domenica 30 aprile 2017

Cos'hanno in comune il Piovano Arlotto e Castruccio Castracani?

La raccolta dei Motti e Facezie del Piovano Arlotto è uno dei libri più longevi in assoluto, oltre che uno dei più tartassati scompagnati interpolati mutilati rimescolati . La prima edizione in stampa, curata da tale Bernardo Pacini per i tipi di Bernardo Zucchetta, risale all'incirca al 1516. Come noto, vi si narrano gli scherzi, le battute, gli aneddoti che hanno - non di rado avrebbero - per protagonista Arlotto Mainardi (1396-1484), Piovano di S. Cresci a Macioli, sopra Vaglia (FI). L'autore non è mai stato identificato. Gli episodi sono scollegati l'uno dall'altro e la raccolta non ha alcun filo conduttore, né temporale né tematico. Tutto ciò ha lasciato una notevole libertà d'azione agli editori che, lungo i secoli, hanno pubblicato le successive ristampe. Dovendosi adeguare alle mode del momento, nessuno si fece problemi a praticare tagli di episodi, interpolazioni, inserimenti da altre raccolte, storpiature, riscritture, giungendo infine a fare della figura del Piovano una sorta di Bertoldo in sottana da prete. Più di un lettore l'avrà creduto un personaggio immaginario. Non lo credettero tale, per loro fortuna, i suoi parrocchiani di S. Cresci a Macioli, di cui egli fece ristrutturare la Pieve conferendole in sostanza l'aspetto che ha tuttora; e della quale fu in grado di risanare il bilancio, in rosso al suo arrivo, ampiamente in attivo alla sua partenza da questo mondo. 

L'interno della Pieve di S. Cresci a Macioli, oggi

Il lavoro di ricostruzione filologica della raccolta, in modo da separare il vero dall'inventato o dal copiato, non si è ancora concluso. Salvo errore, nonostante le ricerche degli storici, il manoscritto originale, di cui si postula comunque l'esistenza, non è mai stato ritrovato. Si è cercato di ricostruirne la genesi, ed è accettata l'ipotesi che un primo gruppo di 80 facezie circa risalga a quando Arlotto era ancora in vita, tra il 1450 e il 1470. Un secondo gruppo vi fu aggiunto subito dopo la morte, tra il 1485 e il 1488, unitamente a una breve biografia del Piovano come introduzione. L'autore dovette essere lo stesso, un non meglio identificabile amico del Piovano. In questa forma fu trovato nel 1964 il manoscritto più antico finora noto (inizi del '500 circa), ancorché ugualmente una copia, nella Biblioteca vaticana (Ottoboniano latino 1394).  Successivo per stesura ma noto da più lunga data, il manoscritto copiato da Giovanni Mazzuoli detto lo Stradino (tra 1537 e 1540), conservato alla Laurenziana, contiene però una terza parte.
Si tratta di una parte di tono completamente diverso rispetto alle altre due, pur essendo anch'essa con ogni probabilità opera della medesima penna originale. Sono una serie di sentenze, risposte, pretesi aforismi. Leggiamone solo un paio di righe, sparse:

Domandato il Piovano Arlotto che cosa è quella che è più difficile a cognoscere, rispose: - Sé medesimo.
Che cosa è quella che è più difficile ad acquistare? Rispose: - Quello che l'uomo disidera.
Come si può giustamente vivere? - fa quello che tu comandi ad altri.
El minacciare è cosa vile e atto e opera femminile.
La lingua non debbe andare inanzi al pensiero. 
In cammino non andare troppo presto. 
Non è maggiore pazzia che desiderare le cose impossibili.

Insomma, nulla vi troviamo dell'atmosfera scanzonata e a tratti goliardica delle prime due parti. Nessuno degli scherzi per i quali Arlotto gode ancora oggi di una certa fama: da quello comminato all'amico sensale Piero Puro, che nel cammino di pellegrinaggio fino a La Verna il Piovano costrinse abilmente a mangiare nient'altro che carote, che egli odiava; a quelli cui  Don Antonio, Piovano della vicina Cercina, era abbonato; alla vendetta compiuta a un padrone di casa quando, durante un pranzo, questi aveva voluto mandare lui, ormai vecchio e stanco, giù nelle cantine a riempire una caraffa di vino. "Che sarà mai?" gli aveva detto. "Apri il rubinetto e riempi la caraffa". Il celebre dipinto del Volterrano, nell'immagine d'apertura, ha fotografato il momento in cui Arlotto, di ritorno, dice al padrone: "Ho fatto esattamente come hai chiesto. Ora però manda qualcuno a chiuderlo, il rubinetto", tra l'ilarità dei presenti ...eccetto il padrone.
A quando, giunto fradicio d'acquazzone in una locanda di Pontassieve, raccontò di aver perso per strada la sacca coi soldi dentro; al che tutti gli avventori che affollavano il caminetto si scaraventarono fuori al freddo, al buio e alla pioggia per trovare il denaro, e lui poté mettersi vicino al fuoco.


O la scommessa di far passare la barriera a un maiale senza pagare il dazio: lo mise in una bara, e alle guardie spiegò che si trattava di 'quel porco del suo padrone'. Qui sopra, la burla in un dipinto di Jacopo Vignali.

