mercoledì 28 giugno 2017

Santi Tosini che non era l'Angelico


Riprendendo il discorso del post precedente, cerchiamo di mettere a fuoco la figura del vero Santi Tosini, vissuto centocinquant'anni dopo fra' Giovanni Angelico per il quale è (stato) sovente scambiato.

Abbiamo visto che Marchese cita una ‘biografia non breve’. Si tratta quasi certamente di quella riportata da Domenico Moreni in una ponderosa “Bibliografia storico-ragionata della Toscana” (1805). “Vita del Ven. P.F. Santi Tosini del Convento di S. Domenico a Fiesole” è opera manoscritta di certo Domenico Maria Sandrini. “Questo Religioso”, aggiunge Moreni, “morì molto vecchio nel 1752. Quanto era egli di virtù fornito, altrettanto era scarso di critica, e di gusto nello scrivere”. Sarà per questo che citazioni dirette della sua opera non se ne trovano.
Nella risposta di rettifica fornita a Roberto Piacenza (ne ho parlato nel post precedente), Angelo Maria Bandini aggiunge: "In un libro intitolato catalogo di uomini illustri, che hanno decorato il Convento di San Domenico si legge: Santi Tosini fu mandato dalla Vergine Santissima della Nunziata di Firenze a vestir l'abito di San Domenico in questo Convento, e fu un uomo tanto santo, quanto lo dichiara la sua vita stampata dal padre Maestro Cecchini". Si tratta della Vita venerabilis fratris Sanctes Tosinii Florentini scripta olim a patre fratre Reginaldo Cecchinio, il cui testo in latino, non lunghissimo, è on line e lo troverete qui.


Di recente ha scritto su Santi Tosini la studiosa Heidi J. Hornik all’interno di una vasta opera dal titolo Michele Tosini and the Ghirlandaio Workshop in Cinquecento (2009), il cui protagonista è il pittore padre del nostro domenicano. Dalla ricostruzione della Hornik risulta che Michele Tosini - il quale volle essere chiamato Ghirlandaio per devozione al suo maestro Ridolfo - ebbe quattro figli. Il secondo nacque a Firenze nel 1536 e fu chiamato Iacopo. Nel registro battesimale di S. Maria del Fiore, qui accanto, è il secondo registrato al 27 settembre. Cecchini scrive erroneamente 1538.
All’età di sedici anni, mentre Jacopo lavorava insieme con il padre in SS. Annunziata (foto d'apertura), sentì per tre volte una voce dall'al di là: «Fesulas petito, teque habitum divi Dominici induito». Le parole sono riportate dal Cecchini. E così scelse di unirsi ai frati domenicani.
L’8 settembre 1553 prese i voti in S. Domenico a Fiesole con il nome di Santi.

Jacopo Tosini vocato Santi era ‘versato per la pittura’, come lo erano il babbo e il fratello maggiore Bartolomeo che intraprese la strada paterna? Non esageriamo. Il Cecchini, nella Vita, non fa alcun cenno alla sua attività pittorica. Lodovico Ferretti, in “La chiesa e il convento di San Domenico di Fiesole” (1901), lo definisce “cultore anch’egli dell’arte della pittura, e, se non in questa, certamente nella santità emulo del suo grande confratello Beato Angelico”. Insomma, come pittore un granché non doveva essere.

La chiesa di S. Domenico a Fiesole
Santi fu invece un grande predicatore, oltre che frate dalla vita irreprensibile. Fin da bambino, riferisce Cecchini, tendeva a digiunare e mortificare il proprio corpo, e si può dire non abbia mai smesso. Scrive Cecchini: Nocte orationibus insistebat, laboribus cunctis primus insistebat, cilicio et inedia corpus macerans et semper hilarem faciem pre se ferens.
“Allorché predicava”, aggiunge Ferretti, “rapiva al cielo gli uditori e molte volte li compungeva fino alle lagrime, e varii prodigi accompagnarono sì fruttuose predicazioni”. Nel 1589 è registrato nel libro di Ricordanze di Badia a Ripoli per aver realizzato “certe cortine di tela cilindrata dipinte a fiorito”. Nel 1600 fu priore del Convento di S. Domenico. Fu mandato tra l’altro in Casentino (ebbe il priorato a Santa Maria del Sasso presso Bibbiena), ed ebbe la cura di diversi conventi. Fu poi chiamato a Roma, dove conobbe papa Clemente VIII e ne ebbe la stima. Morì in odore di santità il 10 settembre 1608 e ai suoi funerali “corse gran parte di Roma ed il popolo ne volle reliquie”. E a Roma venne sepolto, in Santa Maria Maddalena. L'essere stato frate domenicano e la sepoltura a Roma sono dunque i due elementi che accomunano Santi con Fra' Giovanni Angelico. Ma ci si ferma qui.
Cosa resta dell'opera artistica di Santi Tosini? Temo nulla. Ferretti parla di quattro quadri che “restano ancora [in S. Domenico], ma in miserabili condizioni”. E siamo nel 1901. E aggiunge: “conservasi eziandio tra gli arredi della Chiesa [di S. Domenico] un calice d’argento assai ben cesellato portante questa iscrizione: F. Sanctes Tosinus F.C. S.D. de Fesulis, 1597”, del quale si è perduta ogni traccia.

