lunedì 29 aprile 2019

Paddy Campbell. La tragedia e la speranza


Conobbi lo scultore Paddy Campbell a Vicchio nel settembre 2010 in occasione di una sua mostra dal titolo La vita, e che fu allestita nelle stanze e di fronte la Casa di Benvenuto Cellini. Ci parlai ed ebbi da lui notizie che mi lasciarono abbastanza sbigottito. Ecco quanto scrissi sul Galletto.

Blue Lady. Vicchio 2010
...stenterete a credere quanto invece Paddy Campbell mi ha confermato: che questo signore dall’aria felice, classe 1942, dopo aver svolto con successo vari mestieri, non ultimo quello di ristoratore, è approdato alla scultura non più di una decina di anni fa [adesso una ventina], complici alcuni soggiorni in Toscana. Fu allora che, dopo essere stato anche pittore, si rese conto che la scultura era il suo mezzo elettivo d’espressione. Dal 2005 ha un suo studio fiorentino in via Luna. Ed è, appunto, felice e orgoglioso di ospitare le sue opere nella casa di uno dei suoi artisti preferiti in assoluto. “Credo che i miei preferiti siano proprio Cellini e Bernini. Si tratta di due dei massimi artisti del Rinascimento, accanto, è naturale, a Michelangelo. Ho studiato anche Giotto e l’Angelico, che sono ugualmente due giganti, anche se si parla di pittura.”

Mother & Child. Vicchio 2010
Più avanti: 

L’attenzione di Paddy al particolare apparentemente insignificante ha del maniacale, ma è grazie ad essa che lo spettatore assimila il suo concetto di vita – che, non dimentichiamolo, è il titolo della mostra -. E se, come si legge sul catalogo, Paddy Campbell cerca “di vedere l’essenza di chi sono [le sue modelle] – quella parte emotiva, spirituale, che è così vulnerabile, e nello stesso tempo così potente”, vi riesce proprio al momento in cui la cura del dettaglio puramente materiale è massima. Lo si vede in quelle sculture in cui viene congelato l’attimo, o in quelle nelle quali è ripresa una situazione considerata banale, ma che l’abilità tecnica dell’artista trasfigura in immagine ai limiti del mito. C’è da essere orgogliosi del fatto che la Toscana sia stata scelta, ormai, come seconda patria da un autore che ha realizzato il ritratto ufficiale della Presidente dell’Irlanda [sotto]

da www.ul.ie 
Da allora è passata parecchia proverbiale acqua sotto i ponti, e Paddy ha realizzato una quantità di mostre principalmente - ma non solo - tra la sua Irlanda e l'Italia. Tuttavia era rimasto per lui un progetto in sospeso. Paddy aveva ascoltato, soggiornando a Vicchio, molte storie di guerra, ed era rimasto colpito in particolare da quella sulla strage di Padulivo (10 luglio 1944, 14 morti innocenti). Lui che è nato durante la Seconda Guerra Mondiale. Lui che è stato testimone della guerra fratricida combattuta in Irlanda del Nord nella seconda metà dello scorso secolo. 3.500 morti, quasi tutti civili, in tempo ufficialmente di pace. Lui che, scrive la storica e critica d'arte Anita Valentini, esprime sempre la sacralità del vivere.

Life and Death
nella Piazza di Pietrasanta
Ma era stato il racconto di Padulivo a far scoccare in lui la scintilla. A ispirargli una scultura che potesse ricordare e rendere un omaggio universale a tutti coloro che hanno perso la vita a causa della guerra e del terrorismo
Ne nacque un'opera che, intitolata Life and Death, fu presentata per la prima volta alla sua personale "Di Cuore", ovvero "From the Heart", tenutasi nell'estate 2013 in Palazzo Medici Riccardi a Firenze. Oltre 50.000 visitatori poterono ammirarla. E, nell'ammirarla, riflettere. 
Fin dall'inizio Campbell aveva deciso di fare dono di Life and Death al paese di Vicchio. Ancora oggi si legge sul sito della Provincia di Firenze nella pagina relativa alla mostra: "Questa scultura è stata commissionata dal Comune di Vicchio del Mugello come memoriale alle vittime di tutte le guerre, a completamento dell’obelisco esistente in Piazza della Vittoria, dove sarà installata a settembre 2013."

