domenica 24 dicembre 2017

Buon Natale!


Quando gli uomini vivevano con la natura, nel tempo dell'anno che il Sole ritornava a salire nel cielo, sentivano di dover festeggiare il grande avvenimento adornando un abete nella foresta e, nella radura luminosa, con danze e canti si rallegravano nel cuore. 
Poi, dal Paese dove il mare non gelava mai, un giorno arrivarono alcuni uomini ad annunciare la grande novella: era nato Uno che portava la luce. La luce dentro di noi, non fuori di noi. Così per festeggiare quest'Uomo unirono la sua nascita alla festa del Sole.
(Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Einaudi 1991)


martedì 19 dicembre 2017

Il mio amico Giuliano Paladini

Giuliano Paladini avrebbe potuto iniziare a dipingere molto prima. Ma ci si mise di mezzo una delusione infantile. Ai suoi tempi poteva capitare – e a lui capitò – di frequentare, alle elementari, classi miste non solo per sesso, ma anche per età: dalla prima alla quinta tutti insieme. Fu indetto un concorso di disegno. Giuliano fece per l'appunto un disegno. La maestra lo prese e lo fece partecipare, ma col nome di una bambina, la prima della classe, che però non sapeva tenere in mano una matita. Vinse il disegno di Giuliano, ma il premio, un ambito e costoso kit per dipingere, se lo aggiudicò la bimbetta. Giuliano non la prese bene, anche se non ha mai portato rancore alla maestra, né alla piccola usurpatrice. Nondimeno, rimosse ogni velleità artistica e non ci pensò più.
Vi sono però appuntamenti che si possono solo rimandare, non annullare. Nel 1971, all’età di 25 anni, Giuliano sposò Laura. Due anni dopo, il bilancio non voleva ancora saperne di quadrare. Pazienza. Volevano lo stesso un quadro da mettere in sala per completare l’arredamento, anche se i mobili non avevano ancora finito di pagarli. Andarono da un pittore, che per una sua opera gli chiese 50.000 lire di allora. Mezza mensilità. Giuliano disse: “Oh, senti: se tanto mi dà tanto, un quadro piglio e lo faccio io!”. Laura scoppiò in una risata epica. Il giorno dopo Giuliano andò a comprare tela, pennelli e colori. Era il 1973.
Nel 1977 Giuliano inaugurò la sua prima personale. 


Fu a Borgo S. Lorenzo presso la galleria La Medicea di Renzo Giovannini. Gli procurò non pochi consensi. Amilcare Giovannini la recensì in termini entusiastici: “…come se il seme di Giovanni Malesci si sia accostato a quello degli altri per creare una ‘pittura mugellana’ destinata sempre a rimanere nel tempo.” Giuliano sorrideva, ma dentro di sé pensava: chi diavolo è Giovanni Malesci?. Perché non solo non conosceva l’erede prediletto di Giovanni Fattori. Non conosceva neanche Giovanni Fattori. “Conoscevo solo Giotto, di nome più che altro." Per forza. A Vicchio è tutto Giotto. Piazza Giotto, Trattoria Giotto, Abbigliamento Giotto, Autocarrozzeria Giotto. "E io da ragazzo, figurati, facevo parte dell'Associazione Pescatori Giotto! Ad ogni modo i Macchiaioli mi divennero familiari solo in seguito. Intanto dipingevo la stalla a Senni, dove mio babbo ancora lavorava. E poi i posti dove andavo a pescare, anche se questi quadri sono andati perduti. Sono stato un autodidatta al 100%. Anche perché volevo farmi insegnare da Mauro Simoni ma, giunto davanti alla sua porta, mi vergognai di suonare…”

Alla Casa di Giotto con Fabrizio Borghini e Sonia Paladini

Il talento, se prorompente e accompagnato dalla passione, non puoi fermarlo. Le conoscenze tecniche e le basi culturali vengono di conseguenza. Quarant’anni di cammino e crescita hanno fatto di Giuliano una delle figure più importanti nel panorama artistico mugellano. Come pittore e come promotore culturale. L’Associazione Giotto e l’Angelico, di cui oggi è Presidente, nacque una quindicina d’anni fa per volontà di diversi pittori, e lui era uno dei più entusiasti. Da allora a oggi, quanti grandi nomi vi sono passati? Eccone solo alcuni: Antonio Cifariello, Mater, Luigi Romei, Carlo Galleni, Vedda, Marco Sbolci. Ma la presenza di Giuliano è sempre stata costante. La Casa di Giotto a Vespignano, proprio grazie all’Associazione che l’ha avuta in gestione dal Comune di Vicchio, è oggi un polo culturale di prim’ordine dove si fanno conferenze, teatro, concerti, mostre, e – direi soprattutto – s’insegna. Corsi di acquerello, intaglio, pittura a olio, arazzi e via elencando. “Non abbiamo ambizioni da accademia” ha tenuto a precisarmi. “L’intento, mio e dei miei colleghi, è quello di aiutare persone che lo desiderano a migliorarsi, ad affinarsi, ad acquisire nuovi mezzi per poter esprimersi e comunicare nel miglior modo possibile. Qualunque uso vogliano fare di quanto imparano: un hobby, una passione, una professione.”.

Un'insolita (ma non tanto) marina.

Quanto ai soggetti di Giuliano, preferisco (de)scriverne raccontando una storia, per sua stessa ammissione la più significativa della sua vicenda sia artistica sia umana.
“Una quindicina d’anni fa” racconta “il periodico veronese Vita in campagna cercava, per una copertina, un dipinto che mostrasse un’aia, e trovarono uno dei miei sul web. Mi chiesero l’autorizzazione per usarlo e gliela concessi volentieri. Fu un successone. Poi però non seppi più nulla di loro. Dopo un silenzio di 5-6 anni, un giorno ricevetti una copia del periodico. Dentro c’era una lettera in cui mi proponevano una collaborazione continuativa con loro, per le copertine.”. Questa collaborazione dura ancora oggi, e toccò il suo punto più alto nel 2014: una esposizione, allestita all’interno della Fiera svoltasi a Brescia e organizzata dal periodico stesso. Durò solo tre giorni. Ma alle volte contano più tre giorni di trent’anni. 38.000 visitatori poterono ammirare 40 dipinti di Giuliano Paladini.

 “Non mi aspettavo una risposta così profondamente sentita”, mi raccontò. “Da sempre il mio intento è trasmettere col pennello il cuore della campagna, e del lavoro che la lega all’uomo. Mai prima d’ora mi era capitato di comprendere in modo così palpabile di esserci evidentemente riuscito. Visti i quadri, tutti volevano parlare con me, emozionati, commossi, un paio con le lacrime agli occhi. Sono stato preso d’assalto. E non erano critici d’arte, erano soprattutto contadini, giovani e vecchi, tutte persone legate in modo intimo al lavoro della terra, che là è molto sentito. Mi facevano domande, mi facevano complimenti per i dipinti, mi ringraziavano solo per averli fatti. Elogi dalla critica ne ho avuti tanti ma, per carità con tutto il rispetto per la critica, questi sono stati per me tanto più importanti in quanto provenivano da persone appassionate non di pittura, bensì del loro lavoro. Del quale, mi hanno detto, ho colto l’essenza.”. Quello della Fiera è diventato un appuntamento annuale fisso, cui Giuliano non partecipa più da solo, ma in compagnia di suoi allievi.