venerdì 23 giugno 2017

Ecco perché l'Angelico NON si chiamava Tosini


Quale era il cognome del Beato Angelico? Non si è mai riusciti a saperlo. Commentando la biografia di Giorgio Vasari sull’artista mugellano autore dello sbalorditivo Giudizio finale che vedete in apertura, Gaetano Milanesi (1878) scrive: “Fra Giovanni, al secolo appellato Guido o Guidolino, nacque presso il castello di Vicchio (…) da un cotal Pietro del quale s’ignora il cognome; e coloro che lo dissero de’ Tosini, de’ Montorsoli, de’ Petri, non saprebbero addurci un sol documento valevole a comprovarlo”.
Petri derivò da una confusione col nome del padre Pietro, Montorsoli da un’assonanza con lo scultore Giovanni Angelo Montorsoli (1507-1563).

È più difficile spiegare l’origine del sedicente cognome che più di tutti ha resistito e tuttora resiste: Tosini. Penso di averla trovata (dimostrando così che Tosini non è il cognome del nostro pittore) in uno scritto di Giuseppe Piacenza a commento della biografia dell’Angelico nelle “Notizie de’ professori del disegno” di Filippo Baldinucci. L’edizione da me consultata è datata 1813, ma è di sicuro una ristampa. Piacenza narra di essere rimasto perplesso quando aveva letto, in una delle Lettere fiesolane dell’erudito canonico Angelo Maria Bandini, un riferimento a un dipinto “opera del padre del beato Angelico Santi Tosini, chiamato maestro Michele Ridolfo Tosini”. Il che era in contraddizione con i numerosi documenti in cui l’Angelico risultava figlio di un Pietro, o Piero. Bandini, interpellato, aveva risposto nel 1776 con una lettera: “Sarà stato un mio sbaglio, se ho asserito, che il padre del beato Angelico fosse maestro Michele Ridolfo Tosini, poiché dovevo dire, che il quadro (…) è opera di maestro Michele Ridolfo Tosini, padre di Santi Tosini religioso Domenicano di santa vita”.

Madonna delle ombre, Firenze, Museo di S. Marco

Nel 1795, però, nella sua celebre “Storia pittorica dell’Italia Dal Risorgimento delle Belle Arti fin presso al fine del XVIII secolo”, l’abate Luigi Lanzi scrisse di “un beato dell'Ordine domenicano, chiamato Fra Giovanni da Fiesole o il Beato Giovanni Angelico, al secolo Santi Tosini, come leggesi nelle Novelle Letterarie del 1773”.
Non sono riuscito a rintracciare quest'ultima fonte. Ma è evidente che nelle Novelle doveva essere stata citata la Lettera fiesolana senza la rettifica di Bandini, peraltro come abbiamo visto di tre anni posteriore. L’autorevolezza del Lanzi e del suo testo fece sì che quasi tutti gli storici a seguire presero per buona la sua affermazione. Cosicché in molti dizionari e storie dell’arte, accanto alla voce Beato Angelico o alle sue varianti (fra Giovanni da Fiesole, per dirne una), veniva specificato “al secolo Santi Tosini”, oppure Guido di Pietro Tosini.

Oltre a quella di Gaetano Milanesi citata all'inizio, passò inosservata la nota di Giovanni Masselli (1838) alle vite del Vasari: “Nella storia pittorica del Lanzi (…) si dice che fra Giovanni si chiamava al secolo Santi Tosini: ma questo è un errore attinto alle lettere Fiesolane ove, nella quarta di esse, confondesi fra Giovanni con altro religioso dello stesso suo ordine e convento”.

