sabato 25 novembre 2017

Le grazie del Ponte alle Grazie


Il fatto che un libro intitolato Fra cielo e acqua - Le Romite del Ponte alle Grazie sia andato rapidamente esaurito - o giù di lì - non può che fare piacere. Vuol dire che a volerne sapere di più della nostra storia e delle nostre radici sono davvero in tanti e molti più di quanto ci si immaginerebbe. Da Pagnini Editore, nella persona di Giampiero Pagnini, ho saputo che qualche copia in qualche libreria può darsi che ci sia ancora, ma in ogni caso uscirà ben presto una nuova edizione.
Scritto (benissimo) da Beatrice Pucci con l'introduzione di Elena Giannarelli, narra nei particolari una storia di casette. Casette che, per noi abbastanza inverosimilmente, occuparono fino al 1874 le pigne del Ponte Rubaconte, poi divenuto Ponte alle Grazie.


Si vedono nella bellissima foto d'apertura, che ho ripreso da Com'era Firenze cent'anni fa (Bonechi 1969). Il ponte fu fatto costruire dal podestà Rubaconte da Mandello nel 1237, e fu l'unico a resistere alla terribile piena del 1333. I piccoli edifici sulle pigne erano già stati costruiti a partire almeno dal 1292 e furono in principio commerciali. "Dagli inizi del Trecento invece" scrive Beatrice "le fonti documentarie attestano la crescente presenza di oratori, cappelle votive e romitori sulle pigne del ponte che faceva parte della parrocchia di San Remigio"

Le vicende relative a questi romitori e alle loro occupanti  - sì, erano tutte donne - vengono narrate da Beatrice in forma di racconto avvincente. Si tratta di vicende non di rado destinate ad avere ripercussioni sulla storia fiorentina. Apollonia di Ventura di Cennino entrò nel 1390 in una delle casette per restarvi a vivere dedicandosi esclusivamente alla preghiera. Raggiunta dall'amica Agata con la nipotina, "per il grande desiderio di non avere contatti con altre persone ed essere più libere di dedicarsi esclusivamente a Dio e alla penitenza, decisero di murarsi nella loro casa sul Ponte", ciò che avvenne nel 1400. Una sola finestrella consentiva l'entrata del minimo indispensabile per il loro sostentamento. Nasceva così fra cielo e acqua il convento delle Murate, le cui religiose, non senza aver meritato l'ammirazione e devozione dei fiorentini, nel 1424 si sarebbero poi trasferite in via Ghibellina.


Va da sé che la storia è ben più complessa, come le altre. Beatrice Pucci le inserisce poi in un contesto più ampio, facendone conoscere le premesse e illustrando lo svilupparsi della vita eremitica a partire dal IV secolo in Asia Minore, parallelamente al nascere delle prime esperienze comunitarie monacali. Particolare attenzione viene giustamente rivolta all'eremitismo femminile, molto frequente ma poco raccontato, per di più e per lo più attraverso lenti maschili(ste). Si è messi alla fine davanti a due concetti in apparenza paradossali: il primo è "vivere in solitudine rimanendo in un contesto urbano", fenomeno che verso il XIII secolo andò diffondendosi ben più di quanto non venga istintivamente da pensare. Un esempio fiorentino - ma Beatrice ne cita molti altri - è quello della Beata Umiliana de' Cerchi che si autorecluse "in una cellula della torre della casa paterna dove pregava giorno e notte; usciva all'alba per recarsi agli uffici divini o per qualche opera di carità ed il sabato per potersi comunicare".
Il secondo concetto ci risulta ancora più ostico da comprendere, ed è la scelta monacale fino all'autoincarcerazione come scelta femminile del tutto consapevole e indipendente, non di rado operata per sfuggire o rimediare a imposizioni da parte della famiglia. L'autoincarcerazione come scelta di libertà, insomma. Situazioni in cui viene rovesciato il concetto / luogo comune della monaca di Monza a cui le nostre forzate letture liceali ci avevano abituati (I Promessi Sposi è un capolavoro, ma viene fatto leggere all'età sbagliata).