No, la terza parte ci risulta abbastanza antipatica. Che senso avevano queste banalità paternalistiche? Perché furono inserite nella raccolta? Oltretutto, nella copia conservata alla Biblioteca Nazionale dell'edizione Pacini citata all'inizio, non figurano. Gianfranco Folena, che nel 1954 curò una edizione critica dei Motti e Facezie, faticò non poco per trovare la fonte diretta di tutta l'ultima parte delle Facezie. Si tratta del Libro de la vita de' filosofi e delle loro elegantissime sentenzie estratto da Diogene Laerzio e da altri antiquissimi auctori. La versione stampata a Venezia nel 1480 è ritenuta la più antica. Narra la vita di numerosi filosofi, con attendibilità storica prossima a zero, in compenso con sovrabbondanza di massime, aforismi, risposte pseudo argute e moraleggianti. A sua volta, questo testo era un volgarizzamento del Liber de vita et moribus philosophorum, opera dell filosofo Walter Burleigh (1275-1357). Secondo Folena, l'autore delle Facezie agì "con la pia intenzione di arricchire la memoria del suo Piovano attribuendogli, e a costo di quali incongruenze, tutta la saggezza vulgata degli antichi, da Talete a Galeno, e travestendolo da savio antico con questi frusti panni passati ormai nel guardaroba popolare, e perfino con una filosofica barba posticcia, la barba di Diogene". 
Mezzucci, insomma. Senza dubbio. Ma che non furono appannaggio solo di un anonimo scrittorello che, umilmente, voleva rendere il protagonista delle sue Facezie degno di maggiore stima.


Tra luglio e agosto 1520, Niccolò Machiavelli, che si trovava a Lucca, scrisse una Vita di Castruccio Castracani. 
Lucchese (ovviamente), rampollo della famiglia patrizia degli Antelminelli, vissuto tra il 1281 e il 1328, questo condottiero ghibellino che voleva annegare Firenze otturando l'Arno all'altezza della Gonfolina e, pur non riuscendo mai ad avere ragione della città, lasciò nondimeno un ricordo non molto grato in tutta la piana che la circonda, venne ritratto da Niccolò in termini ai limiti del mito, con non pochi tratti romanzati e affidabilità storica scarsina.


Anche l'autore del Principe volle attribuire a Castruccio tutta la saggezza vulgata degli antichi, per dirla con Folena. Sicché, verso il termine, scrisse di lui:

"Era ancora mirabile nel rispondere e mordere, o acutamente o urbanamente; e come non perdonava in questo modo di parlare ad alcuno, così non si adirava quando non era perdonato a lui. Donde si truovono molte cose dette da lui acutamente, e molte pazientemente".

A seguire, un saccheggio di citazioni dal Diogene, cambiando alla bisogna i nomi dei personaggi. I filologi ne hanno individuato i riferimenti uno per uno. Ne copio tre.

Domandato come morì Cesare, disse: "Dio volesse, che morissi come lui!"
Usava dire che la via dello andare allo inferno era facile poi che si andava allo ingiù e a chiusi occhi.
Passando per una strada, e vedendo uno giovanetto che usciva di casa [di] una meretrice tutto arrossito per essere stato veduto da lui, gli disse: "non ti vergognare quando tu n'esci, ma quando tu n'entri"

La conclusione non è un miracolo di sobrietà:

“Visse quarantaquattro anni [in realtà 47, ma gli serviva per i paragoni a seguire], e fu in ogni fortuna principe. E come dalla sua buona fortuna ne appariscono assai memorie, così volle che ancora della cattiva apparissino; per che le manette con le quali stette incatenato in prigione si veggono ancora oggi fitte nella torre della sua abitazione, dove da lui furono messe acciò facessino sempre fede della sua avversità. E perché vivendo ei non fu inferiore né a Filippo di Macedonia padre di Alessandro, né a Scipione di Roma, ei morì nella età dell’uno e dell’altro; e sanza dubbio avrebbe superato l’uno e l’altro se, in cambio di Lucca, egli avessi avuto per sua patria Macedonia o Roma.”

Ammettiamolo: il compilatore delle Facezie, su tutta la linea assolutamente non paragonabile alla figura del Machiavelli, ispira però maggiore simpatia: per lo meno ci ha risparmiato paragoni tra il Piovano Arlotto e qualche Santo martire. La sua chiusa consiste semplicemente nella beffarda iscrizione sulla tomba del protagonista: 

Inanzi alla sua morte fece el piovano dua sepolcri uno nella chiesa della sua pieve: & uno nello spedale de Preti di Firenze & come huomo buono & pieno di charità & si come era stato liberalissimo in vita di ogni sua roba & cosa a ciascuna persona / di cui haveva havuta notizia / così volle essere da po la sua morte & lui medesimi si fece lo Epitaphio in lingua materna della sua patria: quello della Pieve non ho trovato scripto. Quello di Firenze e il subsequente a comune beneplacito di ciascuno.

QUESTA SEPOLTVURA A FATTO FARE EL PIOVANO ARLOTTO PER SE & PER TUTTE Q.LLE PERSONE LE QUALI VI VOLESSINO DRENTO ENTRARE 

domenica 23 aprile 2017

Gli ebrei ribelli

In prossimità della Festa per l'anniversario della Liberazione dal fascismo, ripropongo, con alcune correzioni, un articolo che scrissi nel 2011 per il settimanale di Borgo S. Lorenzo Il Galletto.
Le località menzionate nel testo, all'epoca dei fatti abitate, oggi abbandonate e ignote ormai alla maggior parte degli stessi mugellani, sono situate nel cuore dell'Appennino, per lo più a nord est di Vicchio.
Il mio vuole essere soprattutto un modesto omaggio alla figura - nonché un altrettanto modesto contributo a perpetuare la memoria - del giovane eroe ritratto nella foto d'apertura: Dante Valobra.