Se vivessimo anche solo una quarantina d’anni fa, avrei potuto scrivere: Giuliano Paladini, ormai anziano, continua a dipingere. Ma Giuliano ha avuto la fortuna di vivere in un’epoca in cui nessuno si sorprende se passati i 70 si è ancora nel pieno dell’attività. Giuliano è per l’appunto ancora nel pieno dell’attività. E guarda avanti. Dopo aver esportato i suoi lavori dal Mugello verso il resto della Toscana, e poi verso Liguria, Emilia Romagna, Friuli, Veneto, Lazio (quante personali non se lo ricorda neanche lui, gli sembra oltre la sessantina), non si è fermato e non si ferma. Si è dato e si dà da fare, prima per la realizzazione e ora per la promozione, di un’altra creatura dell’Associazione Giotto e l’Angelico: il libro celebrativo del 750° anniversario della nascita di Giotto. S'intitola Giotto e il Colle di Vespignano, Ed. Masso delle Fate. Da cosa nasce cosa, e dal volume stanno nascendo nuove iniziative e collaborazioni. Mi limito a citare quella con il pittore e scultore Adele Vadacca di cui ho parlato di recente qui.

A Pontassieve con Mauro Mannelli e il sottoscritto. Foto di Sandro Zagli


 Il 16 dicembre Giuliano Paladini ha inaugurato la sua ultima personale. S'intitola La mia campagna, sarà visibile fino al 31 gennaio 2018 ed è allestita all'interno del Palazzo Comunale di Pontassieve, nella bella Sala delle Eroine affrescata da Ferdinando Folchi. Com'era da aspettarsi, è stata una festa. Oltre che, ça va sans dire, una conferma, l'ennesima, del valore e della sincerità di un artista instancabile e generoso. "Pontassieve è una località nei dintorni della quale ho dipinto molto spesso: i casolari, i campi, la vita rurale, insomma i soggetti che amo da sempre ritrarre, che qui non di rado mostrano degli spunti di uno straordinario interesse, e da cui ho ottenuto risultati di grandissima soddisfazione.”

giovedì 7 dicembre 2017

Messeri e buon vino da Bellagio a Vicchio.


Si legge sul sito del pittore e scultore Abele Vadacca, di Bellagio: "Uno dei simboli ricorrenti è la piuma, quale raffigurazione di leggerezza, delicatezza, libertà." E una piuma si trova piantata sul tronco di supporto a sovrastare un bassorilievo di terracotta dai colori caldi, che da domenica 3 dicembre fa mostra di sé nei locali della Casa di Giotto a Vespignano (Vicchio).
Il bassorilievo s'intitola Messeri e buon vino in viaggio nel tempo. Mostra Dante e Giotto che, in opportuna presenza di un oste compiacente, stanno per fare un brindisi di fronte la Casa di Giotto stessa. Abele è venuto dalle sponde del Lago di Como, insieme con l'amico Giulio De Bernardi, per portarlo in dono agli amici dell'Associazione Giotto e l'Angelico.
 
Giulio De Bernardi e Abele Vadacca

L'amicizia così suggellata nacque nel 2015 a Bellagio. L'Associazione Giotto e l'Angelico partecipò all'Expo. Un folto gruppo di artisti che ne facevano parte si recò a Milano. Terminata la kermesse, si presero un giorno di vacanza. Trovatisi sul Lago di Como, decisero di andare a visitare Bellagio. Vi giunsero all'ora di pranzo inoltrata. Mossi da istinti gustativi ben più che da velleità artistiche, nondimeno rimasero colpiti dall'insegna di un locale chiamato La Divina Commedia. Entrarono. Conobbero il deus ex machina Giulio De Bernardi e, tra un - prelibato - piatto e l'altro iniziarono a disquisire con lui di arte, di storia, di Toscana, di Dante, di pittura. E di Giotto. Per Giulio fu un invito a nozze, non avrebbe chiesto di meglio. Non la finivano più. "Insomma nacque un'amicizia, gli interessi comuni erano veramente tanti" mi racconta Giuliano Paladini, Presidente dell'Associazione. "Giulio è venuto a trovarci più volte a Vespignano, e ci ha voluto presentare il suo grande amico Abele. Anche con lui l'intesa è stata immediata."

Abele Vadacca, classe 1964, allievo di Floriano Bodini, della Toscana ha conosciuto soprattutto Carrara, per motivi non difficili da comprendere. Il marmo resta il suo materiale preferito ("il bronzo è un po' più puttana del marmo" ha ammesso), e poi sulle Apuane ha incontrato e conosciuto colleghi del calibro di Giacomo Manzù e Henry Moore. Di quest'ultimo ricorda ancora l'umiltà da maestro artigiano che lo caratterizzava, unita all'attenzione per le piccole e piccolissime forme della natura - conchiglie, ecc.-, lui che al grande pubblico è noto soprattutto per certe sue opere mastodontiche.
Naturalmente, cercherete invano tra le opere di Abele riferimenti diretti a Moore o ad altri maestri, perché il suo percorso estetico è assolutamente personale. Guardate, sul suo sito, tutte le variazioni sul già citato tema della piuma. Guardate le sue opere monumentali, tra cui la splendida Maternità. Oppure le sue opere pittoriche, in cui ogni volta sembra stare per cedere alla tentazione di lasciare il figurativo, ma all'ultimo tuffo al figurativo rimane fedele, non senza aver conferito alle sue forme aspetti nuovi che sfociano in interpretazioni del tutto inedite.

Giulio De Bernardi, Abele Vadacca, Fabrizio Borghini,
Adriano Bolognesi e Giuliano Paladini

L'idea del brindisi tra Giotto e Dante è stata di Giuliano. Il quale ha sempre avuto un'idea fissa, che purtroppo la storia non è in grado di confermare: che a Vespignano ci sia stato un incontro tra il padre della lingua italiana e il padre della pittura moderna. "Se questo incontro non c'è stato, mi piace immaginarmelo lo stesso. Ne ho parlato con tanti. A voler dirla tutta ne ho stressati tanti." Confermo, tra questi ci sono anch'io! "Finché alla fine ho convinto Giulio e Abele, i quali hanno accettato di buon grado di essermi complici, e hanno inventato insieme questo episodio di fronte la Casa di Giotto."


Così, Abele ha creato un bozzetto, che - a illustrare un testo di Fabrizio Scheggi, anch'egli convinto da Giuliano - è comparso sul libro Giotto, la casa, il Colle di Vespignano, realizzato dall'Associazione per le edizioni Masso delle Fate in occasione del 750° della nascita di Giotto. Per illustrare questo episodio storico che non c'è mai stato ma che in fondo tutti amiamo credere ci sia stato, Abele ha voluto ritrarre l'oste che mesce ai due illustri ospiti con le fattezze di Giulio De Bernardi.
Lo stesso bozzetto è stato presentato lo scorso 8 ottobre a Bellagio, con una cerimonia solenne e partecipata che Giuliano Paladini ancora ricorda con commozione. Del resto, sul Lago di Como Giuliano ci era tornato già varie volte.
Dal bozzetto si è approdati al bassorilievo. Abele ha preferito la terracotta per l'idea di calore, soprattutto in senso umano, che è in grado di trasmettere.
Il 3 dicembre, infine, la consegna dell'opera alla Casa di Giotto. Ultimo atto, ma solo per quanto riguarda il bassorilievo, perché non ci sono dubbi che la collaborazione tra Vespignano e Bellagio è solo agli inizi.




sabato 25 novembre 2017

Le grazie del Ponte alle Grazie


Il fatto che un libro intitolato Fra cielo e acqua - Le Romite del Ponte alle Grazie sia andato rapidamente esaurito - o giù di lì - non può che fare piacere. Vuol dire che a volerne sapere di più della nostra storia e delle nostre radici sono davvero in tanti e molti più di quanto ci si immaginerebbe. Da Pagnini Editore, nella persona di Giampiero Pagnini, ho saputo che qualche copia in qualche libreria può darsi che ci sia ancora, ma in ogni caso uscirà ben presto una nuova edizione.
Scritto (benissimo) da Beatrice Pucci con l'introduzione di Elena Giannarelli, narra nei particolari una storia di casette. Casette che, per noi abbastanza inverosimilmente, occuparono fino al 1874 le pigne del Ponte Rubaconte, poi divenuto Ponte alle Grazie.