Se guardate di nuovo la foto d'apertura, noterete all'estrema sinistra una costruzione con una croce sul tetto. Vi era in precedenza, dal 1313, un semplice tabernacolo, con una Madonna col Bambino oggi attribuita al Maestro della Santa Cecilia. Il dipinto si guadagnò ben presto una fama di immagine miracolosa (ne parla anche il Sacchetti), al punto che nel 1371 Iacopo di Carroccio Alberti ottenne l'autorizzazione per costruirvi intorno una cappella che la custodisse. La devozione dei fiorentini crebbe ulteriormente insieme con le grazie concesse loro dalla Beata Vergine, e la denominazione iniziale  della cappella a S. Maria divenne a S. Maria delle Grazie, titolo che si estese poi al ponte. Il ponte di Rubaconte divenne il ponte alle Grazie come ancora oggi è universalmente conosciuto. Scrive Beatrice:

Il Comune nel 1866 deliberò l'ampliamento della carreggiata del piano stradale (...). Così nel 1874 furono distrutte tutte le singolari costruzioni sulle pigne. Anche l'oratorio di S. Maria delle Grazie fu demolito, ma per volontà dei suoi patroni venne ricostruito con le stesse caratteristiche a poca distanza. La famiglia Alberti mise a disposizione uno dei suoi palazzi a pochi metri dal ponte e lì, dopo importanti lavori di ristrutturazione, venne traslato l'affresco della Madonna miracolosa.

L'oratorio, piccolo come era sulla pigna del ponte, esiste ancora, è sul Lungarno Diaz al n. 6. Qui è esposta l'immagine di S. Maria, e qui ho conosciuto Beatrice Pucci, Autrice del libro, e Marisa Aterini, che dell'oratorio sono responsabili e lo tengono come un bijoux.
Con non inattesa umiltà Beatrice mi ha raccontato come il libro sia risultato di un anno di lavoro continuo, in particolare di ricerche negli archivi, meno sfibrante che appassionante. "Non ce l'avrei fatta senza il supporto di Marisa!, e i contributi di Elena Giannarelli." Quasi sorpresa alla notizia che il libro è praticamente esaurito, non nasconde però una soddisfazione più che legittima. Poi mi parlano entrambe della cura con cui gestiscono l'oratorio, cura sulla quale non c'era bisogno di precisazioni. "Cerchiamo di renderlo più, come dire, riconoscibile, perché è davvero piccolo e rischia di non essere notato."

A questo proposito le domando se è vero quanto avevo letto su un sito, che l'oratorio di S. Maria alle Grazie è il più piccolo d'Italia. "L'abbiamo sentito dire anche noi" mi risponde, "ma francamente non potremmo confermarlo con certezza. In molti casi la figura dell'oratorio è stata accostata per antitesi all'altro tempio mariano fiorentino: la SS. Annunziata. Grande quello, piccolo questo."
Infine, il desiderio di Beatrice e Marisa: porre sul ponte alle Grazie una targa che ricordi la presenza dei romitori - e l'attività delle occupanti - sulle pigne. "Ci auguriamo di avere presto le relative autorizzazioni."
Qualora non riusciate a trovare il libro di Beatrice Pucci, potete contattare la Casa Editrice qui.





lunedì 13 novembre 2017

Geo Bruschi: l'uomo dei 33 viaggi in India...


...per tacer del resto. Il suo nome è in realtà Eugenio, ma per tutti è Geo. Nomen-omen, come giustamente osserva la mia amica Elisabetta Mereu, cui sono grato per avermelo fatto incontrare. Geo come Terra. Come il nostro pianeta. Geo, classe 1930, già imprenditore di successo, fotografo, il nostro pianeta lo ha conosciuto. È stato, nel corso della sua esistenza, in oltre 130 paesi. Oggi può permettersi di vedere intitolato a se stesso il primo museo comunale permanente di Pontassieve, che per l'appunto si chiama Centro Studi Museo Geo. In questo museo, può permettersi di esporre una miriade di reperti archeologici (villanoviani, maya, etruschi, aztechi...), oltre che di maschere di svariate etnie e provenienze, tutto da lui raccolto, accuratamente catalogato e donato al Comune di Pontassieve.