L'INVERNO MUGELLANO DEGLI EBREI RIBELLI
La baracca c’è ancora. È un vecchio seccatoio che servì anche da rifugio per gli scalpellini, subito sotto Case Pian Bertozzi nel cuore dell’Appennino, di fronte alla stazione di Fornello che si trova al di là della vallata del Muccione. In questa baracca, non dotata di molti comfort, i fratelli Alfredo e Franco Papini e i fratelli Cesare, Enzo, Sauro e Dante Valobra trascorsero l’inverno tra il 1943 e il 1944.
La Repubblica Sociale Italiana aveva scatenato la caccia agli ebrei. Il famigerato Manifesto di Verona recitava: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. E i Papini e i Valobra erano ebrei. Come scritto di recente in un articolo di Adam Smulevich comparso su Toscana Ebraica, “Il coraggio dei fratelli Valobra (…) rappresenta una risposta al cliché ancora ampiamente diffuso che vede l’ebreo eterna vittima del marcio della Storia”.

La stazione di Fornello, oggi abbandonata.
Ricostruire le vicissitudini di questi sei ebrei ribelli, tre dei quali caduti da eroi, è impresa ardua. Mi limito a pochi elementi. Secondo quanto riferitomi dalla signora Enrichetta Cecchini, che allora come adesso abitava nel piccolo agglomerato di Malnome, trovarono rifugio prima in Granocchio, dove c’era un podere vuoto, indicato loro da Bruno Gasparrini, antifascista di Gattaia. Anche di lì era possibile raggiungere la stazione di Fornello e, col treno, tornare a Firenze per qualche ora, rischiando non poco. Alla stazione, ad ogni modo, si fermavano spesso, ben voluti e aiutati da tutti, a cominciare dal capostazione Adolfo Orlandi, anch’egli partigiano. Poi in Granocchio giunse un gruppo di partigiani reduci dal Pratomagno. I sei ragazzi andarono alla baracca sotto Case Pian Bertozzi e vi rimasero fino a primavera. Non erano abituati alla vita di quasi montagna. Erano cittadini, di famiglie benestanti, avevano studiato a Firenze. I Papini, da parte di madre, “erano imparentati con i Coen, che erano facoltosi commercianti di stoffe. Erano ragazzi molto per bene”, ricorda Enrichetta che li conobbe. Dante, per motivi di salute, dovette tornare a Firenze. Qui fu catturato dall’infame banda Carità e liberato da Villa Triste grazie all’intercessione del Cardinale Dalla Costa.
Patrizia Valobra, figlia di Enzo e nipote di Dante, mi ha raccontato: “Mio nonno con mia zia Velleda, zia Lea, zia Rossana, che facevano le staffette partigiane, erano nascosti – in quanto ebrei - in via delle Forbici. Dante fu catturato perché partigiano, non perché ebreo. Lo torturarono e costrinsero a dire dove era il nonno con la famiglia, ma anch’essi come antifascisti. Riuscì a tacere sui fratelli, ma comunque se fosse stato preso come ebreo la sua sorte sarebbe stata segnata, e neanche il Cardinale Dalla Costa avrebbe potuto salvarlo, ciò che invece accadde. Mia nonna era cattolica e fece interessare Dalla Costa che ottenne la liberazione sua e del nonno, ma sempre in quanto partigiani. Nulla poté fare purtroppo per la famiglia Volterra, che fu catturata nella stessa occasione e poi deportata.”
Sauro e Cesare Valobra a Cetica, 2002

Dante era stato dunque torturato, ma – o meglio: per questo - raggiunse di nuovo i fratelli e riprese a combattere. Dopo l’assalto a Vicchio del 6 marzo, per sfuggire al rastrellamento del 12 si unirono alla Caiani, che poi sarebbe divenuta la divisione Potente, e raggiunsero il monte Filetta, ove rimasero una settimana circa. Secondo Adolfo Orlandi, che faceva parte della Brigata Rosselli, probabilmente c’erano anche loro al Pian degli Arali in occasione di uno scontro avvenuto il 7 aprile. Mancano testimonianze dirette, ma la cosa non è improbabile dato che il 2 si erano recati a Malnome insieme con altri partigiani, come racconta ancora Enrichetta Cecchini. “Erano venuti tutti a pranzo da noi, per la domenica delle Palme. Ricordo molto bene soprattutto Dante, che sembrava proprio un ragazzino. Pranzarono insieme con altri partigiani, poi partirono, e Dante non lo rividi più.”. Sul Pratomagno il 12 aprile morirono entrambi i Papini. Orazio Barbieri, in ‘Ponti sull’Arno’, narra che i partigiani “stanno dedicandosi alla riorganizzazione del gruppo, alla revisione delle armi, quando vengono completamente accerchiati da forze preponderanti. I partigiani tentano di resistere o di sfuggire, ma inutilmente. Gli ultimi sei, compreso Pancino [uno dei capi], son fatti prigionieri dai tedeschi. Dopo averli maltrattati e derubati anche degli oggetti personali, i tedeschi decidono di fucilarli all’istante. Pancino, i fratelli Papini, Attilio Maglioni, Scarpa e Quito, vengono messi al muro con le mani legate. (…). Senza attendere nessun ordine di fuoco i nazisti sparano una, due, tre, quattro, cinque raffiche.” Solo Pancino riuscirà a sopravvivere miracolosamente.

