sabato 21 luglio 2018

Vedere Scatizzi

 

I fiori di Scatizzi sono proverbiali, direi, quasi quanto le bottiglie di Morandi. Potrete vederne ben sei se andate o tornate nel salone Donatello della Basilica di San Lorenzo a Firenze per (ri)visitare la mostra Presenze nell'arte contemporanea - emergenti del XXI secolo e maestri del XX secolo.
L'esposizione allestita dalla Nag-Art, di cui ho parlato diffusamente in questo post, in realtà non è stata prorogata: è stata proprio inaugurata una seconda volta, il 7 luglio e resterà visibile fino al 28 luglio. Una sorta di replica per la quale è stato creato un nuovo catalogo, sempre curato da Silvia L. Matini, e con alcune variazioni, diverse conferme e non poche new entries. 


Insomma, vale la pena tornarci anche se si è già visitato la 'edizione' di giugno: nella quale non c'erano ancora, tra gli altri, l' annigoniano Samuele Vanni, che espone un suggestivo San Francesco riceve le stimmate; il vedutista lombardo Cesare Triaca; Giovanni Crispino, autore di manifesti cinematografici e copertine di libri, qui presente con alcune rivisitazioni, stranianti e intriganti, di scorci fiorentini; la cinese Hu Huiming, classe 1990, artefice di opere sperimentali curiose e inattese. Tony Nicotra, italiano nato nel 1971 a Caracas. Questi si serve di tecniche particolari grazie alle quali le sue opere dànno colori - e forme - differenti a seconda che siano illuminate dalla luce del giorno o dagli ultravioletti. Vi è poi una lacuna colmata: l'opera della siriana Helen Abbas, in programma già nell'allestimento di giugno, ma che era rimasta bloccata alla dogana. 


E Scatizzi? Vincenzo Nobile, come sempre curatore e deus ex machina della mostra, è giustamente orgoglioso di proporlo. "Ne vogliamo celebrare il centenario della nascita. I dipinti che esponiamo provengono da una unica collezione privata, e occupano il posto d'onore integrandosi perfettamente con le altre opere dei Maestri del XX secolo presenti anche a giugno - Annigoni, Guttuso, Carrà, Rosai, Sironi -, e con le quali chiedevamo agli artisti contemporanei di confrontarsi.".

Sergio Scatizzi fu artista generoso e prolifico, pur dedicandosi prevalentemente a due generi: il paesaggio e la natura morta, in particolare - l'abbiamo detto - i suoi celebri fiori. Il che non ne fa certo un artista limitato. Nacque il 20 ottobre 1918 a Gragnano, non distante da Capannori (LU). Tutte le sue biografie sottolineano alcuni incontri che influiranno sulla sua vita e la sua arte, in particolare Mario Mafai, poi (1939) lo scrittore Giovanni Comisso e il collega Filippo De Pisis. La sua prima personale risale al 1949, e l'anno seguente partecipò alla Biennale di Venezia. Nel 1955 si trasferì a Firenze. Fece parte di numerosi circoli culturali, stabilì rapporti con Carlo Betocchi, Alfonso Gatto, Ottone Rosai. Collaborò con la Galleria L'Indiano fino al 1969. La sua attività espositiva fu comunque sterminata. Nel 1967, sempre a Firenze, ebbe il XVIII Premio Internazionale del Fiorino e della Città di Firenze. L'anno seguente espose all'Ashville Art Museum, North Carolina (U.S.A.). Fu attivo fino all'ultimo, nonostante l'incombere della malattia. La produzione dell'ultimo periodo fu oggetto di una grande mostra dal titolo Il barocco informale di Sergio Scatizzi che si tenne da settembre a novembre 2009 nella Sala del Fiorino della Galleria d'Arte Moderna fiorentina. Fu forse l'omaggio più importante reso da Firenze a Sergio Scatizzi, il quale si spense pochi giorni dopo la chiusura.