In questo museo, può altresì permettersi di allestire mostre di sue fotografie. Mostre dai titoli che farebbero tremare i polsi a qualunque altro fotografo. Ne copio un paio dal sito: I mercati del mondo; I mestieri dell'arte nel mondo; Fiori e piante del mondo. Né si limita ad esporre nel suo museo. La mostra Abitare nel Mondo, altro titolo non di tutto riposo, è stata inaugurata lo scorso 3 novembre al Liceo Artistico Petrocchi di Pistoia. Gli studenti ne hanno gremito l'Aula Magna per ascoltare Geo in un silenzio ai limiti del metafisico.
Geo può permettersi tutto questo e anche parecchio altro. È stato, abbiamo detto, in oltre 130 paesi. Mai senza una macchina fotografica a tracolla. Mai senza tenere aperti non dico gli occhi e gli orecchi, ma tutti quanti i pori, per vedere, conoscere, (cercare di) comprendere, imparare. Con grande, disarmante umiltà.

Geo con l'amico Nano Campeggi. Foto di Elisabetta Mereu
La mostra apertasi nel Museo lo scorso 11 novembre ha come spunto il 50° anniversario del suo primo viaggio in India. "Nel 1967" ha raccontato "arrivammo da Firenze a Bombay a bordo di una Giulia Alfa Romeo. Lungo il percorso, tra le altre cose, più di una volta dovemmo improvvisarci meccanici. Quando arrivammo, non avevamo un aspetto molto elegante: manca poco non volevano farci entrare nell'albergo!" Da allora, Geo in India c'è tornato altre 32 volte. "50 anni in India", realizzata come sempre con la collaborazione fattiva di Laura Bati, è una sintesi di quanto Geo ha visto e fermato con l'obiettivo in tutti questi anni. Si tratti di scatti del 1967 o del 1993, si tratti di una Rolleiflex o di una Leica a telemetro, o di una moderna macchina digitale, si tratti di panorami, edifici, scene di genere, primi e primissimi piani, le - bellissime - foto di Geo hanno una coerenza e una continuità stilistica sbalorditive. Paiono far parte di un unico reportage. Ma forse, in un certo senso, è proprio così.
Geo tra il Vicesindaco di Pontassieve Marco Passerotti,
Laura Bati e Nano Campeggi

Elisabetta Mereu cita su Facebook una frase di Pier Francesco Listri che mi pare riassuma le sensazioni che si possono provare visitando la mostra, per la quale avete tempo fino al 14 gennaio: “Chi ha la fortuna di osservare le splendide foto di Geo, ascoltando insieme i suoi racconti è come se girasse il mondo sfogliando un’enciclopedia che descrive cose che nelle enciclopedie non ci sono!”.

D'altronde Geo, anche nel pomeriggio dell'inaugurazione, non si è limitato a raccontare dell'India. La Spagna è un'altra delle (tante) sue grandi passioni. Troverete alcuni suoi splendidi scatti iberici qui. Gli ho chiesto i particolari di un suo incontro storico: quello con Ernest Hemingway. "Avvenne nel 1959 a Pamplona, per la Fiesta di San Firmino. Ne sono appassionato quanto lo era lo scrittore, e ho partecipato a sei encierros, le corse dei tori per le vie del paese fino alla Plaza de Toros. Quella volta finii a terra, e tre tori mi scavalcarono prima che gli addetti mi tirassero via dalla strada. Risalii poi la via, un tantino ammaccato ma non ferito, fino al bar della piazza dove, a uno dei tavolini, erano seduti in quattro: i due toreri Luis Miguel Dominguín e Antonio Ordoñez, Ernest Hemingway e Cesarino, l'autista veneto di quest'ultimo. Dominguín era già sposato con Lucia Bosè, sicché l'italiano lo sapeva, e mi dette testualmente di bischero, perché secondo lui ero troppo vecchio per partecipare all'encierro." In realtà aveva 29 anni. "Hemingway mi domandò se avevo avuto paura. Gli risposi: non ne ho avuto il tempo."
In Un'estate pericolosa, uscito postumo, lo scrittore parla dell'estate 1959 e della rivalità tra Dominguín e Ordoñez, che proprio quell'anno toccò il suo apice. Quando narra della Fiesta di San Firmino, cita la risposta di Geo.