Patrizia Valobra ha messo a disposizione dell’Archivio dell’Istituto Storico per la Resistenza in Toscana un diario e una straziata lettera del padre, grazie alla quale è stato possibile ricostruire la tragica fine di Dante Valobra, avvenuta a Cetica il 29 giugno. “Dante, staffetta”, scrive Enzo Valobra al fratello Sauro, “fu incaricato di andare a prendere al comando un cannocchiale. Nel ritorno Dante sentendo in fondo valle la sparatoria si diresse senz’altro in quella direzione. (…) Fatti pochi passi sentì dietro una macchia fischiare e credendo essere partigiani si espose un po’ troppo, tanto che bastasse ai tedeschi (vestiti in borghese) di tirargli una prima raffica che lo colpiva allo stomaco. Caduto in terra, il povero Dante estraeva la rivoltella, ma una nuova raffica in faccia gli impediva di compiere l’estrema vendetta. È morto da eroe e citato all’ordine del giorno della Divisione [nella foto] con la seguente motivazione: ‘Tornando da una missione ed intuendo la sua Compagnia in combattimento impegnata cadeva nell’intento di raggiungere ad ogni costo il suo Comandante’”. Oltre al Giglio della Liberazione, conferito anche ai fratelli, a Dante Valobra è stata concessa la Stella Garibaldina.

venerdì 21 aprile 2017

Il Crociato inesistente: Pazzino de' Pazzi


Questo affresco, che di trecentesco ha solo lo stile, si trova nella chiesa suburbana fiorentina di San Donato a Torri, e fu realizzato dal pittore e restauratore Gaetano Bianchi verso il 1870. L'iscrizione alla base dice: Messer Pazzino de' Pazzi tornato vittorioso dallo acquisto del S.to Sepolcro rende grazie a Dio et a Sancto Donato. Un falso artistico che illustra un falso storico. Vediamo perché.

Si fa risalire la tradizione dello Scoppio del Carro alla prima Crociata. Pazzino de' Pazzi, fiorentino, fu il primo a piantare la bandiera cristiana sulle mura di Gerusalemme e per questo - si era nel 1099 - ebbe da Goffredo di Buglione, oltre lo stemma di famiglia, tre pietre focaie provenienti dalla Chiesa del Santo Sepolcro, reliquie da usare per l'accensione dei fuochi durante la notte della Pasqua di Resurrezione. Pazzino importò così a Firenze il rito ortodosso del Fuoco Sacro, che viene celebrato ancora oggi nella Chiesa del Santo Sepolcro. Un rito antichissimo: ne riferisce anche Eusebio di Cesarea. È un evento miracoloso che si ripete ogni Sabato Santo. In realtà si tratta di una specie di gioco di prestigio, peraltro di straordinaria suggestione, grazie al quale, dalla prima fiammella accesasi in modo 'sovrannaturale', tutti i presenti ne accendono a loro volta altre, e la luce si espande nella chiesa e poi fuori.


Il Palazzo dei Pazzi, via del Proconsolo
Ugualmente suggestiva doveva essere la processione di fiammelle accese che usciva dall'abitazione della famiglia dei Pazzi che, come abbiamo visto, deteneva le pietre focaie. Ognuno poi, con la propria, avrebbe acceso il focolare di casa. Voleva dire, a Firenze come a Gerusalemme, che Cristo era risorto e la luce tornava sulla terra. In seguito si adottò il carro perché la luce e la gioia si riversassero su tutta Firenze. Il rito fu poi spostato alla domenica e, con aggiustamenti nel corso del tempo, divenne infine quello a tutti noto, che parte durante la Messa solenne col volo della colombina all'intonazione del Gloria. Le pietre furono poi custodite nella chiesa di S. Biagio, detta anche di S. Maria Sopra Porta, attualmente sede della Biblioteca di Parte Guelfa. Oggi si conservano nella Chiesa dei SS. Apostoli.


Abbiamo detto tradizione, però. La realtà è diversa. Nel 1982, all'interno di un volume curato da Franco Cardini (Toscana e Terrasanta nel Medioevo, Alinea ed. )Sergio Raveggi scrisse una monografia non molto conosciuta. Il titolo è: Storia di una leggenda: Pazzo dei Pazzi e le pietre del Santo Sepolcro. Lo storico, in modo circostanziato e convincente, compì una vera opera di separazione della storia dalla leggenda, del grano dal loglio. Ne tento un riassunto.

Il reliquiario con le tre pietre focaie e la colombina
nella Chiesa dei SS. Apostoli
Anzitutto le reliquie, le tre pietre focaie non provengono affatto dal Santo Sepolcro. Lo comprese facilmente già nel 1773 il capitano Giovanni Mariti. Lui i Luoghi Santi li aveva visitati e aveva constatato che nel Santo Sepolcro di pietra focaia non ce n'era traccia. Le reliquie potevano invece provenire dal Monte Oliveto, che era ricco di selci. Ciò, aggiungeva Mariti, non infirmerebbe il resto della storia. Le pietre potrebbero essere state portate in Italia proprio da un crociato, magari uno della famiglia Pazzi. 
 

La detenzione delle pietre e del rito da parte della famiglia Pazzi fino dalle origini è in effetti documentata. Nella discussione del 1909 cui ho accennato nel post precedente, Davidsohn asserì che l'uso del carro fu ideato dai Pazzi solo dopo la congiura (1478) per riguadagnare popolarità. Padre Ristori, priore della Chiesa dei SS. Apostoli, rispose dimostrando carte alla mano che il carro era già stato adottato in epoca ben anteriore, e Davidsohn ne prese lealmente atto.