Scatizzi rimase pittore italiano, e quasi ostinatamente toscano. I suoi incontri e le sue frequentazioni culturali gli fecero però tenere ben presenti gli stimoli di artisti europei come un De Stael, e di movimenti di cui, soprattutto nel secondo dopoguerra, non si poteva non tener conto. L'informale. Il materico. Scatizzi li affrontò, li considerò, li utilizzò, ne prese quanto ritenne giusto per precisare e consolidare il suo stile. I suoi paesaggi sembrano compiere una parabola nel corso del tempo. La sua Valdinievole, le terre di Volterra, le spiagge di Vada, divenivano negli anni cinquanta, rispetto alle prime opere, sempre più rarefatte, sempre più essenziali, il pennello lasciava sempre più spesso il posto alla spatola, pur non venendo mai a mancare quella che il mio amico Niccolò Niccolai ha definito memoria figurativa. Carlo Lodovico Ragghianti parlò di plasma cromatico. Negli ultimi anni Scatizzi pare riavviarsi verso una definizione figurativa leggermente maggiore, senza rinnegare né rinunciare a nulla di quanto raggiunto fino allora, ma quasi non volesse correre il rischio di portare il suo stile alle estreme conseguenze, all'astrazione pura.
Come sostiene Giacomo Ferri in questo articolo, la strada percorsa da Scatizzi sembra talora andare di pari passo con quella del lombardo Ennio Morlotti, al punto che, confrontando i relativi fiori, non è facile capire chi abbia influenzato chi. Ma ciò dimostra come certe ricerche espressive e stilistiche fossero profondamente sentite a livello nazionale, per andare a confrontarsi con le avanguardie europee. Come in Morlotti, anche e forse soprattutto in Scatizzi, la compenetrazione, spesso conflittuale, tra figurativo informale e materico si ritrova appunto nei suoi fiori, lo ripeto: proverbiali. I quali, lo dico a questo punto per esperienza personale, vanno visti dal vivo. Una foto non basta.
Cosa ci affascina di questi brulichii di colori, dati più da colpi di spatola che da colpi di pennello?Cosa ci impressiona di queste composizioni floreali i cui soggetti sono così evanescenti, e sembrano quasi esser sul punto di dissolversi? Forse proprio il fatto che in un quadro di Scatizzi, più che dei fiori ci sembra di vederne il ricordo. Come tutti i ricordi, anch'esso si fa sempre più lontano e confuso, ci sfugge nonostante i tentativi e la volontà da parte nostra di trattenerlo, si ha insomma l'impressione di vedere dei fiori, sì, ma che tra poco questi fiori non ci saranno più. Solo che, anziché nel tempo, ciò accade nello spazio. Così, Scatizzi ci fa in un certo senso sentire a disagio. Ci fa sentire vulnerabili.
O almeno, queste sono le impressioni del sottoscritto nel vedere per la prima volta da vicino i suoi dipinti. Né pretendo che la mia sia l'interpretazione giusta. Di sicuro vedere Scatizzi è un'esperienza che - esattamente al contrario di quanto ho appena scritto! - non si dimentica. Va ringraziato l'amico Vincenzo Nobile per aver dato, a me e ai visitatori, questa possibilità. E per avere ricordato, nel centenario della nascita, un artista che è stato tra i protagonisti del Novecento artistico non solo toscano.  



venerdì 13 luglio 2018

Da St. Thomas Becket ai Minerbetti (ma anche no).