Con me ed Elisabetta Mereu
Geo mi ha promesso a breve un nuovo incontro con me ed Elisabetta per mostrarci altre sue foto e raccontare altre sue storie. Quante può averne da narrare un uomo che ha viaggiato? E io ce la metterò tutta per riportarne qualcuna in modo per lo meno non indegno. È una promessa.




mercoledì 8 novembre 2017

1557: un'alluvione e un prete eroe.


Come tutti sanno, l'alluvione che 51 anni fa squartò Firenze è stata l'ultima e di gran lunga la più terribile di una lunga serie. Nel Dizionario di Firenze dal Settecento al Duemila (Le lettere 1998) Pier Francesco Listri pubblica uno specchietto in cui sono citate cinquantaquattro esondazioni, tra le quali sette di gravità paragonabile, anche se mai pari, all'ultima. Nel 1762 Ferdinando Morozzi pubblicò un trattato dal titolo Dello stato antico e moderno del fiume Arno e delle cause e de' rimedi delle sue inondazioni. Qui stilò una cronologia delle piene e /o delle esondazioni a partire dalla più antica di cui si hanno ricordi scritti, avvenuta nel 1177 e citata tra gli altri dal Malispini ("Questo medesimo anno per soperchio d'abbondantia d'acqua d'Arno cadde il Ponte Vecchio, che ancora fu segno di future avversitadi alla nostra città").


A ricordare la catastrofica piena d'Arno avvenuta il 13 settembre 1557 troviamo oggi una lapide (ricollocata sull'originale nel 1839) sulla facciata della Casa del diluvio in piazza S. Croce angolo via Verdi (foto d'apertura), e un'altra, che non si legge tanto bene, sulla facciata della chiesa di S. Niccolò Oltrarno (sopra). A questo tragico evento di 460 anni fa il Morozzi dedica ben 13 pagine riportando tra l'altro la lunga e drammatica cronaca di Benedetto Varchi. Eccone il passo iniziale.

Alli 13 di settembre essendo piovuto due giorni, quasi continuamente, la sera dinanzi si mise tal rovina d'acqua, che cominciando in Casentino, quasi alla fonte d'Arno, a Stia, a Pratovecchio in un subito, portò via tutti i mulini, le gualchiere, e gli altri difici sopra l'acque, con abbattimento di ponti, e di case, traendosi dietro con l'impeto grande molte persone. 


la Casa del Diluvio in S. Croce
Parimente nel Mugello cominciando alquanto dipoi a piè dell'Alpi sopra Dicomano, venne tanta acqua per li fossati, e per li Fiumi, et empirono di maniera la Sieve, che coperse tutto il piano della valle del Mugello, traendosi dietro case, arbori, vigne, terra, e tutto quanto trovava: et aggiontesi insieme al Pontassieve, le acque di questi due Fiumi, ne vennero inverso la Città con tanta furia, che facendo per la larga valle danni infiniti, entrarono con tal furore nella Città alle tre ore della notte, che al primo impeto abbatterono in tutto il Ponte, che si chiama a S. Trinita, il quale facendo gonfiare il Fiume, gittò l'acque in molte parti della Città, e portò via due archi del Ponte alla Carraja dalla parte di Tramontana: il Pontevecchio, che all'altra piena rovinò tutto,  a questa si tenne tutto saldo. Al Ponte Rubaconte, che è primo, e più lungo delli altri, non rimase intero se non li archi; le sponde, et ogni altro muro ne tirò a terra il grand'impeto dell'acque, talché non si poteva usare. Per lo piano fuor della porta alla Croce, e fuor del letto del Fiume, venne l'acqua con tal furia, che gittò in terra la porta chiusa, e passando nella Città, al primo impeto abbatté una casa, et in un momento ebbe pieno tutto il basso della Città; talmenteché in più luoghi alzò nove, e dieci braccia. Qual fosse lo spavento del popolo appena si potrebbe immaginare, trovandosi ciascuno assediato, né potendo l'un l'altro ajutare. 