Tabernacolo dei Linaioli, Firenze, Museo di S. Marco
Passò inosservato anche quanto scrisse Vincenzo Fortunato Marchese nelle sue dettagliate “Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani” (1845): “Il Lanzi (…) afferma che al secolo [l’Angelico] fosse Santi Tosini, figlio di un Michele Ridolfo Tosini pittore. Ma frate Santi Tosini religioso domenicano del convento di Fiesole, piissimo invero, e alquanto versato nella pittura, morì in Roma più di centocinquant’anni dopo il beato Angelico (1608).”. E aggiunse: “Di questo P. Santi Tosini morto con grande opinione di santità, abbiamo una biografia non breve nella cronaca MS di s. Domenico di Fiesole. Credesi aiutasse il padre a restaurare la miracolosa immagine di Maria ss. Annunziata in Firenze”.
Parole al vento. L’equivoco sopravvive ancora ai giorni nostri. Un solo, significativo esempio: un'autorità come Cristina Acidini Luchinat, nel catalogo sulla grande mostra del 2008 Mugello culla del Rinascimento, chiama l'Angelico Guido di Pietro Trosini: ulteriore variante, del pari diffusa.

Nel prossimo post racconterò qualcos'altro sul vero Santi Tosini.

lunedì 19 giugno 2017

GABBATO LO SANTO 7: Annalena del Convento


La Pensione Annalena, che si trova a Firenze in Via Romana 34 e trabocca di storia, faceva parte di un monastero che nacque in seguito a un omicidio barbaro e vigliacco commesso nel 1441.
La vittima era Baldaccio d'Anghiari, un abile condottiero di ventura. L'assassino il Gonfaloniere Bartolomeo Orlandini. Niccolò Machiavelli, nelle Istorie fiorentine,  fa risalire il movente ai rapporti di Baldaccio con Neri di Gino Capponi, "della cui reputazione Cosimo de' Medici più che di alcuno altro temeva (...) Era Baldaccio amicissimo a Neri, come quello che per le sue virtù, delle quali era sempre stato testimone, lo amava: il che arrecava agli altri cittadini sospetto grandissimo. e giudicando che fussi il lasciarlo pericoloso e il tenerlo pericolosissimo, deliberorono di spegnerlo".


Non è chiaro, non lo dicono né Machiavelli né Scipione Ammirato che lo cita, se Orlandini sia stato istigato e/o pagato dai Medici o abbia fatto tutto da sé. Ma tutti gli storici sono concordi nel riferire dell'odio che il gonfaloniere provava nei confronti di Baldaccio per le maldicenze che questi aveva diffuso su di lui. Soprattutto perché erano vere. "La cagione dell'odio era", scrive l'Ammirato, "che quando l'Orlandini proposto alla guardia di Anghiari, di quel luogo bruttamente si fuggì, ne fu e con parole, e con lettere severamente ripreso, et accusato da Baldaccio." Ed ecco, sempre nelle parole dell'Ammirato, come Orlandini perpetrò l'omicidio.

E usando l'Anghiari di venir spesso in piazza, per trattar coi Magistrati della sua condotta: il Gonfaloniere, havendo apparecchiato quello, che gli facea di bisogno, mandò per lui, quasi della sua condotta volesse parlargli. Ubbidì prontamente Baldaccio, non credendo, che con l'autorità publica volesse l'Orlandini delle private ingiurie prender vendetta. E dopo l'havere alcune poche volte lungo l'andito delle Camere de' Signori col Gonfaloniere passeggiato, le quali essendo d'asse, poco innanzi erano state fate di mattoni, fu con grand'impeto da molti Armati, che ivi entro ad alcuna di quelle Camere nascosi si stavano, assalito: e l'essere in più parti ferito e reso, e per una delle finestre, che in Dogana risponde, gittato giù, fu tutta una cosa.  Onde per mostrare, che la causa fusse pubblica, gli fu ivi a poco, così morto come egli era, mozza la testa. 