Torniamo a parlare della famiglia Minerbetti, e in particolare delle sue origini.
E diciamo subito che, se si può confermare la sua provenienza da Canterbury, non altrettanto può dirsi della sua discendenza da St. Thomas Becket Vescovo e Martire.
Nella Storia genealogica della nobiltà, e cittadinanza di Firenze (1754) di Giuseppe Maria Mecatti, alla voce Minerbetti si legge: "Vogliono che discendano d'Inghilterra dalla medesima Famiglia degli Antenati di San Tommaso di Conturberì".
Secondo Luigi Passerini (1845), "è comunemente ritenuto che siano nativi dell'Inghilterra e della famiglia di Tommaso Becket Arcivescovo di Canterbury fatto uccidere dal Re Enrico."
Secondo la voce Palazzo Minerbetti su Wikipedia, essi erano "...un'antica famiglia pare di origine inglese, ramo secondario dei Becket, in fuga dal loro paese dopo l'uccisione dell'Arcivescovo di Canterbury Thomas A. Becket, già proprietari di altri edifici nella zona.".
Sul sito delle Soprintendenze archivistiche SIUSA, alla voce Minerbetti Boni, è scritto: "La famiglia fiorentina dei Minerbetti Boni pare certo sia originaria dall’Inghilterra. Sembra infatti confermata la loro provenienza dai cadetti dei Becket, cacciati nel 1168, prima della morte di Tommaso (1118-1170), famoso primate della chiesa d’Inghilterra."
Ieri come oggi, dunque, la discendenza viene espressa per lo più in forma dubitativa. Pare, probabilmente, per opinione comune, sembra, ecc. Da nessuna parte troviamo peraltro la parentela precisa (originano da un fratello o un cugino del martire? Da un nipote?), con una eccezione che vedremo in fondo. In definitiva, salvo errore, non esiste un solo documento in grado di confermare con certezza questo legame. Legame che probabilmente non è mai esistito. Ma andiamo per ordine.


Si sono versati fiumi d'inchiostro sull'assassinio dell'Arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, avvenuto il 29 dicembre 1170 nella cattedrale della sua città. L'episodio ebbe un clamore enorme e si diffuse con una velocità spropositata per l'epoca, per una serie di motivi che si possono così rapidamente riassumere:
  • il fatto che la vittima fosse un Arcivescovo e che il mandante, se non materiale, per lo meno morale fosse il Re d'Inghilterra. 
  • l'efferatezza dell'omicidio: a St. Thomas fu spaccata e scoperchiata la testa a colpi di spada. Un religioso che cercò di difenderlo ebbe un braccio mozzato.
  • il fatto che l'assassinio fosse compiuto nella Cattedrale.
  • la diffusione del culto ad opera del clero regolare, in particolare frati cistercensi e templari (l'ordine era stato fondato da poco), e soprattutto da parte dei pellegrini che percorrevano le vie verso Roma, Gerusalemme, Sant'Iacopo di Compostela. 
  • l'esistenza di reliquie, in particolare ampolle d'acqua che aveva toccato effetti personali della vittima, considerate miracolose
Sotto certi aspetti, passò quasi in secondo piano la causa dell'omicidio, ovvero la disputa sui poteri ecclesiastici e quelli statali. Nel 1164 l'Arcivescovo, nominato due anni prima su insistenza di Re Enrico II Plantageneto, si ribellò a quest'ultimo e al suo progetto - tramite le costituzioni di Clarendon - di sottomissione della Chiesa da parte della Monarchia. Accusato di tradimento e fuggito nel continente, tornò nel 1170 e, rifiutatosi ancora di sottomettersi al Re, fu ucciso. L'Arcivescovo fu proclamato Santo subito, il 21 febbraio 1173.

Il Centro Studi Romei dedicò nel 2004 un intero volume della collana De strata francigena al diffondersi nella nostra penisola del culto per St. Thomas Becket. In un susseguirsi di contributi da parte di storici coordinati da Renato Stopani, viene tracciata una vivida e impressionante immagine del successo ottenuto dalla figura del Santo inglese, al quale fu intitolata una chiesa a Varese già nel 1173. Negli anni seguenti,  ulteriori intitolazioni di chiese altari e cappelle a St. Thomas da un lato,  notizie di miracoli compiuti dalle reliquie dall'altro, si fanno sempre più numerose, in particolare - anche se non esclusivamente - sui percorsi romei. Fabrizio Vanni afferma: "Ma forse saranno stati proprio gli stessi pellegrini romei, provenienti dalle isole britanniche, a esportarne in Italia, non fosse altro per orgoglio patriottico, la memoria".
Per quanto riguarda la Toscana, sempre Fabrizio Vanni riporta la notizia di una donna che a Lucca, per intercessione del Santo, riacquistò la vista dopo vent'anni; Gabriella Garzella, in un convegno del 2007, documenta una chiesa a Pisa dedicata a Sancti Thome martyris de Conturbia sicuramente prima del 17 ottobre 1182; Renato Stopani, infine, fissa la nascita del culto a Firenze al 1189, quando nella chiesa di San Donato a Torri un altare fu dedicato al martire.