Si vedono nella bellissima foto d'apertura, che ho ripreso da Com'era Firenze cent'anni fa (Bonechi 1969). Il ponte fu fatto costruire dal podestà Rubaconte da Mandello nel 1237, e fu l'unico a resistere alla terribile piena del 1333. I piccoli edifici sulle pigne erano già stati costruiti a partire almeno dal 1292 e furono in principio commerciali. "Dagli inizi del Trecento invece" scrive Beatrice "le fonti documentarie attestano la crescente presenza di oratori, cappelle votive e romitori sulle pigne del ponte che faceva parte della parrocchia di San Remigio"

Le vicende relative a questi romitori e alle loro occupanti  - sì, erano tutte donne - vengono narrate da Beatrice in forma di racconto avvincente. Si tratta di vicende non di rado destinate ad avere ripercussioni sulla storia fiorentina. Apollonia di Ventura di Cennino entrò nel 1390 in una delle casette per restarvi a vivere dedicandosi esclusivamente alla preghiera. Raggiunta dall'amica Agata con la nipotina, "per il grande desiderio di non avere contatti con altre persone ed essere più libere di dedicarsi esclusivamente a Dio e alla penitenza, decisero di murarsi nella loro casa sul Ponte", ciò che avvenne nel 1400. Una sola finestrella consentiva l'entrata del minimo indispensabile per il loro sostentamento. Nasceva così fra cielo e acqua il convento delle Murate, le cui religiose, non senza aver meritato l'ammirazione e devozione dei fiorentini, nel 1424 si sarebbero poi trasferite in via Ghibellina.


Va da sé che la storia è ben più complessa, come le altre. Beatrice Pucci le inserisce poi in un contesto più ampio, facendone conoscere le premesse e illustrando lo svilupparsi della vita eremitica a partire dal IV secolo in Asia Minore, parallelamente al nascere delle prime esperienze comunitarie monacali. Particolare attenzione viene giustamente rivolta all'eremitismo femminile, molto frequente ma poco raccontato, per di più e per lo più attraverso lenti maschili(ste). Si è messi alla fine davanti a due concetti in apparenza paradossali: il primo è "vivere in solitudine rimanendo in un contesto urbano", fenomeno che verso il XIII secolo andò diffondendosi ben più di quanto non venga istintivamente da pensare. Un esempio fiorentino - ma Beatrice ne cita molti altri - è quello della Beata Umiliana de' Cerchi che si autorecluse "in una cellula della torre della casa paterna dove pregava giorno e notte; usciva all'alba per recarsi agli uffici divini o per qualche opera di carità ed il sabato per potersi comunicare".
Il secondo concetto ci risulta ancora più ostico da comprendere, ed è la scelta monacale fino all'autoincarcerazione come scelta femminile del tutto consapevole e indipendente, non di rado operata per sfuggire o rimediare a imposizioni da parte della famiglia. L'autoincarcerazione come scelta di libertà, insomma. Situazioni in cui viene rovesciato il concetto / luogo comune della monaca di Monza a cui le nostre forzate letture liceali ci avevano abituati (I Promessi Sposi è un capolavoro, ma viene fatto leggere all'età sbagliata).

Se guardate di nuovo la foto d'apertura, noterete all'estrema sinistra una costruzione con una croce sul tetto. Vi era in precedenza, dal 1313, un semplice tabernacolo, con una Madonna col Bambino oggi attribuita al Maestro della Santa Cecilia. Il dipinto si guadagnò ben presto una fama di immagine miracolosa (ne parla anche il Sacchetti), al punto che nel 1371 Iacopo di Carroccio Alberti ottenne l'autorizzazione per costruirvi intorno una cappella che la custodisse. La devozione dei fiorentini crebbe ulteriormente insieme con le grazie concesse loro dalla Beata Vergine, e la denominazione iniziale  della cappella a S. Maria divenne a S. Maria delle Grazie, titolo che si estese poi al ponte. Il ponte di Rubaconte divenne il ponte alle Grazie come ancora oggi è universalmente conosciuto. Scrive Beatrice:

Il Comune nel 1866 deliberò l'ampliamento della carreggiata del piano stradale (...). Così nel 1874 furono distrutte tutte le singolari costruzioni sulle pigne. Anche l'oratorio di S. Maria delle Grazie fu demolito, ma per volontà dei suoi patroni venne ricostruito con le stesse caratteristiche a poca distanza. La famiglia Alberti mise a disposizione uno dei suoi palazzi a pochi metri dal ponte e lì, dopo importanti lavori di ristrutturazione, venne traslato l'affresco della Madonna miracolosa.

L'oratorio, piccolo come era sulla pigna del ponte, esiste ancora, è sul Lungarno Diaz al n. 6. Qui è esposta l'immagine di S. Maria, e qui ho conosciuto Beatrice Pucci, Autrice del libro, e Marisa Aterini, che dell'oratorio sono responsabili e lo tengono come un bijoux.
Con non inattesa umiltà Beatrice mi ha raccontato come il libro sia risultato di un anno di lavoro continuo, in particolare di ricerche negli archivi, meno sfibrante che appassionante. "Non ce l'avrei fatta senza il supporto di Marisa!, e i contributi di Elena Giannarelli." Quasi sorpresa alla notizia che il libro è praticamente esaurito, non nasconde però una soddisfazione più che legittima. Poi mi parlano entrambe della cura con cui gestiscono l'oratorio, cura sulla quale non c'era bisogno di precisazioni. "Cerchiamo di renderlo più, come dire, riconoscibile, perché è davvero piccolo e rischia di non essere notato."

A questo proposito le domando se è vero quanto avevo letto su un sito, che l'oratorio di S. Maria alle Grazie è il più piccolo d'Italia. "L'abbiamo sentito dire anche noi" mi risponde, "ma francamente non potremmo confermarlo con certezza. In molti casi la figura dell'oratorio è stata accostata per antitesi all'altro tempio mariano fiorentino: la SS. Annunziata. Grande quello, piccolo questo."
Infine, il desiderio di Beatrice e Marisa: porre sul ponte alle Grazie una targa che ricordi la presenza dei romitori - e l'attività delle occupanti - sulle pigne. "Ci auguriamo di avere presto le relative autorizzazioni."
Qualora non riusciate a trovare il libro di Beatrice Pucci, potete contattare la Casa Editrice qui.





lunedì 13 novembre 2017

Geo Bruschi: l'uomo dei 33 viaggi in India...


...per tacer del resto. Il suo nome è in realtà Eugenio, ma per tutti è Geo. Nomen-omen, come giustamente osserva la mia amica Elisabetta Mereu, cui sono grato per avermelo fatto incontrare. Geo come Terra. Come il nostro pianeta. Geo, classe 1930, già imprenditore di successo, fotografo, il nostro pianeta lo ha conosciuto. È stato, nel corso della sua esistenza, in oltre 130 paesi. Oggi può permettersi di vedere intitolato a se stesso il primo museo comunale permanente di Pontassieve, che per l'appunto si chiama Centro Studi Museo Geo. In questo museo, può permettersi di esporre una miriade di reperti archeologici (villanoviani, maya, etruschi, aztechi...), oltre che di maschere di svariate etnie e provenienze, tutto da lui raccolto, accuratamente catalogato e donato al Comune di Pontassieve.