Gli storici glissano in merito, ma la tesi che i Medici possano essere stati i mandanti dell'omicidio stride abbastanza col fatto che fu Cosimo a dare in sposa a Baldaccio nel 1438 la giovane Annalena Malatesta. Fu un matrimonio felice e, dopo l'assassinio, ad Annalena rimase il loro figlio Guido Antonio. Cresceva con un temperamento vivace e fiero come quello del padre. Ma nel 1450 si ammalò di pestifero male e morì.
A nulla valsero i sinceri e affettuosi tentativi del fratello Ruberto di consolare e convincere Annalena a risposarsi. Lei già prima della perdita del bambino, e adesso più che mai, aveva deciso di abbandonare il mondo secolare e dedicarsi completamente alla vita religiosa fondando un istituto.

Via S. Maria, traversa di Via Romana su cui
si affacciavano i locali del convento

Non le fu punto facile. Il Comune aveva confiscato i beni del marito e Ruberto faticò cinque anni perché, grazie sempre a Cosimo (altro stridìo), Annalena avesse una casa nel popolo di S. Felice in Piazza. Aveva i fiorentini dalla sua parte, sdegnati per quanto accaduto a Baldaccio, e successivamente poté recuperare i beni del marito, fra cui nel 1445 una casa che egli aveva acquistato nel 1438, e che sarebbe stata il primo nucleo del Monastero a venire. Nel 1453 acquisì altre due case.
La fondazione ufficiale del Monastero avvenne nel 1454, con il trasferimento di Annalena con dodici nobili compagne vestite dell'abito di terziarie domenicane. Erano stati necessari gli interventi di quattro papi (Eugenio IV, Niccolò V, Callisto III e, in seguito, Pio II) e di S. Antonino, Arcivescovo di Firenze. Quest'ultimo placò l'ira dei Monaci Camaldolensi, padroni della vicina Parrocchia di S. Felice in Piazza, che non vedevano di buon occhio il sorgere di una attigua concorrenza. Tanto più che, spiega Giuseppe Richa, Callisto III aveva concesso al nuovo Monastero la facoltà di erigere nella propria Casa un pubblico Oratorio, di celebrarvi Messa, e divini Ufizi, e l'uso delle Campane; dichiarandosi in essa Bolla S. Antonino, esecutore independente ed immediato a fare tutto ciò, che dalla divota Donna si era dimandato.


Il convento nella pianta di Stefano Buonsignori (1584)
Annalena, pur avendo avuto il beneplacito per la creazione di due nuovi conventi, onde evitare altre difficoltà più o meno burocratiche, preferì ampliare il primo. Acquistò allo scopo diverse case in Via Romana. Acquistò anche i terreni circostanti per dare alle sorelle un giardino. Nel 1474 costruirà la nuova chiesa, che sarà consacrata a S. Stefano e S. Vincenzo Ferrer l'anno seguente.
Annalena Malatesta morì nel 1491 profondamente rimpianta dalle ospiti del convento, che nel frattempo erano parecchio cresciute di numero. Ciononostante, non ho notizia di proposte di beatificazione.

Il convento, tra alterne vicende, andò avanti fino al 1786, quando giunsero le soppressioni leopoldine.
Il giardino fu acquistato nel 1791 dal Marchese Corsi e, grazie al lavoro dell'architetto Giuseppe Manetti, fu trasformato nel primo giardino all'inglese di Firenze.

Casa di Annalena, oggi hotel 3 stelle.
Dal 1807 iniziò un lungo lavoro di ristrutturazione di tutti i locali dell'ex convento. L'odierna Pensione o Casa di Annalena fu realizzata dall'architetto Giuseppe Del Rosso in stile neoclassico. Il proprietario, il generale francese Macdonald , vi abitò con la sorella di Napoleone Carolina Bonaparte, che aveva sposato nel 1830. La chiesa fu sconsacrata nel 1874 e demolita. Sul sito degli Esercizi Storici Fiorentini si legge:

"Vi furono in seguito alcuni passaggi di proprietà che, mescolando il sacro e il profano, trasformarono l'ex convento, prima in una casa da gioco, poi in una lussuosa casa di tolleranza ed infine in un ricovero per giovani donne. Nel 1914 il palazzo fu acquistato dalla famiglia Perogallo che lo adibì a civile abitazione. Nel 1919, il secondo e terzo piano furono trasformati in albergo dalla famiglia Calastrini Rossoni e questo prese appunto il nome di 'Pensione Annalena' diventando in breve tempo un punto di riferimento per viaggiatori e stranieri, poeti e musicisti. Lo scultore Olinto Calastrini, marito della figlia dei gestori, vi abitò negli anni venti e esercitò la sua arte nei locali della pensione"