Firenze S. Maria Novella: l'altare dedicato a St. Thomas con ai lati
le tombe di Tommaso e Ruggerino Minerbetti.

E veniamo ai Minerbetti. Secondo il Verino e il Del Migliore (citato da Richa), erano approdati a Lucca per trasferirsi in seguito a Firenze, all'epoca meno importante proprio in quanto al di fuori delle grandi vie di comunicazione. Il capostipite è individuato in Ugo Minerbetti, come risulta anche da un albero genealogico dipinto che si trova nell'oratorio di S. Martino dei Buonomini. Da Ugo discesero Buoncambio e poi Ruggerino. Quest'ultimo, citato nel Libro di Montaperti come alfiere fiorentino nel sestiere di Porta San Pancrazio e mancato nel 1280, fu sepolto come Ruggieri Canturbiensi. Il che conferma l'origine della famiglia. Le due tombe in S. Maria Novella dedicate a lui e a un Tommaso deceduto nel 1494 furono commissionate dall'Arcivescovo Francesco Minerbetti, ma in passato la famiglia aveva contribuito finanziariamente alla stessa costruzione della campata della chiesa. .

La tomba di Ruggerino Minerbetti

Del Tommaso figlio di Ruggerino è invece il testamento, stilato nel 1308, nel quale egli - nel nome di Dio, della Beata Vergine, di S. Tommaso Martire, di un Beato Clemente e di tutti i Santi - tra l'altro chiede di essere sepolto appunto in S. Maria Novella, e di perpetuare la devozione nei confronti del Santo di Canterbury tramite l'usanza istituita dal padre di fare ogn'anno nel giorno di S. Tommaso Martire [il 29 dicembre] una pietanza a' Frati e Capitolo di S. Maria Novella
Nel testamento si parla dunque diffusamente dell'Arcivescovo martire, ma, attenzione!, non si fa alcun cenno al fatto che egli sia antenato del testatore. La cosa aveva lasciato perplesso anche Giuseppe Richa. Nelle sue Notizie istoriche delle chiese fiorentine (1755), parlando del monastero di San Silvestro fondato da Francesco Minerbetti, citò il testamento e scrisse: 

L'uno e l'altro strumento  [la devozione a St. Thomas e la festa in suo onore] sembrami, che avessero dovuto accennare per motivo della festa, e della divozione parziale, il glorioso titolo della parentela col Santo, della quale punto non parlano. 

L'omissione porta decisamente a propendere per l'ipotesi che vi fosse da parte della famiglia una semplice devozione nei confronti del Santo martirizzato nella loro terra d'origine. Per di più, alcuni discendenti della famiglia, verso la metà del '300, cercarono in qualche modo - senza riuscirvi - di liberarsi dall'incombenza, si suppone noiosa, del pranzo tutti gli anni il 29 dicembre.

Salvo errore, della parentela tra i Minerbetti e St. Thomas Becket si parla per la prima volta solo nel 1696, decisamente molto, troppo tempo dopo. Nella Vita di S. Tomaso Arcivescovo di Cantuaria e Martire tradotta dall'inglese, Giovanni Battista Cola scrive: 

Questa è la ragione, siccome mi vien riferito, per la quale il Sig Comendatore di Malta F. Andrea Minerbetti in Firenze si gloria derivare da Parenti del Nostro Santo; la cui Festa dalla sua Casa ogni anno solennemente si celebra, e si mantiene ordinariamente in alcuno di essa il nome di Tomaso.