Ciò che non è documentato è il legame con la prima Crociata. Non lo è semplicemente perché questo legame non esiste. Né è mai esistita la figura dell'eroico portabandiera Pazzino. Dante nella Commedia non ne fa menzione, pur trattandosi di un personaggio e un episodio, sulla carta, più che eclatanti. Giovanni Villani - che aveva sposato una Pazzi e la famiglia la doveva conoscere bene - riferisce il rito del sabato santo, conferma che il rito stesso, ispirato a quello di Gerusalemme, è appannaggio dei Pazzi da molti anni, ma non fa alcun cenno alla Crociata. Per di più, non è mai stata documentata una partecipazione dei fiorentini alla prima né alla seconda Crociata, ma solo alla terza.
La terza Crociata, e ci sono i documenti, fu promossa a Firenze nel febbraio 1189, quando fu consacrata la Chiesa di San Donato a Torri citata all'inizio. Naturalmente, essendo trascorso quasi un secolo dalla prima, neanche se fosse realmente esistito Pazzino de' Pazzi avrebbe potuto far parte dei non pochi fiorentini 'arruolatisi' in quell'occasione per liberare il Santo Sepolcro. Fu inserito tra i partecipanti solo all'epoca dell'affresco di Gaetano Bianchi, per procurare un blasone in più alla chiesa.

La leggenda di Pazzino compare nero su bianco per la prima volta nel poemetto di Ugolino Verini detto il Verino dal titolo De illustratione urbis Florentinae, scritto tra il 1480 e il 1487. Secondo Raveggi, doveva essersi sviluppata nella prima metà del '400. Alcuni quesiti restano aperti, e lo storico riconosce di non poter avanzare altro che ipotesi, per quanto verosimili e, s'intende, su basi razionali.
Come ebbero i Pazzi il monopolio della fiammella? Probabilmente in un modo molto prosaico. Della fiamma sacra a Gerusalemme veniva fatto un lauto commercio. I Pazzi erano mercanti, e poterono aggiudicarsela dalla Chiesa ortodossa a caro prezzo. La simonia non era prerogativa della sola Chiesa romana!
Il Canto dei Pazzi, via del Proconsolo
Come nacque poi la figura di Pazzino? Ecco una possibile spiegazione. Jacopo Nacca Pazzi fu un personaggio storico - vero - che durante la battaglia di Montaperti (1260) fu assalito a tradimento e, nonostante gli avessero mozzato le braccia, volle stringere ugualmente con i moncherini fino all'ultimo lo stendardo di Firenze. Un eroe nel posto sbagliato. Avere tra gli avi un eroe di Montaperti non dava purtroppo gran lustro alla famiglia guelfa. Così forse si volle traslare l'episodio alla più lontana prima Crociata, mantenere il particolare della bandiera e fargli avere un lieto fine. E dargli il nome del figlio di Jacopo Nacca, quel Pazzino, "ardente guelfo, che - narra l'Enciclopedia dantesca - si rifugiò a Lucca dopo Montaperti, e, tornato che fu in patria, divenne uno fra i maggiori esponenti della sua fazione e poi sostenitore di Carlo di Valois e dei Neri; il pugnale di Paffiera Cavalcanti vendicò il 10 gennaio 1312, uccidendolo, le iniquità e gli assassini da lui perpetrati ai danni di Corso Donati e di Massimo de' Cavalcanti".







martedì 18 aprile 2017

Un tragico Scoppio del Carro 108 anni fa


Mattina del 16 aprile 2017, Pasqua di Resurrezione. Firenze, Piazza del Duomo. Scoppio del Carro. Il tradizionale volo della colombina, che parte all'intonare del Gloria durante la Messa, è impeccabile, all'andata come al ritorno. I lavoratori della terra respirano. Sarà un buon raccolto. Da secoli vige questa sorta di superstizione, in fondo benevola.
Non proprio tutto, però, è andato per il verso giusto. Come riferisce il Corriere Fiorentino, "Lo spettacolo pirotecnico della tradizione pasquale fiorentina non ha funzionato al meglio. Molti petardi del brindellone sono esplosi prima, altri non sono esplosi e i gonfaloni in cima al carro si sono aperti molto prima del previsto."


Il buon senso lascia ritenere che il livello di professionalità di chi allestisce il Brindellone sia oggi tale da scongiurare qualunque sorta di rischio insito in una manifestazione pirotecnica cui assistono a distanza ravvicinata migliaia di persone. Anche mettendo in conto l'eventualità di qualche intoppo all'interno della, chiamiamola così, scaletta degli schianti, come accaduto stavolta. Questo livello di professionalità non poteva purtroppo essere analogo in tempi passati, quando mancavano le conoscenze tecniche attuali. Ne è drammatico esempio l'episodio terribile della Pasqua 1909.


La foto sopra, molto rara, è ripresa dall''Album di Firenze, pubblicato a puntate da La Nazione nel 1976 a cura di Giorgio Batini. Quell'anno, lo Scoppio si tenne in Piazza Vittorio Emanuele II, oggi Piazza della Repubblica. Fu un caso raro ma non unico. In altri anni per lo Scoppio si scelse anche Piazza San Firenze.
Quanto avvenne lo lascio raccontare alla invidiabile prosa dello stesso Giorgio Batini.