In questo museo, può altresì permettersi di allestire mostre di sue fotografie. Mostre dai titoli che farebbero tremare i polsi a qualunque altro fotografo. Ne copio un paio dal sito: I mercati del mondo; I mestieri dell'arte nel mondo; Fiori e piante del mondo. Né si limita ad esporre nel suo museo. La mostra Abitare nel Mondo, altro titolo non di tutto riposo, è stata inaugurata lo scorso 3 novembre al Liceo Artistico Petrocchi di Pistoia. Gli studenti ne hanno gremito l'Aula Magna per ascoltare Geo in un silenzio ai limiti del metafisico.
Geo può permettersi tutto questo e anche parecchio altro. È stato, abbiamo detto, in oltre 130 paesi. Mai senza una macchina fotografica a tracolla. Mai senza tenere aperti non dico gli occhi e gli orecchi, ma tutti quanti i pori, per vedere, conoscere, (cercare di) comprendere, imparare. Con grande, disarmante umiltà.

Geo con l'amico Nano Campeggi. Foto di Elisabetta Mereu
La mostra apertasi nel Museo lo scorso 11 novembre ha come spunto il 50° anniversario del suo primo viaggio in India. "Nel 1967" ha raccontato "arrivammo da Firenze a Bombay a bordo di una Giulia Alfa Romeo. Lungo il percorso, tra le altre cose, più di una volta dovemmo improvvisarci meccanici. Quando arrivammo, non avevamo un aspetto molto elegante: manca poco non volevano farci entrare nell'albergo!" Da allora, Geo in India c'è tornato altre 32 volte. "50 anni in India", realizzata come sempre con la collaborazione fattiva di Laura Bati, è una sintesi di quanto Geo ha visto e fermato con l'obiettivo in tutti questi anni. Si tratti di scatti del 1967 o del 1993, si tratti di una Rolleiflex o di una Leica a telemetro, o di una moderna macchina digitale, si tratti di panorami, edifici, scene di genere, primi e primissimi piani, le - bellissime - foto di Geo hanno una coerenza e una continuità stilistica sbalorditive. Paiono far parte di un unico reportage. Ma forse, in un certo senso, è proprio così.
Geo tra il Vicesindaco di Pontassieve Marco Passerotti,
Laura Bati e Nano Campeggi

Elisabetta Mereu cita su Facebook una frase di Pier Francesco Listri che mi pare riassuma le sensazioni che si possono provare visitando la mostra, per la quale avete tempo fino al 14 gennaio: “Chi ha la fortuna di osservare le splendide foto di Geo, ascoltando insieme i suoi racconti è come se girasse il mondo sfogliando un’enciclopedia che descrive cose che nelle enciclopedie non ci sono!”.

D'altronde Geo, anche nel pomeriggio dell'inaugurazione, non si è limitato a raccontare dell'India. La Spagna è un'altra delle (tante) sue grandi passioni. Troverete alcuni suoi splendidi scatti iberici qui. Gli ho chiesto i particolari di un suo incontro storico: quello con Ernest Hemingway. "Avvenne nel 1959 a Pamplona, per la Fiesta di San Firmino. Ne sono appassionato quanto lo era lo scrittore, e ho partecipato a sei encierros, le corse dei tori per le vie del paese fino alla Plaza de Toros. Quella volta finii a terra, e tre tori mi scavalcarono prima che gli addetti mi tirassero via dalla strada. Risalii poi la via, un tantino ammaccato ma non ferito, fino al bar della piazza dove, a uno dei tavolini, erano seduti in quattro: i due toreri Luis Miguel Dominguín e Antonio Ordoñez, Ernest Hemingway e Cesarino, l'autista veneto di quest'ultimo. Dominguín era già sposato con Lucia Bosè, sicché l'italiano lo sapeva, e mi dette testualmente di bischero, perché secondo lui ero troppo vecchio per partecipare all'encierro." In realtà aveva 29 anni. "Hemingway mi domandò se avevo avuto paura. Gli risposi: non ne ho avuto il tempo."
In Un'estate pericolosa, uscito postumo, lo scrittore parla dell'estate 1959 e della rivalità tra Dominguín e Ordoñez, che proprio quell'anno toccò il suo apice. Quando narra della Fiesta di San Firmino, cita la risposta di Geo.

Con me ed Elisabetta Mereu
Geo mi ha promesso a breve un nuovo incontro con me ed Elisabetta per mostrarci altre sue foto e raccontare altre sue storie. Quante può averne da narrare un uomo che ha viaggiato? E io ce la metterò tutta per riportarne qualcuna in modo per lo meno non indegno. È una promessa.




mercoledì 8 novembre 2017

1557: un'alluvione e un prete eroe.


Come tutti sanno, l'alluvione che 51 anni fa squartò Firenze è stata l'ultima e di gran lunga la più terribile di una lunga serie. Nel Dizionario di Firenze dal Settecento al Duemila (Le lettere 1998) Pier Francesco Listri pubblica uno specchietto in cui sono citate cinquantaquattro esondazioni, tra le quali sette di gravità paragonabile, anche se mai pari, all'ultima. Nel 1762 Ferdinando Morozzi pubblicò un trattato dal titolo Dello stato antico e moderno del fiume Arno e delle cause e de' rimedi delle sue inondazioni. Qui stilò una cronologia delle piene e /o delle esondazioni a partire dalla più antica di cui si hanno ricordi scritti, avvenuta nel 1177 e citata tra gli altri dal Malispini ("Questo medesimo anno per soperchio d'abbondantia d'acqua d'Arno cadde il Ponte Vecchio, che ancora fu segno di future avversitadi alla nostra città").


A ricordare la catastrofica piena d'Arno avvenuta il 13 settembre 1557 troviamo oggi una lapide (ricollocata sull'originale nel 1839) sulla facciata della Casa del diluvio in piazza S. Croce angolo via Verdi (foto d'apertura), e un'altra, che non si legge tanto bene, sulla facciata della chiesa di S. Niccolò Oltrarno (sopra). A questo tragico evento di 460 anni fa il Morozzi dedica ben 13 pagine riportando tra l'altro la lunga e drammatica cronaca di Benedetto Varchi. Eccone il passo iniziale.

Alli 13 di settembre essendo piovuto due giorni, quasi continuamente, la sera dinanzi si mise tal rovina d'acqua, che cominciando in Casentino, quasi alla fonte d'Arno, a Stia, a Pratovecchio in un subito, portò via tutti i mulini, le gualchiere, e gli altri difici sopra l'acque, con abbattimento di ponti, e di case, traendosi dietro con l'impeto grande molte persone. 


la Casa del Diluvio in S. Croce
Parimente nel Mugello cominciando alquanto dipoi a piè dell'Alpi sopra Dicomano, venne tanta acqua per li fossati, e per li Fiumi, et empirono di maniera la Sieve, che coperse tutto il piano della valle del Mugello, traendosi dietro case, arbori, vigne, terra, e tutto quanto trovava: et aggiontesi insieme al Pontassieve, le acque di questi due Fiumi, ne vennero inverso la Città con tanta furia, che facendo per la larga valle danni infiniti, entrarono con tal furore nella Città alle tre ore della notte, che al primo impeto abbatterono in tutto il Ponte, che si chiama a S. Trinita, il quale facendo gonfiare il Fiume, gittò l'acque in molte parti della Città, e portò via due archi del Ponte alla Carraja dalla parte di Tramontana: il Pontevecchio, che all'altra piena rovinò tutto,  a questa si tenne tutto saldo. Al Ponte Rubaconte, che è primo, e più lungo delli altri, non rimase intero se non li archi; le sponde, et ogni altro muro ne tirò a terra il grand'impeto dell'acque, talché non si poteva usare. Per lo piano fuor della porta alla Croce, e fuor del letto del Fiume, venne l'acqua con tal furia, che gittò in terra la porta chiusa, e passando nella Città, al primo impeto abbatté una casa, et in un momento ebbe pieno tutto il basso della Città; talmenteché in più luoghi alzò nove, e dieci braccia. Qual fosse lo spavento del popolo appena si potrebbe immaginare, trovandosi ciascuno assediato, né potendo l'un l'altro ajutare. 