Varchi parla poi delle devastazioni di edifici, fabbriche, orti, e del fetore che dominò la città nei giorni seguenti insieme con il timore del diffondersi di pestilenze, fortunatamente scongiurate dal rapido miglioramento meteorologico e, anche allora, dal lavoro solerte dei fiorentini per rimuovere fango, detriti, carcasse, e rendere di nuovo vivibile Firenze.
Varchi non fu l'unico cronista della tragedia. Fra Remigio Fiorentino, scrive sempre Morozzi, la descrisse in versi sciolti per la Regina di Francia; Filippo Baldinucci lo fece in prosa nella biografia dell'Ammannati; Francesco Vinta scrisse una lettera in versi latini a Pier Vettori; Anton Francesco Grazini, detto il Lasca, dedicò a un tal Piero Cellini una poesia che Morozzi riporta, e di cui copio i primi (pesanti) versi.

Colle lagrime agli occhi a scriver vengo, 
Pierone, a voi i travagli, e gli affanni, 
E le nostre miserie, e i nostri danni. 
Saper dovete, ch'Arno,
Non già tranquillo, lieto, dolce, e chiaro, 
Ma tempestoso, torbido, ed amaro, 
Quasi empio rio tiranno
Corse, ma non indarno,
Anzi, con tanta furia,
Che non se solo alle sue rive ingiuria...



Piazza del Limbo (sopra), che in antico ospitava le salme dei bambini non battezzati da cui il nome, ha subito l'alluvione del 1577 così come ha subito tutte le altre, essendo in una posizione davvero sciagurata. È collegata al Lungarno solo dallo stretto chiasso Borgherini. Quando esondava, a causa di un effetto sistola l'acqua del fiume invadeva la piazza con una violenza inaudita. Per di più, la piazza stessa si trova su un piano ribassato rispetto a Borgo S. Apostoli, il che, da un lato, faceva tornare l'acqua all'indietro una volta respinta dai muri dei palazzi, dall'altro vi sopraggiungeva quella proveniente dallo sfogo fornito dal ponte S. Trinita e incanalata lungo il Borgo, il tutto con la conseguente formazione di vortici e mulinelli (ho usato i verbi all'imperfetto per scaramanzia!).

il chiasso Borgherini
Non c'è dunque da sorprendersi, purtroppo, se il livello dell'acqua nel 1966 superò i 4 metri. La bellissima chiesa dei SS. Apostoli ne fu del tutto devastata. L'ultimo atto di un lungo, lunghissimo lavoro di restauro sulle opere danneggiate risale al 2011, quando fu restituita al secondo altare di sinistra la bella pala di Anton Domenico Gabbiani.
Tornando al 1577, in quell'occasione la chiesa dei SS. Apostoli fu teatro di un gesto di grande coraggio da parte del priore. La storia è narrata da Giuseppe Richa, che la riprende dalla Firenze città nobilissima illustrata di Leopoldo del Migliore (1664). Scrive Richa:

Nella piena adunque del 1557, sulle quattro ore di notte del dì 13 di settembre sì all'improvviso traboccò Arno nel Borgo di S. Apostolo, che salita otto braccia l'acqua in Chiesa, molto pericolava la custodia del Santissimo, non ostante che essa fosse collocata sopra un ben alto pilastro, quando il buon Priore buttatosi a nuovo, e superando ogni urto dell'acqua arrivò al tabernacolo, e con una mano tenendo la Pisside, coll'altra tornando a nuotare, portò l'Eucaristia a salvamento. 