Anche il Teatro Goldoni sorse sui locali del Monastero

Lo storico Claudio Paolini, nel suo Repertorio delle architetture civili di Firenze, ricorda:


Tra gli ospiti che qui risiedettero sono da ricordare Eugenio Montale (che qui visse una intensa storia d'amore con Irma Brandeis), Carlo Levi [che qui scrisse Cristo si è fermato a Eboli], Francis Henry Taylor (direttore del Metropolitan Museum of Art di New York) e ancora, vista la vicinanza al teatro Goldoni, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi.


Una lapide, infine, ricorda che quivi Luigi Dallapiccola (1904-1975), uno dei massimi musicisti italiani del XX secolo, visse e lavorò ininterrottamente per gli ultimi vent'anni della sua vita.


lunedì 12 giugno 2017

Vicchio nel Secolo dei Lumi


Con il libro di Adriano Gasparrini e Alfredo Altieri La comunità di Vicchio nel Settecento (ed. Noferini 2017) siamo al secondo, e si spera non ultimo, capitolo della riscoperta & rivalutazione della figura e soprattutto dell'opera di Valentino Felice Mannucci.
Mannucci, nato nel 1702, non ebbe inizialmente una gran fortuna. Di famiglia nobile caduta in disgrazia, conobbe anche il carcere. Finché nel 1732 non sposò Barbara Bruschi, di una ricca famiglia livornese. La tranquillità economica che ne derivò gli consentì di darsi da fare su diversi fronti. Adempì agli obblighi tipici di una famiglia nobiliare. Nel 1743 fu nominato podestà a Vicchio, e nel 1745 a Castelfiorentino (sarebbe morto prematuramente due anni dopo). Su sostegno e insistenza dell'erudito Domenico Maria Manni, girò il Mugello annotando e scrivendo su tutto ciò che riteneva degno di nota, con grande meticolosità. Secondo la storica Rossella Tarchi si comportò da viaggiatore, consultatore, intervistatore. Il risultato fu (è) una sorta di guida anche più moderna della celebre e quasi coeva Descrizione della Provincia del Mugello (1748) di Giuseppe Maria Brocchi.
Alfredo Altieri rinvenne il suo manoscritto di ben 239 carte in uno scaffale della Biblioteca Medicea Laurenziana, e iniziò un paziente lavoro di trascrizione, che condusse alla pubblicazione, nel 2009, di Notizie del Borgo San Lorenzo in Mugello e suo territorio raccolte da Valentino Felice Mannucci nel 1742-1743 (Protagon Editori) relativo dunque al Borgo a S. Lorenzo, e arricchito dalle foto dello sterminato archivio di Aldo Giovannini.

Presentazione del libro a Vicchio: da sin. Altieri, Gasparrini, Roberto Izzo,
Carla Giuseppina Romby, Giovanna Del Gobbo

Chi ha letto il volume ricorda due particolarità: Uno, che le dimensioni di chiese, pievi, oratori, edifici in generale, non erano date in unità di misura, ma in capienza: quante anime possono contenere. Due, sono riportati in modo quasi maniacale i testi di tutte le lapidi incontrate dall'Autore. Poi magari il lettore le sorvola perché sono quasi tutte in latino, e tutte senza quasi pesantucce, ma gli fa piacere sapere di averle a disposizione.

Oggi esce il libro con la parte delle notizie di Mannucci dedicate a Vicchio. Si ritrovano anche qui le particolarità ora citate. Il testo è scritto in un italiano tutto sommato abbastanza scorrevole, considerando l'epoca a cui risale. Tuttavia, lavorando insieme con una intesa e una sinergia non comuni, i miei amici Alfredo Altieri e Adriano Gasparrini hanno integrato nella pubblicazione una quantità di altre notizie storiche sul '700 vicchiese, concependo così la guida di Mannucci come elemento centrale di un'opera su Vicchio che, se non raggiunge la completezza, ci si avvicina per davvero: La Comunità di Vicchio nel Settecento sbalordisce per la ricchezza di informazioni, al punto di risultare quasi un testo universitario. Roba elitaria, da studiosi? Pesante tomo accademico? Neanche per sogno. Ecco cosa si legge tra l'altro nella presentazione redatta dal Sindaco di Vicchio Roberto Izzo e dall'Assessore alla Cultura Carlotta Tai: "Se alcune parti del libro saranno apprezzate solo dai lettori specializzati, non mancano però dettagli curiosi e divertenti che lo rendono godibile a tutti, tanto più che è stato arricchito con illustrazioni, disegni, carte e cabrei di notevole valore, parte dei quali riprodotti per la prima volta."