La mattina del 10 aprile 1909, dalla girandola, appena incendiata dalla Colombina, si sganciò la "bomba" centrale che venne proiettata tra la folla che gremiva la piazza, andando a cadere davanti alla pasticceria Gigli. Non si trattava di un mortaretto di eccezionale potenza, ma lo scoppio verificatosi in mezzo alla calca ebbe gravissime, tragiche, conseguenze: una bambina di otto anni colpita alla testa dall'esplosione morì sul colpo, mentre un giovane di diciotto anni, un aiutante fotografo, morì due giorni dopo all'ospedale di S. Maria Nuova dove era stato ricoverato in gravissime condizioni. Altri cinque spettatori restarono feriti. Fu ordinata immediatamente un'inchiseta ma le cause dell'incidente non furono mai accertate; gli allestitori del Carro furono fermati, ma vennero rilasciati dopo pochi giorni, quando una perizia dimostrò che non era stata commessa alcuna irregolarità nella fabbricazione dei fuochi artificiali e nell'allestimento del carro. Non trovò nemmenno conferma la voce corsa in un primo tempo, che potesse essersi trattato, cioè, di un attentato anarchico. Nel corso degli accertamenti, l'autorità giudiziaria ordinò anche il provvisorio sequestro di tutte le fotografie scattate durante il tragico epilogo della tradizionale manifestazione. 

Pochi giorni dopo, in Consiglio comunale, i socialisti, che facevano parte della maggioranza, chiesero l'abolizione della cerimonia; ne nacque un vivace dibattito che divise a lungo l'opinione pubblica tra favorevoli e contrari. Dibattito in cui si inserì anche lo storico Robert Davidsohn, autore della celebre, monumentale Storia di Firenze. Davidsohn colse l'occasione per riandare alla discussione sulle origini di questa tradizione, come si dice, tra storia e leggenda. Gli rispose Padre Ristori, priore della Chiesa dei SS. Apostoli. Da questo alterco peraltro civilissimo emersero alcuni elementi interessanti sull'argomento. Ne scriverò a breve.

Un ringraziamento agli amici Marisa Mazzoni e Massimo Fratini, ai quali ho proditoriamente rubato le foto dello Scoppio del Carro 2017 cui non ho potuto partecipare di persona.

sabato 15 aprile 2017

Lorenzo Lippi vs. Pietro da Cortona


La chiesa dei Santi Michele e Gaetano, o più brevemente di S. Gaetano, si trova in Piazza Antinori a Firenze e non è particolarmente presa di mira dal turismo di massa, pur possedendo una non indifferente quantità di tesori. Se ci andate, tra le altre cose, avrete modo di ammirare, nelle cappelle di sinistra Franceschi e Ardinghelli, che sono una accanto all'altra, i lavori di due artisti seicenteschi destinati a non intendersi: Pietro da Cortona, al secolo Pietro Berrettini (1596-1669) e Lorenzo Lippi (1606-1665).

Pietro da Cortona: L'età dell'oro,
Sala della Stufa, Palazzo Pitti
Nel 1637 il Granduca Ferdinando II, per decorare le stanze di Palazzo Pitti, volle a Firenze una delle superstar del barocco romano. Pittore, architetto, stuccatore, Pietro da Cortona aveva fatto delle decorazioni di Palazzo Barberini una sorta di manifesto di questo stile.
Giunto a Firenze, Pietro dispensò generosamente il suo indubbio virtuosismo nella Sala della Stufa e nelle sale di Venere, Giove, Marte e Apollo.

Naturalmente, tutti gli artisti che lavoravano in una Firenze, bisogna dirlo, un po' sonnolenta, vollero andare a esaminare l'opera di questo artista proveniente da Roma  ed esponente di una sorta di avanguardia dell'epoca. Le trovate e le soluzioni artistiche di Pietro non mancarono di affascinare i numerosi pittori fiorentini. Molti ne subirono l'influenza e il loro stile cambiò. Il Volterrano è un buon esempio.

Non fu così per Lorenzo Lippi. Fiorentinaccio di grande talento e di grande cultura, religiosissimo ma non bacchettone, al contrario personaggio allegro e beffardo nonché ottimo compagno di mangiate & bevute, Lorenzo era uno degli allievi prediletti di Matteo Rosselli.

Lorenzo Lippi: Crocifissione, 1647. Museo S. Marco
Certamente ammirò opere come L'età dell'oro, ma non si lasciò irretire. Scrisse il suo biografo e amico Filippo Baldinucci che egli aveva come un chiodo fisso "sempre intorno alla semplice imitazione del naturale, poco o nulla cercando quel più che anche senza scostarsi dal vero può l'ingegnoso artefice aggiunger di bello all'opera sua". Non c'è dunque da sorprendersi se il barocco gli risultava uno stile estraneo non solo a lui, ma alla storia e alla cultura più squisitamente fiorentina, della quale si sentiva parte attiva. Giova poi ricordare che in tutta la sua vita, a parte Matteo Rosselli, considerò come suo maestro, "in tutto e per tutto conforme al suo cuore", quel Santi di Tito che si era battuto contro le degenerazioni del manierismo.

Santi di Tito: L'Assunta.
Pieve di Fagna, Scarperia (FI)

Leggiamo cosa scrisse la compianta Chiara D'Afflitto (1953-2007), la più autorevole studiosa di Lorenzo Lippi dei giorni nostri:

Nel suo caso [di Santi di Tito] la reazione puristica, instaurata allo scadere del '500, era mirata a superare le degenerazioni della cultura tardo manierista, ai fini di una esposizione più diretta e colloquiale, dei temi sacri; nel caso del Lippi l'obiettivo era quello di contrastare le soluzioni 'morbide' della pittura contemporanea locale e le innovazioni barocche importate a Firenze, in nome di valori stabili e condivisi e a garanzia di una piana comunicazione di contenuti.

 E ancora: 

Il suo 'genio alla pura imitazione del vero' [ancora Baldinucci] non era in funzione realistica bensì di un rigoroso purismo figurativo, dal quale era bandito ogni cedimento decorativo. 