Palazzo Minerbetti, via del Parione

Si suppone che Cola intendesse il Palazzo Minerbetti di via del Parione a Firenze. La famiglia, tra i suoi possessi, annoverava anche Villa Il Corniolo, a Mucciano, frazione di Borgo San Lorenzo. Qui abita la mia amica Marisa Mazzoni, la quale mi mostrò (e gentilmente mi ha permesso di pubblicarne le foto) due elenchi originali delle Messe e Uffici celebrati dalla famiglia Minerbetti, nella cappella privata di famiglia o nella non troppo distante Chiesa dei Cappuccini di S. Carlo.

Villa Il Corniolo, Mucciano, Borgo S. Lorenzo.
Vi figura la Messa in onore di S. Francesco il 4 ottobre, ma il 29 dicembre non è riportato per Messe né per uffici di sorta. Inoltre, nella succitata cappella di famiglia situata a pochi passi dalla villa ed edificata da Tommaso di Andrea, padre di Francesco Minerbetti (oggi proprietà privata), è un bellissimo affresco di scuola botticelliana, raffigurante la Madonna col Bambino e, ai lati, quattro Santi. Sono la Maddalena, S. Giovanni Battista, S. Francesco e uno che non sono riuscito a identificare. Di sicuro non è un Santo Vescovo, e tanto meno St. Thomas. Esisteva, semmai, una cappellina interna alla fattoria della villa - la riporta il Niccolai nella sua Guida del Mugello, 1914 - ove era un ritratto di S. Tommaso di Canterbury, oltre a una Vergine col Bambino e una S. Caterina d'Alessandria.  Come mi ha comunicato il signor Florio Spalletti, il cui padre fu fattore della villa, la cappellina fu demolita negli anni '80 del secolo scorso.




In Medieval Art, Achitecture & Archaeology at Canterbury, a cura di Alixe Bovey (2013), Costanza Cipollaro e Veronica Decker scrivono:

La parentela con Becket, fosse reale o solo supposta dai fiorentini, potrebbe aver permesso ai Minerbetti di partecipare attivamente all'istituzione del suo culto. Questo fenomeno non era nuovo in Firenze. 

In realtà, dopo il fervore iniziale, il culto fiorentino di St. Thomas non sembra aver avuto un grandissimo seguito, né una lunga durata. Nel 1700, secondo Ludovico Antonio Giamboni, il 29 dicembre era dedicata al Santo protettore dell'Inghilterra una festa solenne nella chiesa di S. Apollonia, dove "stà esposta la preziosa Reliquia d'un Braccio con la mano, e Carne sopra di questo glorioso Santo preservato dal fuoco, quando il suo Santo Corpo fù abbruciato da moderni Eretici". Si allude a un episodio riferito da Papa Paolo III nel 1538, ma di veridicità dubbia come l'autenticità della reliquia.
Non ho trovato notizia di altre celebrazioni in occasione della festa dell'Arcivescovo di Canterbury, sponsorizzate  o meno dai Minerbetti. Né sembra che alla reale, ipotizzata o millantata parentela sia in alcun modo dovuta o comunque collegata l'ascesa della famiglia che, ricordiamolo, dette a Firenze 33 priori, 13 gonfalonieri, sei senatori, Cavalieri di Malta e di S. Stefano, e alcuni Vescovi.

Nel 1860, sulla rivista londinese Notes and queries, comparve un curioso  trafiletto. L'anonimo autore (W.H.) narra dell'incontro, avvenuto otto anni prima, con un marchese, il quale gli disse che sua madre era stata l'ultima discendente della nobile famiglia pisana (sic.) dei Minabekti (sic.), e che la famiglia aveva avuto origine, dopo la morte dell'Arcivescovo, da un suo fratello minore che fuggì dall'Inghilterra e si rifugiò a Pisa. Qui prese il nome di Becket - minor, da cui originò il cognome Minerbetti. Il marchese in questione è senza dubbio Luigi Torrigiani Guadagni (1804-1869), figlio di Maria Vittoria Santini e nipote di Maria Teresa Minerbetti.