Varchi parla poi delle devastazioni di edifici, fabbriche, orti, e del fetore che dominò la città nei giorni seguenti insieme con il timore del diffondersi di pestilenze, fortunatamente scongiurate dal rapido miglioramento meteorologico e, anche allora, dal lavoro solerte dei fiorentini per rimuovere fango, detriti, carcasse, e rendere di nuovo vivibile Firenze.
Varchi non fu l'unico cronista della tragedia. Fra Remigio Fiorentino, scrive sempre Morozzi, la descrisse in versi sciolti per la Regina di Francia; Filippo Baldinucci lo fece in prosa nella biografia dell'Ammannati; Francesco Vinta scrisse una lettera in versi latini a Pier Vettori; Anton Francesco Grazini, detto il Lasca, dedicò a un tal Piero Cellini una poesia che Morozzi riporta, e di cui copio i primi (pesanti) versi.

Colle lagrime agli occhi a scriver vengo, 
Pierone, a voi i travagli, e gli affanni, 
E le nostre miserie, e i nostri danni. 
Saper dovete, ch'Arno,
Non già tranquillo, lieto, dolce, e chiaro, 
Ma tempestoso, torbido, ed amaro, 
Quasi empio rio tiranno
Corse, ma non indarno,
Anzi, con tanta furia,
Che non se solo alle sue rive ingiuria...



Piazza del Limbo (sopra), che in antico ospitava le salme dei bambini non battezzati da cui il nome, ha subito l'alluvione del 1577 così come ha subito tutte le altre, essendo in una posizione davvero sciagurata. È collegata al Lungarno solo dallo stretto chiasso Borgherini. Quando esondava, a causa di un effetto sistola l'acqua del fiume invadeva la piazza con una violenza inaudita. Per di più, la piazza stessa si trova su un piano ribassato rispetto a Borgo S. Apostoli, il che, da un lato, faceva tornare l'acqua all'indietro una volta respinta dai muri dei palazzi, dall'altro vi sopraggiungeva quella proveniente dallo sfogo fornito dal ponte S. Trinita e incanalata lungo il Borgo, il tutto con la conseguente formazione di vortici e mulinelli (ho usato i verbi all'imperfetto per scaramanzia!).

il chiasso Borgherini
Non c'è dunque da sorprendersi, purtroppo, se il livello dell'acqua nel 1966 superò i 4 metri. La bellissima chiesa dei SS. Apostoli ne fu del tutto devastata. L'ultimo atto di un lungo, lunghissimo lavoro di restauro sulle opere danneggiate risale al 2011, quando fu restituita al secondo altare di sinistra la bella pala di Anton Domenico Gabbiani.
Tornando al 1577, in quell'occasione la chiesa dei SS. Apostoli fu teatro di un gesto di grande coraggio da parte del priore. La storia è narrata da Giuseppe Richa, che la riprende dalla Firenze città nobilissima illustrata di Leopoldo del Migliore (1664). Scrive Richa:

Nella piena adunque del 1557, sulle quattro ore di notte del dì 13 di settembre sì all'improvviso traboccò Arno nel Borgo di S. Apostolo, che salita otto braccia l'acqua in Chiesa, molto pericolava la custodia del Santissimo, non ostante che essa fosse collocata sopra un ben alto pilastro, quando il buon Priore buttatosi a nuovo, e superando ogni urto dell'acqua arrivò al tabernacolo, e con una mano tenendo la Pisside, coll'altra tornando a nuotare, portò l'Eucaristia a salvamento. 

Si può cercare di immaginare, seppure in modo vago, l'impressione che questo gesto di abnegazione ai limiti dalla temerarietà da parte del priore dovette aver fatto sui fedeli, la cui devozione nei confronti del Corpo di Cristo era allora di una intensità oggi difficile da comprendere. Sicuramente il prete fu oggetto di lodi ed encomi da parte di tutti, ma la sua gloria fu decisamente effimera, dato che Richa faticò non poco per rintracciarne il nome. Finché, in un elenco stilato da Domenico Maria Manni, identificò come priore della chiesa dei SS. Apostoli nell'anno dell'esondazione padre Francesco della famiglia dei Portinari.

L'interno della chiesa dei SS. Apostoli, oggi.


giovedì 2 novembre 2017

GABBATO LO SANTO 10. Eligio (Alò, Loè, Lò)


Eligio è il Santo protettore dei maniscalchi, come anche dei fabbri, degli orafi e in genere di coloro che hanno a che fare con i metalli. Nacque a Chaptelat, presso Limoges, nella Francia sud occidentale, verso il 590, e morì a Noyon nel 660. In Italia il suo nome è stato storpiato nel corso del tempo da numerose contrazioni. Quelle del titolo sono solo alcune. Sant'Alò, in particolare, è protagonista di un detto popolare la cui origine è contesa da varie regioni italiane: fare come Sant'Alò, che prima morì e poi s'ammalò, e altrettanto variamente è riferito agli ipocondriaci o a chi vorrebbe sovvertire l'ordine delle cose. Su Toscana Oggi, Carlo Lapucci cita altri detti: "Sant'Alò piantava i chiodi nei buchi già fatti; Sant'Alò si bruciò il dietro e la camicia no [l'originale dev'essere più esplicito...]; Sant'Alò lasciò il mondo come lo trovò". Naturalmente nessuno di questi ha il benché minimo riferimento alla figura reale del Santo.


All'esterno di Orsanmichele, in via dell'Arte della Lana all'angolo con via dei Lamberti, troverete il monumento a Sant'Eligio forse più noto, di certo il più visto. Fu realizzato da Nanni di Banco intorno al 1420, su incarico dell'Arte dei Maniscalchi. Il Santo è raffigurato in abito vescovile nella sua nicchia. Alla base, un bassorilievo raffigura l'episodio a sua volta più noto della vita di Eligio. Probabilmente a causa di esso i maniscalchi lo vollero come protettore. Ma viene raccontato in versioni diverse. Giorgio Batini, in Firenze - pochi lo sanno (Bonechi, 1990), narra:

... Sant'Eligio, già bravissimo maniscalco francese, si vantava di saper ferrare una zampa di cavallo con tre colpi soli. Ed ecco che un giorno entrò nella sua bottega uno sconosciuto il quale gli mostrò un metodo ancora più veloce: tagliò la zampa di un cavallo, la ferrò con un colpo solo, e quindi con un segno di croce riattaccò l'arto dell'animale mutilato.
Eligio, riconosciuto il Signore nel forestiero, si gettò in ginocchio ai suoi piedi, dimenticando la passata superbia e diventando modesto. 