Presentazione del libro in S. Omobono a Borgo S. Lorenzo.
Da sin. Aldo Giovannini, Rossella Tarchi, Filippo Bellandi, Gasparrini, Altieri

Mi azzardo così a raccomandare questo libro a chi, abitando nel Mugello e non solo a Vicchio, abbia in famiglia un ragazzo in età scolare, dalle medie in su. Non necessariamente perché lo legga dall'inizio alla fine (non è un romanzo), ma perché lo consulti, volta a volta. Per saperne di più sulla terra dove è nato e/o dove vive, in particolare come era nel secolo dei lumi. La curiosità farà il resto. Il libro è in grado di risvegliarla.
E un ulteriore auspicio: che Altieri e Gasparrini completino l'opera di trascrizione del ponderoso manoscritto di Mannucci con le parti dedicate a Dicomano e San Godenzo.


venerdì 9 giugno 2017

I mugellani di Bruno


"Scritti sul Mugello", edizioni Il Filo, è una raccolta di saggi del mio amico Bruno Becchi, scritti tra il 1997 e il 2016. In questi giorni la sta promuovendo attivamente.
Prima di andare avanti, cassiamo subito via dalla parola saggi tutto ciò che possa essere in odore di noia, di accademia, di elitario. Questi saggi sono leggibili da chiunque. Il primo capitolo, sul Risorgimento in Mugello, è un prodigio di sintesi, chiarezza e precisione. La comunicatività è sempre stata d'altronde una delle armi di Bruno: "Non ho mai dimenticato gli insegnamenti di Giorgio Spini, il quale mi diceva, fra l'altro, che se scrivi in modo confuso vuol dire che hai idee confuse." Come riportato nella quarta di copertina, e per tacere della sua attività di insegnante, Bruno è "studioso dell'età contemporanea che, nel corso della sua attività, si è occupato di storiografia ed ha fatto ricerche e pubblicazioni sulla storia del socialismo e del Partito d'azione, sulla classe dirigente italiana dal fascismo ai nostri giorni, su Don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana." Aggiungiamo che vive a Vicchio con la moglie Cristina e due figli. I suoi libri sono numerosi. Ricordo, tra i più recenti, Lassù a Barbiana ieri e oggi. Studi, intevrenti, testimonianze su don Lorenzo Milani (Polistampa 2004), e Figure del socialismo Italiano (Pagnini 2010), che ebbi l'onore di presentare a Vicchio. In preparazione, un testo più ponderoso dal titolo Studi sull'Ottocento e il Novecento. Storie di libri, fatti, idee, persone e personaggi.

"Più che sul Mugello", mi spiega Bruno, "Scritti sul Mugello è un libro sui mugellani. In un Mugello non chiuso in se stesso, ma che è al contrario una sorta di centro di irradiazione a 360°" Ugualmente a 360° sono gli argomenti trattati. "Non c'è un vero filo conduttore, è un libro che non va necessariamente letto da capo a fondo, ogni brano fa storia a sé."
In effetti colpisce, nel leggere il sommario, l'eterogeneità di argomenti. Si parla, abbiamo visto, di Risorgimento. Poi di antichi riti contadini. Di artisti. Di insegnanti. Si parla, certo, soprattutto di libri. Libri altrettanto eterogenei. Lo spazio dedicato alle Novelle scritte a mano (Pagnini 2004) di Donella Lasciarfari Gori è pari o maggiore rispetto a quello dedicato a Il valore degli altri. Saggio sulle relazioni umane come risultato dell'operare mentale (Odradek 2015) di Stefano Piovanelli. Attenzione: Stefano, non Silvano, come lì per lì mi era parso. Non si tratta del Cardinale ex Arcivescovo fiorentino. Il mio lapsus è forse spiegabile, oltre che con la somiglianza grafica dei nomi, col fatto che poco più avanti due articoli sono dedicati al ricordo di don Angelo Vallesi, col quale il laico Bruno afferma di essere un debitore quasi da bancarotta.