Nel 1876 il Rev. J.C. Robertson, nelle sue Becket memoranda in Archaeologia Cantiana, espresse nutriti dubbi sull'etimologia del cognome e sull'attendibilità di questa ricostruzione. A parte la confusione tra Pisa e Lucca, le sue ricerche proprio sulle parentele del Santo lo avevano condotto a identificare tre sorelle - Mary, Roheise ed Agnes - e nessun fratello di St. Thomas. In secondo luogo, lo storico fu in grado di accertare che vi fu sì una fuga dei parenti dell'Arcivescovo per sfuggire alle persecuzioni del Re (nella foto d'apertura la partenza di Becket in una miniatura tratta da BL Loan MS 88), ma questa avvenne durante l'esilio, a partire dal 1164, e non dopo il suo assassinio. 

Robertson ritiene invece degne di maggior fede le altre notizie fornite dal Cola:

"Ed i Signori Bechetti di Piacenza, di Fabriano, di Verona, di Berceto nel Parmigiano, ove dicono conservarsi una preziosa Reliquia di S. Tomaso nella Propositura di detta Terra, e della Città di Sacca in Sicilia, siccome d'altre Città, e Provincie, tengono a singolar pregio, e onore delle loro famiglie di derivare dalla Stirpe di questo Gran Santo, allegando l'identità del nome, e cognome, che à continuato, e tutt'ora continua nelle lor  Case"

Anche in questo caso, aggiungo, non si possono avere certezze. Sappiamo però dalla corrispondenza di Becket che un suo nipote, di nome Gilbert, si trovava esule nel 1169 a Palermo e l'Arcivescovo ne aveva perorato la causa presso la corte. L'esistenza della famiglia Bicchetti a Sciacca avrebbe un senso. Paolo Carnevali, in questo post, tratta diffusamente dei due cugini Pietro e Giovanni Becchetti, frati agostiniani di Fabriano, vissuti a cavallo tra il 1300 e il 1400, beatificati nel 1835 da Papa Gregorio XVI e la cui festa tuttora si celebra il 2 luglio. 


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lunedì 2 luglio 2018

Si riparla (finalmente) di Tonino D'Orio.


Ci sono tre giorni, tra giugno e luglio, in cui da diversi anni a Borgo San Lorenzo l'angusto e fascinoso Vicolo di Castelvecchio diventa, su iniziativa principalmente delle mie amiche Beatrice Niccolai e Daniela Cappelli, il Vicolo della Poesia. Per tre sere si parla di poesia, di letteratura, di arte, di cinema, si racconta, si recita, si suona, si canta. L'edizione 2018 ha avuto per titolo Il cielo mi guida e, lungo il fine settimana 29-30 giugno-1° luglio, si sono alternati sul palco poeti, musicisti, registi, voci recitanti, mentre sulle pareti del vicolo, bonus non indifferente, è stata allestita una retrospettiva di Tonino D'Orio.
Feci amicizia con questo autentico uomo del Rinascimento  quando collaborai fattivamente alla realizzazione della mostra Pittore di paesaggi e sentimenti che si tenne nel 2016 a Vespignano: curai le foto del catalogo, e ne sono tuttora orgoglioso. 

David Cantina presenta la mostra di Tonino D'Orio a Vespignano.
Sullo sfondo Rosalba D'Orio, Giuliano Paladini e Carlotta Tai. Aprile 2016
Veramente, Tonino D'Orio non l'ho mai incontrato. La mostra alla Casa di Giotto era in occasione del centenario della nascita. Ma le conversazioni con i figli Benedetto e Rosalba, così come quelle con l'amico storico dell'arte David Cantina, furono così sentite, ne ricavai un ritratto così vivido, che ebbi l'impressione di conoscerlo di persona. E che fosse ancora vivo. Ecco cosa scrissi all'epoca:

Il Vicolo della Poesia, 2018
Nato nel 1916 a Roccasecca (FR), come S. Tommaso d’Aquino e Severino Gazzelloni, del quale fu grande amico, da giovane suonava praticamente tutti gli strumenti a corda. Il suo preferito, un violino, rimase seppellito sotto le macerie della Seconda Guerra mondiale. Comprò allora un mandolino, di cui divenne virtuoso ed ebbe anche alcuni allievi. Fece teatro sotto l’egida dell’Enal di Frosinone, recitò con Dora Calindri, sorella di Ernesto, curò diverse regie. Fu organizzatore di innumerevoli feste con gruppi folcloristici ciociari. Capitano negli Alpini, entrò nell’Intendenza di Finanza e, quando nel 1957 vinse un concorso alla Dogana, si trasferì a Firenze. Fino ad allora aveva dipinto saltuariamente, ma l’incontro col suo maestro Gino Paolo Gori, di cui frequentò con assiduità lo studio, fu fondamentale: dal 1959-60 si dedicò esclusivamente alla pittura, fino al 1977, anno della prematura scomparsa. 

Benedetto D'Orio nel Vicolo della Poesia
Queste brevissime note biografiche possono far esclamare a chi ammira i suoi dipinti: ah, ecco! Perché un’opera di Tonino D’Orio, come una poesia dell’ermetismo, reca la sensazione che a monte ci sia qualcos’altro. Molto altro. Non di rado un microcosmo. Che non poteva provenire da qualcuno che non avendo di meglio s’improvvisò pittore, ma solo da un artista a tutto tondo, con un retroterra sconfinato e dalle mille sfaccettature.

Donna viola, 1973
Sbalordisce la coerenza stilistica dei suoi dipinti. Guardate la continuità tra un paesaggio industriale e un tramonto lacustre. Guardate le sue donne, dipinte o disegnate spesso in pochi tratti. O era sempre la stessa? Guardate i suoi cieli, e faccio mie le parole del mio amico David Cantina nella nota al bel catalogo della mostra: “Un cielo che accoglie sotto di sé una natura fatta di declivi, talvolta brulli, talvolta boscosi, strade di campagna, laghi in cui il sole si immerge liquefacendo la sua luce sugli specchi d’acqua, campagne velate dalla nebbia dove si possono riconoscere alcune case, rovine industriali divorate dalla vegetazione”. Personalmente ho un debole per certe sue vere e proprie miniature, dipinti di dimensioni ridottissime in cui pennellate dense e materiche, non di rado poche, non di rado puro colore, forgiano nondimeno un brulichio di contenuti emozionali su cui meditare.
Per alcuni questa esposizione sarà una riscoperta, per molti una scoperta. Tutti ne concluderanno inevitabilmente che Tonino D’Orio ci ha lasciati troppo presto.

Paesaggio, 1969 ca.
Nel Vicolo della Poesia, David Cantina è tornato a parlare di Tonino. Ne ha parlato come pittore di cieli (D'Orio diceva di avere visto migliaia di tramonti e nemmeno un'alba). Ha descritto alcuni dipinti esposti, come quello dei due spazzini che lavorano in un viale di Prato che non esiste più. Ha raccontato delle sue esposizioni nei quattro angoli del globo, da Boston a S. Pietroburgo, allora Leningrado. Delle quotazioni delle sue opere, che nell'anno della morte, il 1977, sul Bolaffi andavano dalle 450.000 al milione di lire di allora. E ha concluso che il Vicolo della Poesia è stata una occasione eccellente per tornare a parlare di Tonino D'Orio.

Gli spazzini, 1967

Io, nel mio piccolo, non posso che fare altrettanto, e ricordare una volta di più questo personaggio discreto e taciturno, il quale preferiva che a parlare per lui fosse la sua opera. Tutta la sua opera. Non possiamo conoscere i suoi concerti, le sue recite, le sue regie. Appartengono a un'epoca in cui non si era ossessionati dall'idea di riprendere filmare fotografare registrare tutto.  Restano i suoi dipinti, testimoni del bellissimo percorso umano compiuto da - lo ribadisco - un uomo del Rinascimento che non dimenticò mai di vivere nel XX Secolo.