Si può cercare di immaginare, seppure in modo vago, l'impressione che questo gesto di abnegazione ai limiti dalla temerarietà da parte del priore dovette aver fatto sui fedeli, la cui devozione nei confronti del Corpo di Cristo era allora di una intensità oggi difficile da comprendere. Sicuramente il prete fu oggetto di lodi ed encomi da parte di tutti, ma la sua gloria fu decisamente effimera, dato che Richa faticò non poco per rintracciarne il nome. Finché, in un elenco stilato da Domenico Maria Manni, identificò come priore della chiesa dei SS. Apostoli nell'anno dell'esondazione padre Francesco della famiglia dei Portinari.

L'interno della chiesa dei SS. Apostoli, oggi.


giovedì 2 novembre 2017

GABBATO LO SANTO 10. Eligio (Alò, Loè, Lò)


Eligio è il Santo protettore dei maniscalchi, come anche dei fabbri, degli orafi e in genere di coloro che hanno a che fare con i metalli. Nacque a Chaptelat, presso Limoges, nella Francia sud occidentale, verso il 590, e morì a Noyon nel 660. In Italia il suo nome è stato storpiato nel corso del tempo da numerose contrazioni. Quelle del titolo sono solo alcune. Sant'Alò, in particolare, è protagonista di un detto popolare la cui origine è contesa da varie regioni italiane: fare come Sant'Alò, che prima morì e poi s'ammalò, e altrettanto variamente è riferito agli ipocondriaci o a chi vorrebbe sovvertire l'ordine delle cose. Su Toscana Oggi, Carlo Lapucci cita altri detti: "Sant'Alò piantava i chiodi nei buchi già fatti; Sant'Alò si bruciò il dietro e la camicia no [l'originale dev'essere più esplicito...]; Sant'Alò lasciò il mondo come lo trovò". Naturalmente nessuno di questi ha il benché minimo riferimento alla figura reale del Santo.


All'esterno di Orsanmichele, in via dell'Arte della Lana all'angolo con via dei Lamberti, troverete il monumento a Sant'Eligio forse più noto, di certo il più visto. Fu realizzato da Nanni di Banco intorno al 1420, su incarico dell'Arte dei Maniscalchi. Il Santo è raffigurato in abito vescovile nella sua nicchia. Alla base, un bassorilievo raffigura l'episodio a sua volta più noto della vita di Eligio. Probabilmente a causa di esso i maniscalchi lo vollero come protettore. Ma viene raccontato in versioni diverse. Giorgio Batini, in Firenze - pochi lo sanno (Bonechi, 1990), narra:

... Sant'Eligio, già bravissimo maniscalco francese, si vantava di saper ferrare una zampa di cavallo con tre colpi soli. Ed ecco che un giorno entrò nella sua bottega uno sconosciuto il quale gli mostrò un metodo ancora più veloce: tagliò la zampa di un cavallo, la ferrò con un colpo solo, e quindi con un segno di croce riattaccò l'arto dell'animale mutilato.
Eligio, riconosciuto il Signore nel forestiero, si gettò in ginocchio ai suoi piedi, dimenticando la passata superbia e diventando modesto. 

Questa versione è più o meno confermata recentemente da Erik von Kremer in Malattie patronati e leggende - demoiatria e consumo del sacro (Cavinato Editore, 2016), il quale però aggiunge il particolare truculento del tentativo di Eligio di emulare lo sconosciuto, mutilando irrimediabilmente un altro cavallo. Tuttavia sulla pagina Wikipedia dedicata all'opera di Nanni di Banco la vicenda è semplificata: "una zampa accidentalmente tagliata in fase di ferratura a un cavallo viene miracolosamente ricongiunta al corpo dell'animale." Insomma chi ci rimette è sempre la povera bestia.

Petrus Christus, Sant'Eligio nella bottega di un orefice.
New York, Metropolitan Museum of Art.