Lorenzo Lippi lavorò alla Cappella Ardinghelli in S. Gaetano tra il 1642 e il 1643. La volta, qui riprodotta, non sarà magari il suo capolavoro. Ma ci risulta veramente come una sorta di risposta al dilagare dello stile che egli seguitava a non comprendere. Con questo affresco, Lorenzo sembra dire ai contemporanei: "Sentite figlioli, a nessuno salti in mente che io dica che non mi garba il barocco perché non son capace di fare gli svolazzi dei putti contorsionisti. Volete gli angiolini? Vi ce li metto, con le loro brave ombre portate che neanche Rembrandt. Ma li posiziono in modo che i vostri sguardi non ci si soffermino per dire uh quant'è bravo Lorenzo, ma ci scorrano per convergere sull'evento che rappresento: l'Incoronazione della Vergine. Su questo si deve concentrare l'attenzione di chi guarda e a questo deve concorrere ogni elemento di contorno. A Firenze si fa così. Lo si fa da quando Giotto ha inventato la pittura come ancora oggi è universalmente concepita, barocco compreso (e come lo sarà anche nel XXI secolo), e da questo solco non ho nessuna intenzione di uscire."

Pietro da Cortona, oberato da una marea di ingaggi, impiegò parecchi anni per realizzare la grande pala della cappella Franceschi. Il Martirio di San Lorenzo, che gli fu commissionato nel 1637, vi fu collocato alla fine nel 1653. Lo stile è del tutto inconfondibile, ma vi è una maggiore cura nel ridurre la frammentarietà e la dispersione a favore di un centro focale costituito dalla figura del Martire. La sacralità del soggetto lo imponeva, certo, ma si ha come la sensazione che il Maestro del barocco, durante il suo soggiorno, abbia assorbito almeno in parte la lezione fiorentina e vi abbia, sempre in parte, adeguato il suo stile.





lunedì 10 aprile 2017

Un Enrico Pazzagli inedito: le caricature



Si può affermare con ragionevole sicurezza che Enrico Pazzagli, classe 1933, è il più noto e stimato pittore mugellano. Dei suoi indimenticabili acquerelli, delle sue vedute di luoghi a elevato rischio oblio, delle sue illustrazioni storiche, è stato raccontato molto. Il suo lavoro, o meglio divertimento, come caricaturista è invece sconosciuto ai più. Io stesso ne sono venuto a conoscenza solo qualche giorno fa, andandolo a trovare nella sua bella casa alle porte di Borgo S. Lorenzo. Enrico ha cominciato a raccontarmi dei suoi inizi di carriera. Carriera per modo di dire, perché non ha mai voluto fare della pittura la sua (unica) professione.

Da sin. Pier Nicola Ricciardelli, Enrico Pazzagli, Filippo Benci, Diana Polo, Mauro Baroncini
Talento e passione gli nacquero frequentando da ragazzo lo studio di Mario Lapi, suo parente alla lontana. Dopo aver lavorato per un'azienda di cartelli pubblicitari all'inizio degli anni 60, si mise in proprio. La sua prima personale risale al 1968. 
Fu poi richiesto a gran voce dalla Pastuco, un'azienda di lavorazione della plastica, come disegnatore grafico (aveva frequentato la scuola d'arte e pubblicità). Questa venne poi rilevata dagli americani. Si era intorno al 1974. Fu allora che colleghi e/o dirigenti iniziarono ad apprezzare le caricature che per divertimento faceva loro. Gliene chiedevano sempre più spesso, ed Enrico non si tirava indietro. Alla fine, nessuno si salvò dai suoi acquerelli (e non gli pareva il vero). Non si salvò neanche il gigadirettore intergalattico della Mobil Plastic, emanazione diretta della Mobil Oil. Sì: una delle sette sorelle!

Queste immagini Enrico non le ha più, ma ne conserva le foto, e io le ho rifotografate, con tutti i limiti che ciò comporta. "Certo, mi dice, per apprezzarle bisognerebbe conoscere tutti i personaggi che vi ho immortalato. Ognuno ha la sua caratterizzazione, il suo contesto, la sua battuta caratterizzante. Tutti ridevano, tutti mi ringraziavano. Sì, anche il megadirettore."
In effetti, ora si può 'solo' ammirare incondizionatamente la cura straordinaria con cui i personaggi sono disegnati uno ad uno, e immaginarsi la quantità di retroscena che le figurine sottintendono.



Io però mi ricordavo di alcuni ritratti che Enrico mi aveva mostrato tempo addietro. Gli ho chiesto di ricercarli. Me li ha ritrovati. Anche di questi gli sono rimaste solo le fotografie. 
Sono figure di personaggi incontrati da Enrico lungo gli anni, tratteggiati in modo meno essenziale che penetrante. Non sono caricature. Non sono neanche ritratti.


L'ultimo mostra Michelino. "Un orfanello, rinvenuto nel vagone di un treno merci, e che per tutta la sua esistenza non seppe chi era...". Qualcosa che davvero non fa sorridere. Eppure questi dipinti, peraltro eseguiti nello stesso periodo, sono in qualche modo parenti stretti di quelli che strappavano risate.Tutti concorrono a farci capire come Enrico Pazzagli, famoso soprattutto per i suoi paesaggi, sia uno straordinario osservatore dell'animo umano, con un talento smisurato nel riportarlo su tela o su carta. E dotato di una ugualmente straordinaria sensibilità, che diviene capacità di stabilire quando i suoi soggetti meritino una sana, allegra risata o, al contrario, un sorridente ma commosso senso di partecipazione umana.   







giovedì 6 aprile 2017

Baccia, che allevò un Vescovo e due Papi

Sulla parete interna della facciata della Chiesa di San Giovanni Maggiore, presso Panicaglia (Borgo S. Lorenzo, FI), anche se non si notano molto, vi sono, situati a circa quattro metri dal suolo sopra alle due porte minori, le riproduzioni di due busti, i cui originali si trovano adesso al Museo Beato Angelico di Vicchio, e che sovrastano due lapidi. Lo storico mugellano Luigi Andreani, nel 1917, scrisse una breve monografia su una di esse.