Questa versione è più o meno confermata recentemente da Erik von Kremer in Malattie patronati e leggende - demoiatria e consumo del sacro (Cavinato Editore, 2016), il quale però aggiunge il particolare truculento del tentativo di Eligio di emulare lo sconosciuto, mutilando irrimediabilmente un altro cavallo. Tuttavia sulla pagina Wikipedia dedicata all'opera di Nanni di Banco la vicenda è semplificata: "una zampa accidentalmente tagliata in fase di ferratura a un cavallo viene miracolosamente ricongiunta al corpo dell'animale." Insomma chi ci rimette è sempre la povera bestia.

Petrus Christus, Sant'Eligio nella bottega di un orefice.
New York, Metropolitan Museum of Art.

Per fortuna della specie equina, non è altro che una leggenda popolare, di cui - salvo errore - si ignora l'origine. Non ne fa cenno Jacopo da Varazze nella Leggenda aurea. Non ne fa cenno Sant'Ouen da Rouen (!) che di Eligio fu il primo biografo, e che da Eligio stesso era stato nominato vescovo. Nella sua Vita di S. Eligio, tradotta dal latino al francese da Louis de Montigny e dal francese in italiano dal chierico Giorgio Gucmanno (1629), non risulta nemmeno che Eligio abbia mai fatto il maniscalco.

E Ouen non è certo parsimonioso nel narrare i miracoli compiuti dal Santo sia durante sia dopo il suo passaggio su questa terra. La storia inizia con un classico dell'agiografia: la madre, il giorno prima del parto, ha una visione celestiale: una bellissima aquila che volteggia su di lei, come profetizzandole per il nascituro un avvenire radioso nella gloria di Dio. Più interessante il miracolo laico compiuto dal giovane Eligio, apprendista orafo nella bottega del prestigioso maestro Abbone. Il re Clotario II consegna al giovane l'oro necessario per realizzare un trono adeguato al suo ruolo. Eligio con quest'oro di troni gliene fa due, lasciandolo di sasso e gettando peraltro una luce sinistra sull'onestà e sulla buona fede dei colleghi.

Clotario II lo mandò a Marsiglia a dirigere la zecca. Il successore Dagoberto, resosi conto delle sue capacità, lo incaricò di numerose missioni diplomatiche. Alla morte del re, dopo aver fondato alcuni monasteri (tra cui uno a Solignac, presso Limoges, e uno a Parigi), ed essersi prodigato in opere di carità (riscatto a sue spese di prigionieri di guerra), Eligio scelse la vita religiosa, e nel 641 fu nominato Vescovo di Noyon. Da allora si dedicò all'evangelizzazione della regione, ancora in gran parte pagana, insieme con altri vescovi tra i quali Ouen. Morì, abbiamo visto, nel 660 mentre era ancora impegnato in questa missione. Nella biografia di Ouen trovano spazio una discreta quantità di miracoli compiuti da Eligio, in particolare guarigioni di infermi (e un morto resuscitato), il ritrovamento delle salme di alcuni santi, le parole terribili pronunciate da Eligio nei confronti degli apostati, e al contrario la pietà mostrata nei confronti dei poveri.

Il culto del Santo non tardò a diffondersi ampiamente fino alle nostre regioni, ed ebbe un notevole successo durante il Medioevo. Le categorie di lavoratori che ne hanno richiesto il patronato si sono fatte sempre più numerose. Tra queste, oltre a quelle citate all'inizio, vanno aggiunte quella dei carrettieri, e ancora i netturbini, i mercanti di cavalli, i veterinari, fino ai garagisti.
Ecco quanto scritto sul Martirologio romano:

A Noyon in Neustria, ora in Francia, sant'Eligio, vescovo, che, orefice e consigliere del re Dagoberto, dopo aver contribuito alla fondazione di molti monasteri e costruito edifici sepolcrali di insigne arte e bellezza in onore dei santi, fu elevato alla sede di Noyon e Tournai, dove attese con zelo al lavoro apostolico.


Foto di Marinella Ines Rusmini
Eppure, l'episodio illustrato più di frequente, per quanto inesistente e inverosimile, resta quello del cavallo. Lo si trova nella vetrata del Duomo di Milano, opera di Niccolò da Varallo risalente al 1480 (sopra). Lo si trova in numerose miniature e dipinti. Artisti come Niccolò di Pietro Gerini hanno trattato il tema. Troverete alcuni esempi qui e qui. L'arte degli Orafi, circa il 1488, commissionò a Sandro Botticelli una Incoronazione per la Cappella di Sant'Alò (!) nella controfacciata sinistra della chiesa di S. Marco (oggi la pala è agli Uffizi). Il pittore raffigurò la Vergine incoronata con i Santi Giovanni Evangelista, Agostino, Girolamo e, appunto, Eligio. Nella predella illustrò cinque episodi della vita dei relativi santi (compresa l'Annunciazione). Della vita di Sant'Eligio, il miracolo del cavallo (sotto) citava letteralmente, diremmo oggi, il bassorilievo di Nanni di Banco.







mercoledì 25 ottobre 2017

La triste storia di un gigante del Liberty


L'architetto Giovanni Michelazzi si tolse la vita nella notte tra il 21 e il 22 agosto 1920, davanti la Badia Fiesolana, perché, nella causa di separazione, la custodia dei figli era stata assegnata alla moglie. In seguito il destino, manovrato dall'imbecillità umana,  non sarà benevolo neanche con parecchie delle sue opere.
Michelazzi, che Giovanni Michelucci ricordò come «un gentiluomo con grandi baffi biondi: una persona che aveva viaggiato e letto molto», nasce a Roma nel 1879, ma si stabilisce ben presto a Firenze, in un'epoca in cui, sul piano architettonico, se "tutta l'Italia è troppo assorta nella contemplazione dei morti a danno dei vivi", nel capoluogo toscano la situazione è ancora più impaludata. Scrive nel 1899 il critico Alfredo Melani che "a Firenze è in uso un tipo d'architettura derivato dallo stile il cui rappresentante maggiore fu Filippo Brunesseschi; e la imitazione quasi pedantesca toglie ogni originalità alle costruzioni fiorentine. Ne fanno fede non solo i Villini ma le Palazzine della città (...): sovente graziose, costrutte in pietra serena azzurreggiante, sembrano uscite tutte da un medesimo stampo. E non par vero che gli architetti fiorentini non tentino qualcosa di nuovo, di inedito, di personale".

Una delle poche foto rimaste
del Villino Ventilari
Diplomatosi nel 1901, a soli 23 anni Giovanni ebbe il primo incarico: alcune aggiunte a un villino in viale del Poggio Imperiale. In pratica uno di quelli citati da Melani. Michelazzi fece un po' come Mozart che, nel film Amadeus (Milos Forman, 1984), appone un paio di aggiunte e modifiche alla sciatta marcetta di Salieri infondendole una vita completamente nuova e luminosa. Le aggiunte di Michelazzi - una veranda, una pensilina e un balcone, e un'esedra con fontana - già mostravano in nuce un artista non solo dal talento innato, ma che mostrava di avere già assorbito e aderito ad un incalzante movimento artistico. Un movimento, è vero, dalle tante sfaccettature e anche dai tanti nomi a seconda dei diversi paesi in cui si affermava: Art Nouveau, Jugendstil, Sezessionstil, Arte Jóven, e via elencando. In Italia si chiamò Arte floreale, o Liberty. Ciononostante, ebbe una sorta di unitarietà che ne fece il primo vero movimento artistico internazionale. Quanto più oggi - giustamente - viene studiato, celebrato, promosso, tanto più allora ebbe in Italia vita difficile - i motivi sono quelli sopra spiegati -, e giunse in forte ritardo rispetto agli altri Paesi. Michelazzi fu, diciamo così, in anticipo sul ritardo.