Ma esiste un denominatore comune tra i capitoli di questo libro? Sì, esiste: ed è l'attenzione rivolta da Bruno a tutti gli argomenti che affronta, la pari dignità che ad essi riconosce: a riti contadini antichissimi nei quali gli stessi contadini non credevano, così come a una figura d'artista come il pittore Carlo Galleni che incontrò Luzi, Montale, Pratolini; a libri che rievocano episodi locali della Seconda Guerra mondiale; a insegnanti come i già citati Donella Lascialfari Gori e don Vallesi professore di religione di Bruno, o Cesare Pozzesi. Tutto, ci dice Bruno con Scritti sul Mugello, merita l'analisi, l'attenzione di noi tutti, nulla è secondario, nulla si può né si deve trascurare. Conclude il libro un sentitissimo e toccante episodio autobiografico, che prende le mosse dalla prematura morte della mamma di un'alunna di Bruno.

Mi viene in mente una frase di François Truffaut relativa al mestiere di regista: "Il film che abbiamo girato con maggior disinvoltura farà forse il giro del mondo". La mia sensazione è che Scritti sul Mugello sia il libro realizzato da Bruno con maggior disinvoltura. Facesse davvero il giro del mondo, e glielo auguro di cuore, porterebbe una immagine bella quanto reale della regione nella quale Bruno è nato. Buona lettura a tutti.







martedì 6 giugno 2017

Pier Nicola Ricciardelli

Pier Nicola Ricciardelli, pittore e incisore fiorentino, classe 1936, non tenta di nascondere i suoi anni - ottimo sistema per non sentirli proprio -, ed è un buon testimonial di un proverbio, aggiornato alla nostra epoca, secondo il quale la vita incomincia a sessant’anni. A questa età andò infatti in pensione dopo una carriera di stimato bancario, e iniziò a darsi da fare per imparare a dipingere. Riuscendo così a formarsi un’educazione artistica in varie scuole, tra cui l’Istituto Artistico di Porta Romana, l’Istituto Internazionale di calcografia “ Il Bisonte”, l’Accademia delle Belle Arti di Firenze (scuola libera del nudo) e vari insegnanti privati.
Di imparare si può dire che non ha mai voluto né vuole smettere. Il primo premio lo ebbe nel 2000 (si classificò 2° per l’arte sacra al premio nazionale "G. GRONCHI" Pittura-Grafica-Scultura - Città di Pontedera), ma - e di questo va giustamente orgoglioso - nel 2005 un dipinto raffigurante Giovanni Paolo II genuflesso con sullo sfondo la Pietà di Michelangelo fu collocato sull’altar maggiore di SS. Annunziata a Firenze in occasione della morte del Papa, e vi rimase fino all’elezione di Benedetto XVI.

L’arte sacra costituisce da sempre una parte consistente della sua produzione. Non a caso è reduce dalla partecipazione alla Rassegna d'Arte Forma e Colore del Maggio Salesiano a Firenze.
Oggi è uno dei più attivi membri, tra l'altro, di Gadarte e dell'Associazione Giotto e l'Angelico.
Premi, segnalazioni, menzioni onorevoli da lui ottenuti non si contano più. Particolare soddisfazione gli dette la segnalazione alla Biennale Il Burlamacco di Viareggio nel 2012 per l'acquaforte.
 Sempre nel 2012 ebbi l'onore di presentare, presso la Casa di Giotto a Vespignano, la sua personale, che offriva un’ampia antologia retrospettiva dell’intera attività di Pier Nicola, ed era stata giustamente divisa in tre sezioni: i dipinti a olio, i pastelli e le incisioni. Le sue tre tecniche.

Le civette, incisione
Dipingere a olio o acrilico, mi ha raccontato Pier Nicola, è sempre stato per lui soprattutto un divertimento, e si può dire che non ha avuto un maestro vero e proprio. Ha avuto invece maestri straordinari, e ne parla con fervore, nelle altre due ‘discipline’: Giorgio Barreca per il pastello, Manuel Ortega (centro culturale per l’arte grafica ‘Il Bisonte’, forse il più importante del mondo) per le acqueforti. Paesaggi e nature morte a olio trasmettono come un clima di grande festa per la gioia torrenziale con cui vengono stesi i colori, mentre i pastelli hanno forse un tono più meditativo e riflessivo. Ma le incisioni, che richiedono una tecnica e una pazienza d’esecuzione esagerate, sono a mio parere quelle che maggiormente rivelano il vasto retroterra culturale, l’originalità d’ispirazione e l’abilità espressiva di un artista umile e determinato nel voler guardare sempre avanti.