Per fortuna della specie equina, non è altro che una leggenda popolare, di cui - salvo errore - si ignora l'origine. Non ne fa cenno Jacopo da Varazze nella Leggenda aurea. Non ne fa cenno Sant'Ouen da Rouen (!) che di Eligio fu il primo biografo, e che da Eligio stesso era stato nominato vescovo. Nella sua Vita di S. Eligio, tradotta dal latino al francese da Louis de Montigny e dal francese in italiano dal chierico Giorgio Gucmanno (1629), non risulta nemmeno che Eligio abbia mai fatto il maniscalco.

E Ouen non è certo parsimonioso nel narrare i miracoli compiuti dal Santo sia durante sia dopo il suo passaggio su questa terra. La storia inizia con un classico dell'agiografia: la madre, il giorno prima del parto, ha una visione celestiale: una bellissima aquila che volteggia su di lei, come profetizzandole per il nascituro un avvenire radioso nella gloria di Dio. Più interessante il miracolo laico compiuto dal giovane Eligio, apprendista orafo nella bottega del prestigioso maestro Abbone. Il re Clotario II consegna al giovane l'oro necessario per realizzare un trono adeguato al suo ruolo. Eligio con quest'oro di troni gliene fa due, lasciandolo di sasso e gettando peraltro una luce sinistra sull'onestà e sulla buona fede dei colleghi.

Clotario II lo mandò a Marsiglia a dirigere la zecca. Il successore Dagoberto, resosi conto delle sue capacità, lo incaricò di numerose missioni diplomatiche. Alla morte del re, dopo aver fondato alcuni monasteri (tra cui uno a Solignac, presso Limoges, e uno a Parigi), ed essersi prodigato in opere di carità (riscatto a sue spese di prigionieri di guerra), Eligio scelse la vita religiosa, e nel 641 fu nominato Vescovo di Noyon. Da allora si dedicò all'evangelizzazione della regione, ancora in gran parte pagana, insieme con altri vescovi tra i quali Ouen. Morì, abbiamo visto, nel 660 mentre era ancora impegnato in questa missione. Nella biografia di Ouen trovano spazio una discreta quantità di miracoli compiuti da Eligio, in particolare guarigioni di infermi (e un morto resuscitato), il ritrovamento delle salme di alcuni santi, le parole terribili pronunciate da Eligio nei confronti degli apostati, e al contrario la pietà mostrata nei confronti dei poveri.

Il culto del Santo non tardò a diffondersi ampiamente fino alle nostre regioni, ed ebbe un notevole successo durante il Medioevo. Le categorie di lavoratori che ne hanno richiesto il patronato si sono fatte sempre più numerose. Tra queste, oltre a quelle citate all'inizio, vanno aggiunte quella dei carrettieri, e ancora i netturbini, i mercanti di cavalli, i veterinari, fino ai garagisti.
Ecco quanto scritto sul Martirologio romano:

A Noyon in Neustria, ora in Francia, sant'Eligio, vescovo, che, orefice e consigliere del re Dagoberto, dopo aver contribuito alla fondazione di molti monasteri e costruito edifici sepolcrali di insigne arte e bellezza in onore dei santi, fu elevato alla sede di Noyon e Tournai, dove attese con zelo al lavoro apostolico.


Foto di Marinella Ines Rusmini
Eppure, l'episodio illustrato più di frequente, per quanto inesistente e inverosimile, resta quello del cavallo. Lo si trova nella vetrata del Duomo di Milano, opera di Niccolò da Varallo risalente al 1480 (sopra). Lo si trova in numerose miniature e dipinti. Artisti come Niccolò di Pietro Gerini hanno trattato il tema. Troverete alcuni esempi qui e qui. L'arte degli Orafi, circa il 1488, commissionò a Sandro Botticelli una Incoronazione per la Cappella di Sant'Alò (!) nella controfacciata sinistra della chiesa di S. Marco (oggi la pala è agli Uffizi). Il pittore raffigurò la Vergine incoronata con i Santi Giovanni Evangelista, Agostino, Girolamo e, appunto, Eligio. Nella predella illustrò cinque episodi della vita dei relativi santi (compresa l'Annunciazione). Della vita di Sant'Eligio, il miracolo del cavallo (sotto) citava letteralmente, diremmo oggi, il bassorilievo di Nanni di Banco.