La lapide, di pessima fattura, era ardua da interpretare. Valentino Felice Mannucci, nel compilare nel 1742 le sue Notizie del Borgo San Lorenzo e suo territorio, non ne era venuto a capo. Andreani ricostruì a fatica l'enunciato, pieno di simboli e abbreviazioni:

BACCIAE MINERVETTAE DE MOEDICIS, SOLERTIAE CVIVS FILIOS ET FAMILIAM OMNEM LAV[RENTIVS] ILLE MED[ICES] PRAEMORTVA VXORE, CREDIDIT, EI[QVE] SIC CONTIG[IT]LEONEM ET CLEMENTEM PONT[IFICES] MAX[IMOS] FELICITER EDVCARE, FR[ANCISCVS] ARCHIE[PISCO]PVS TVRRITANVS E[T] ARETINVS EP[ISCOP]VS I[PSIVS] MATRI S[ACRAVIT]



Il busto - scrisse - è dunque dedicato a Bartolomea di Bernardo de' Medici, moglie del cavalier Tommaso di Andrea Minerbetti e madre di Francesco Minerbetti, di cui parleremo poi. Bartolomea, detta Baccia (oggi come diminutivo non suona molto fine), ebbe la ventura di ricevere in affidamento da Lorenzo il Magnifico, dopo che era rimasto vedovo, i di lui sette figli e - per lo meno - un nipote. Tra i figli di Lorenzo vi era Giovanni, futuro Papa Leone X. Il nipote era Giulio, futuro Papa Clemente VII. La donna raffigurata fu, dunque, l'educatrice di due papi e un vescovo, il figlio Francesco. Quest'ultimo, sempre secondo la lapide, volle dedicare, a lei e al padre, un doppio monumento. Seppure - Andreani se ne chiede il perché, senza sapere rispondere - non di grande valore, oltre che situato nei due punti forse più bui della chiesa.

Parlerò in un prossimo post dell'origine inglese e della discendenza da S. Thomas Becket, postulata ma molto dubbia, della famiglia. I Minerbetti furono ad ogni modo eruditi e munifici, e diedero lustro a Firenze. Ebbero, secondo lo storico Giuseppe Maria Mecatti (1754), 33 priori, 13 gonfalonieri, sei senatori, Cavalieri di Malta e di S. Stefano, e alcuni Vescovi. Con ogni probabilità, Francesco fu l'esponente più illustre. Fu scolaro di Bastiano Salvini, cugino e discepolo di Marsilio Ficino. L'elenco delle cariche religiose da lui ricoperte è interminabile. Legato come abbiamo visto da parentela ed amicizia con i Medici, quando questi caddero in disgrazia egli fu da Leone X  mandato a Sassari, dove fu Arcivescovo dal 1515 al 1517. Sotto la sua reggenza fu ultimata la ristrutturazione della Cattedrale di San Nicola. Nel 1520 fece restaurare la chiesina di San Maurizio a Doccia, sotto Fiesole, tra due ville (villa Egerton e villa Chambers) di cui la famiglia aveva preso possesso. Nel 1525 divenne Arcivescovo d'Arezzo. Nel 1533, tenendo fede a un voto per il ritorno dei Medici a Firenze, fondò la Chiesa e Monastero di San Silvestro, in Borgo Pinti.

Lapide commemorativa della fondazione del Monastero.
In alto lo stemma Minerbetti. Foto Sailko

Nel 1536 concesse l'autorizzazione a erigere una cappella nel luogo vicino ad Anghiari in cui la Madonna apparve a una pastorella di nome Marietta; cappella che poi sarebbe diventata il Santuario della Madonna del Carmine al Combarbio. Nel 1538 rinunziò al Vescovado aretino per ritirarsi a vita privata, ma ebbe ugualmente numerosi incarichi: venne inviato tra l'altro come ambasciatore per l'arrivo dell'Imperatore Carlo V. Francesco Minerbetti morì nel 1543. Nella cappella di famiglia in Santa Maria Novella pose una lapide dedicata al padre Tommaso e una a se stesso. Palazzo Minerbetti si trova in Via Tornabuoni, angolo Via del Parione.



Come abbiamo visto, Andreani analizzò solo la lapide sotto il busto di Bartolomea. Nella voce dedicata a San Giovanni Maggiore, Emanuele Repetti dà invece una traduzione libera quanto efficace dell'altra lapide, sotto al busto di Tommaso Minerbetti: "Francesco Minerbetti Arciv. Turitano restaurò questo tempio quasi diruto, raddoppiò le sue entrate, e insignì la sua famiglia del di lei giuspadronato". Continua Repetti: "diritto [il giuspadronato] sino dall'anno 1513 stato concesso dal Pont. Leone X a Francesco e ad Andrea fratelli Minerbetti ed ai loro eredi e successori, nei quali infatti si mantenne insino all'ultimo fiato di quella famiglia, spento sul declinare del secolo XVIII". Infatti Andrea Minerbetti, che nel 1774 aveva fatto compilare una storia della sua famiglia attraverso le carte d’archivio, aveva avuto una sola figlia, Teresa. Quando, nel 1771, quest'ultima sposò il Marchese Nicolao Santini, patrizio di Lucca, la famiglia Minerbetti si estinse.