La nipotina, pastello

La visita, acrilico


domenica 4 giugno 2017

La Rocca di San Bavello


San Bavello si trova tra San Godenzo e Dicomano. Una stradina secondaria in salita si biforca per condurre da una parte alla Pieve di San Babila, dall'altra alla Rocca. La Rocca di San Bavello, di cui sono ancora visibili pochi resti sotto l'aspetto di cumuli di pietre, fu distrutta dai Fiorentini nel 1341. 


Giovanni Villani narrò l'aneddoto relativo all'episodio storico nelle sue Croniche (libro XII, capitolo CXXV), memorabile al punto che nessuno storico sfuggì in seguito alla tentazione di riferirlo. Eccolo: 

Nell'anno di Cristo MCCCXLI, a dì XV d'aprile, i Fiorentini avendo fatto porre oste al castello di San Bavello di Guido Alberti di conti Guidi, infino che fu condannato cogli altri conti, come dicemmo poco adietro, per cominciare l'esecuzioni delle loro condannagioni, essendo molto stretto, e non attendea soccorso, s'arrendé al Comune di Firenze salve le persone. Il quale feciono tutto diroccare per ricordo e vendetta contro al detto Guido: che più tempo dinanzi avendo il Comune di Firenze per sua lettera richiesto e citato il detto Guido  per alcuna cagione, per dispetto del nostro Comune nel detto San Bavello dinanzi a più suoi fedeli al messo del Comune fece mangiare la detta lettera con tutto il suggello, e poi accomiatandolo villanamente, dicendo per dispetto del Comune, se più vi tornasse, o egli o altri, gli farebbe impiccare per la gola; onde sentendosi in Firenze, grande sdegno ne venne quasi a tutti i cittadini".

A spedire le sue truppe ad assediare il forte, sull'onda di tale sdegno, fu il Gonfaloniere Porcello da Diacceto. Sì: si chiamava così. "Il superbo conte riparò svergognato a Modigliana e San Bavello fu diroccato e distrutto" conferma Lino Chini, "e tutto il piviere con i popoli di S. Maria a Ficciana e di S. Niccolò a Casale vennero in potere della Repubblica [fiorentina]".

Alla Rocca si giunge per una strada erta e sterrata, ma pulita e agevole. Sul poggio, un alto spuntone di roccia da cui si domina l'intera vallata (foto d'apertura). Poi, i cumuli di pietre, ultimo vestigio dell'antico castello, e uno stretto pertugio tra due lastre di roccia, dalla funzione incerta.


Da un'altra parte, una specie di buca accuratamente ingabbiata. E soprattutto la cappella dedicata a Santa Lucia, in pietra, scarna e austera. Fu riedificata, non distante dalla preesistente e distrutta Chiesa di Santa Lucia, dalla famiglia Del Campana di San Godenzo, nel 1744, come riportato dalla lapide sotto l'altare. Come riportato invece dalla lapide sulla porta, è stata restaurata grazie alla famiglia Saccenti nel 1999.

Il signor Romano Saccenti l'aveva 'presa in consegna' nel 1987. Si adoperò con passione, grazie all'ausilio di tecnici specializzati, perché l'oratorio tornasse il più possibile com'era. Rifece la strada, per poter portare su il materiale e collaborò con le Belle Arti di Firenze perché fosse realizzato un grande dipinto di S. Lucia, in sostituzione di un altro che era stato rubato. Lo fecero alcuni studenti senza compenso, se non quello di una grande festa popolare. Per molti anni questa festa si è ripetuta con la partecipazione entusiastica di tutto il paese.

La 'buca' sul poggio di cui si è detto, secondo una leggenda, sarebbe l'imbocco di una sorta di galleria segreta realizzata quando la Rocca era in piedi, per garantire la fuga agli assediati. I precedenti proprietari del terreno l'avevano fatta ostruire perché non costituisse un pericolo per la gente, bambini soprattutto. Romano sperava di riuscire a scavare questa buca per vedere dove porta, e verificare se davvero si tratta solo di una leggenda. Quattro anni fa purtroppo ci ha lasciati, senza poter portare a termine il suo proposito.