Le sue prime opere furono un villino in viale Michelangelo (1904), il villino Ventilari in viale Mazzini (1905-1906), e il villino Ravazzini in via Scipione Ammirato (1906-1907). Il secondo fu forse dei tre il più originale, con una svettante torre cilindrica d'angolo.

L'arabesco musicale, o piuttosto, il principio dell'ornamento è la base di tutte le forme dell'arte.

Questa frase scritta, strano a dirsi, da Claude Debussy nel 1901, è forse quella che riesce a sintetizzare nel più breve spazio il concetto di Art Nouveau. Michelazzi fece tesoro di questa, e di altre dichiarazioni di principio. Le linee curve e sinuose, i colpi di frusta, l'uso del ferro e del vetro, i riferimenti alla natura che amava - sculture, immagini, bassorilievi fitomorfi e zoomorfi -, interpolazioni ceramiche quasi sempre opera di Galileo Chini, davano alle sue architetture un movimento e un dinamismo nuovo, suggestivo e probabilmente insopportabile per molta intellighenzia fiorentina. 

Il villino di Adolfo Lampredi e,sulla destra, quello di Giulio Lampredi

Dopo il villino Del Beccaro, dirimpettaio al villino Ventilari, vennero i primi capolavori: i due villini per i fratelli Lampredi, in via Giano della Bella. Riferendosi in particolare a quello di Giulio Lampredi (foto d'apertura), Luca Quattrocchi, nella sua bella monografia Giovanni Michelazzi 1879-1920 (Franco Cosimo Panini 1993) scrive che "sembra una costruzione sottomarina appena emersa dall'acqua, ancora grondante, colante, cui aderiscono molluschi indefiniti e bestie nate da oscuri incroci subacquei". 
Michelazzi si superò in due opere che dovrebbero essere presenti in qualunque testo antologico che riguardi non solo il Liberty italiano, ma tutta l'Art Nouveau. Cosa che non sempre avviene. 


Nel 1910 realizzò la Casa galleria, o Casa emporio, in Borgognissanti, forse - sono sempre parole di Quattrocchi - "l'esempio italiano più puro di Art Nouveau di tipo belga. Che però Michelazzi seppe rendere inconfondibilmente personale". Questo stretto e slanciato edificio evidenzia anche - e questo è un parere personale - lo straordinario retroterra culturale di cui Michelazzi era in possesso, e che gli consentì di costruire nel centro storico fiorentino tra palazzi per lo più medievali un'opera che, per quanto senza precedenti nella concezione, si integra perfettamente con le costruzioni adiacenti senza il minimo stridore estetico.


Asimmetrico, onirico, visionario, il villino Broggi Caraceni sorprende e incanta ancora oggi. Probabilmente Michelazzi ebbe carta bianca sul progetto e, libero da vincoli, creò nel 1911 in via Scipione Ammirato, accanto al Ravazzini, un edificio - cito ancora Quattrocchi -

strutturato come un organismo cellulare, fortemente dipendente dall'azione del nucleo interno (la scala elicoidale), con gli angoli tagliati ed un'andatura planimetrica sghemba che ricalca, accettandolo quasi come un vincolo stimolante, il perimetro irregolare del lotto.

La terrazza d'angolo del villino Broggi Caraceni.
In alto, la firma dell'architetto.
Leggiamo nel Repertorio delle architetture civili, a cura di Claudio Paolini: 

Si noti inoltre, a sottolineare l'assenza di un qualsiasi compromesso con l'esperienza ottocentesca, come gli elementi più propriamente Art Nouveau non si propongano quali semplici decorazioni sovrapposte alla scatola architettonica (come invece appare nel vicino villino Ravazzini sempre opera di Michelazzi), ma vadano a incidere profondamente sulla struttura stessa dell'intero villino, fino a definire una forma di notevole dinamismo.

La palazzina di via Repetti. 
Dopo, purtroppo, inizierà per Michelazzi un inarrestabile declino, dovuto in parte certamente ai vincoli posti dalle committenze. Michelazzi non sembra trovarsi a suo agio nella costruzione di palazzine multifamiliari, come quella, desolantemente anonima, di via Repetti (1912-1913). Che è opera sua si è potuto appurare solo dai documenti d'archivio. Più personale il villino Galeotti-Fiori di via XX Settembre. Il progetto di una villa Michelazzi in via Gamberaia, presso viale Michelangelo, non vedrà la luce.

Il villino Galeotti-Fiori
Giovanni Michelazzi partecipò alla Grande Guerra come tenente del Genio Militare. Al ritorno, dalle scarne notizie che se ne hanno, non sarà più lui. Era sempre stato un lavoratore instancabile, con un carattere imprevedibile che, in ultimo, si accentuò. Anche da qui dovette scaturire la causa di separazione. Ad ogni modo, riprese a lavorare e il villino Baroncelli in via Dupré fu un improvviso colpo d'ala, nel quale sembrò di ritrovare il Michelazzi più creativo e innovatore. Anche qui la collaborazione con Galileo Chini fu fruttuosa. L'anno seguente, il tragico epilogo.

Durante il fascismo, la campagna Date Ferro Alla Patria portò alla rimozione e conseguente distruzione di molte inferriate, cancelli, ornamenti in ferro che per Michelazzi erano componente fondamentale delle sue creazioni. Il villino Broggi Caraceni e il villino Ventilari in particolare furono vandalizzati. E se oggi il primo è stato restituito al suo splendore originale, il Ventilari ha poi subito una completa ristrutturazione dei locali interni.
Negli anni 60, in pieno miracolo economico, quando la Prima Repubblica non sentiva neanche il bisogno di avere un Ministero della Cultura, non si ebbe problemi, per far posto a redditizie palazzine, a radere al suolo il villino di Viale Michelangelo, il villino Ventilari e il villino Del Beccaro. Di quest'ultimo esiste una sola fotografia, poche degli altri.

La torre del villino Baroncelli
Quanto ci è rimasto è tuttavia sufficiente a comprendere e a rendere giustizia a uno dei più grandi architetti del primo '900, ciò che ancora non è avvenuto. Salvo errori, l'unica monografia su di lui è quella citata di Luca Quattrocchi, ripeto molto bella ma irrintracciabile nelle biblioteche. Tocca alla nostra epoca, per lo meno in questo superiore ai due secoli che l'hanno preceduta, colmare una lacuna che non ci fa punto onore. 



venerdì 20 ottobre 2017

In pellegrinaggio verso Pistoia


Quella che vedete è Via Maragliano a Firenze. È possibile che l'assetto odierno della periferia nord-ovest fiorentina sia dovuto almeno in gran parte a un Vescovo di Pistoia vissuto nella prima metà del XII secolo? È possibile eccome!

La storia, nella sua prima incerta parte, s'inizia all'incirca nel 1109, quando un viandante dai tratti palesemente forestieri bussa alla porta del Monastero di Vallombrosa. L'Abate, il Beato Bernardo degli Uberti, lo accoglie senza inizialmente riconoscerlo. Lui allora si presenta: si chiama Atto. Si erano incontrati al Concilio di Clemont-Ferrand (1095). Atto voleva partire lancia in resta per la prima Crociata, ivi indetta, ma Bernardo lo aveva esortato a far parte di una milizia non armata di usbergo, ma vestita delle umili divise di Cristo, per battersi contro il nemico che, non meno pericoloso dei mauri, minacciava la Chiesa dall'interno: la simonia. Quella combattuta da S. Giovanni Gualberto, fondatore dei Vallombrosani.
In seguito, Atto aveva preso commiato dalla sua città natale Badajoz per mettersi in cammino alla volta di Roma, traversando in modo non agevole i Pirenei e le Alpi. Aveva raggiunto la Città Eterna e, tornando per Norcia e Camaldoli, era approdato finalmente a Vallombrosa. Per Bernardo fu una gioia immensa dargli il benvenuto nell'abbazia.

