziale dell'installazione realizzata dallo spezzino Federico Montaresi, classe 1994. Attualmente "impegnato nello sviluppo di un progetto volto a unire le ultime frontiere della fisica teorica con l'espressione artistica", Montaresi ci spiazza e ci conquista con i suoi sette pannelli che sanno di cosmo, circondanti un curioso acquario a forma di clessidra nel quale nuota un pesce scuro, cui Vincenzo Nobile provvede a dare quotidianamente da mangiare.


Federico Montaresi: Valtzer


La mostra, cui si accede dal Chiostro di S. Lorenzo, è a ingresso libero, ed è aperta tutti i giorni con orario 10-17, la domenica 13.30-17.