Il Canonico Giovanni Breschi narra tutto ciò nei primi capitoli della sua Storia di S. Atto Vescovo di Pistoia, datata 1855. Correttamente non tralascia di precisare che su quanto raccontato molti dubbi sono legittimi. A partire dall'origine spagnola di Atto. Breschi la dà non come certa, ma comunque come molto probabile. Tra gli indizi più attendibili segnala un manoscritto coevo che riporta il citato incontro a Clermont-Ferrand; e la bolla emanata da Papa Paolo V nel 1614, in cui il Pontefice concede al popolo di Badajoz, che ne aveva fatto pressante richiesta, il culto del Beato Atto. Non sono riuscito a rintracciare studi di autori recenti segnalati da Benvenuto Matteucci, secondo i quali Atto sarebbe stato originario della Val di Pesa, o Pescia, o Passignano.
Ben più certa e documentata è la sua intensa attività presso l'abbazia vallombrosana, di cui divenne Abate nel 1120. "Durante il suo governo" riferisce ancora Matteucci "furono fondati il monastero di S. Donato in Borgo a Siena e una nuova comunità monastica, nella diocesi di Cremona, nel luogo detto Torre Trentina, presso una chiesa dedicata a s. Vigilio". Fu erudito ed eccellente letterato. Scrisse alcune biografie di Santi, tra cui Barnaba e Giovanni Gualberto. La sua autorevolezza gli procurò la nomina a Vescovo di Pistoia nel 1133, e una serie di privilegi da parte dei Papi Innocenzo II e poi Celestino II. Atto rimase comunque monaco vallombrosano, e onorò entrambi i mandati con coerenza, per giudizio di tutti, esemplare. Venne chiamato, quale arbitro corretto e imparziale, a risolvere numerose diatribe tra diocesi.

Benedetto Veli (1534-1639): incontro tra Papa Innocenzo II
e il Vescovo Atto. Badia a Passignano.

Tornando a quanto scritto in apertura, l'iniziativa presa da Atto che ebbe conseguenze di portata straordinaria, al punto di giungere in pratica fino a noi, fu la collocazione a Pistoia in Cattedrale della reliquia di S. Jacopo (o Giacomo). Ottenerla non fu facile. Atto si servì dell'intermediazione di un diacono di Compostela di origine pistoiese chiamato Ranieri, nonché di altri personaggi influenti, presso Didaco, Arcivescovo di Compostela, e inviò, sempre attraverso percorsi non del tutto agevoli, due pii pistoiesi: Mediovillano e Tebaldo. L'autorevolezza del Vescovo di cui erano latori fece superare a Didaco le esitazioni nei riguardi di un gesto senza precedenti. Acconsentì dunque, tra mille cautele, a staccare una ciocca di capelli dalla salma del Santo, ma coi capelli venne via anche una seppur piccola parte di cranio. Accettato l'imprevisto come volontà di Dio, il tutto fu inserito in un reliquiario, che Mediovillano e Tebaldo riportarono a Pistoia.
Furono accolti in città come trionfatori, con un dispiegamento di paramenti e una partecipazione popolare di cui difficilmente possiamo immaginare le dimensioni. La reliquia fu collocata nella Cattedrale di S. Zeno e furono consacrate ad hoc la cappella e l'altare di San Jacopo. San Jacopo fu proclamato Santo Patrono di Pistoia. Era il 1145. Da allora in poi fu un continuo contribuire all'abbellimento dell'altare con opere artistiche e ricchi addobbi, tanto che si parlò di tesoro di S. Jacopo. All'altare argenteo contribuì, tra il 1287 e il 1456, una vera all stars di orafi. La reliquia e l'altare rimasero nella cappella fino al 1785. Vedremo in un prossimo post cosa poi accadde.

Tralasciando le vessatae quaestiones sull'autenticità delle reliquie (di S. Stefano si veneravano tre braccia), ricordiamo il ruolo importantissimo che esse avevano non solo nella pratica religiosa, ma nella vita dei fedeli, cioè, all'epoca, di tutti. Scrive Breschi:


Se la venerazione per le sacre reliquie fu sempre grande nel popolo cristiano, come lo attestano i più certi monumenti della Chiesa primitiva, ella fu massima nel medio evo, quando il perfetto esplicamento dello spirito cattolico in virtù del generale predominio da esso conquistato sul paganesimo, e lo slancio d'una fede viva, accompagnata dalle sue nobili ispirazioni, rendevano sommamente care al cuore de' credenti tutte le rimembranze ed i resti preziosi di coloro che colla parabola, coll'opera e col sangue avevano contribuito allo stabilimento e alla diffusione della religione di Gesù Cristo.

La Chiesa di S. Jacopino quando
si trovava nella piazza omonima.

Le tre grandi mete dei pellegrinaggi cristiani erano nell'antichità la Terra Santa, Roma e Compostela.  Dopo il 1170, anno in cui fu martirizzato S. Thomas Becket, vi si aggiunse Canterbury. In Toscana, i fedeli che non avevano la possibilità, economica e/o fisica, di compiere percorsi così lunghi, si ritennero come miracolati dalla possibilità di raggiungere e adorare una reliquia di tal valore al termine di un cammino ben più breve. Pistoia divenne una meta di pellegrinaggio.
Negli stessi anni Firenze non aveva una grande importanza, e proprio perché era tagliata fuori dalle più grandi vie di comunicazione quali la Francigena. All'inizio del '200 la crescita della città andò di pari passo con lo svilupparsi di strade che, disposte a raggiera, convergevano sul centro. In questo modo si realizzò tra l'altro quella che Renato Stopani ha definito la 'cattura' della Francigena, grazie a un percorso per Roma "dalla via che collegava direttamente Bologna a Firenze attraverso i valichi appenninici del Mugello e proseguiva quindi in direzione di Siena utilizzando le strade che in precedenza erano servite a collegare la città gigliata con la Francigena, intercettata a Poggibonsi o a Siena".

La via di pellegrinaggio da Firenze a Pistoia sviluppò una importanza analoga. Era quella che, uscendo da Porta a Faenza, aveva in origine costituito il primo decumano minore settentrionale, ovvero le odierne via delle Ghiacciaie, via Cassia, via Maragliano, via di Novoli, e seguiva poi in pratica il percorso della Firenze-Mare.

S. Cristofano a Novoli

Come le nostre autostrade sono oggi fornite di punti di sosta con autogrill e motel, la strada per Pistoia si costellò di ospitali. Trattandosi di via di pellegrinaggio, i luoghi religiosi lungo il percorso crebbero e prosperarono, e molti sono giunti fino a noi. Non è casuale che la chiesa sorta all'incrocio del decumano con il secondo cardus minor occidentalis ed esistente almeno dal 1250 sia dedicata a S. Jacopo. Né che la chiesa sulla stessa direttrice a Novoli abbia come titolare S. Cristofano, protettore dei pellegrini. Il traffico intenso verso la reliquia di S. Giacomo, che per secoli ha interessato e caratterizzato la via, può essere tra le cause del fatto che questa è giunta fino alla nostra epoca in pratica senza aver subito variazioni né deviazioni di rilievo.