Non è stato possibile, l'obelisco è storicizzato. C'è voluto altro tempo per il superamento di ulteriori ostacoli di vario genere. In questo Paddy ha potuto contare sull'aiuto determinante di Francesco Valentini, Generale di Divisione dei Carabinieri. Uno che aveva scelto anche lui Vicchio come residenza elettiva. Uno che soprattutto aveva fatto parte del Pool Antimafia. Non c'è da sorprendersi se aveva preso a cuore il progetto.

Io con Paddy Campbell
Valentini non ha potuto vedere realizzato il suo desiderio di vedere l'opera di Campbell collocata in Piazza della Vittoria a Vicchio, non a completare bensì accanto al Monumento ai Caduti. Ci ha lasciati proprio quando, nel 2018, Life and Death veniva esposta nella Piazza di Pietrasanta. Paddy non ha dimenticato, e alla base dell'installazione ha voluto collocare una targhetta in suo ricordo. L'opera è stata inaugurata in un giorno non casuale: il 25 aprile 2019. La presentazione è stata curata dalla già citata Anita, figlia di Francesco Valentini. Con questo evento il Sindaco di Vicchio Roberto Izzo, com'egli stesso ha affermato, ha concluso nel migliore dei modi i suoi dieci anni di mandato. 

Campbell si discosta del tutto dallo schema classico del monumento ai caduti. Life & Death, Morte & Vita. Death, crivellato di colpi, non giace a terra. Vola via. È risucchiato verso l’eternità. Come se il vertice dell’impalcatura piramidale fosse posto all’infinito. Campbell, forse con valenza apotropaica, per fondere la figura di Death ha anche fatto uso di autentiche pallottole e bossoli della Seconda Guerra Mondiale. 
Life protende la mano verso quella di Death. Ma sa bene che non potrà raggiungerla. O forse sì? S’intravvede un guizzo di speranza nel suo gesto. Death è la morte, e forse la rinascita. Life è tutti noi, ha spiegato Anita Valentini. E in tutti noi permane un'eco di speranza, per quanto remota. Forse nessuno come Campbell ha saputo esprimere il tragico, indescrivibile stato d’animo di chi rimane sulla terra dopo che chi gli è caro se n'è andato via in modo tanto orribile.

Inaugurazione di Life and Death, 25 aprile 2019







mercoledì 17 aprile 2019

Due chiese, due epoche


La chiesa di S. Ilario a Colombaia è documentata dal 1072, quella di S. Leone Magno fu costruita nel 1972. Una distanza di novecento anni nel tempo e di neanche un chilometro nello spazio, per due chiese situate sulla destra di Via Senese, dalle due parti dello scollinamento.

Raggiungere in bicicletta S. Ilario sarà pure impegnativo - ma non più di tanto -, però mi consente di transitare per la via omonima: una di quelle numerose, sconosciute viuzze che contribuiscono in modo determinante a dare a Firenze la patente di città unica al mondo.Il lungo muretto a secco da cui si affacciano rampicanti e chiome di alberi dalle foglie festosamente primaverili, è punteggiato anche dai sette tabernacoli che vi furono collocati nel 1934, e che contraddistinguono la via matris, ovvero i sette dolori della Beata Vergine, com'è annunciato dalla lapide posta all'inizio della via. L'ultimo è sotto il portico della chiesa.
Ma la chiesa è irrimediabilmente chiusa, e ci si rimane davvero male dopo la salita. Al numero della parrocchia che mi ero annotato risponde una segreteria telefonica. Un peccato, perché speravo di vedere e fotografare l'affresco sulla parete di sinistra e il crocifisso ligneo nell'oratorio. Il primo, leggo sulla guida al quartiere n. 3 compilata nel 2005 da Bettino Gerini, è attribuito ad Ambrogio di Baldese (1342-1429). Di questo artista mi ricordavo perché nel 1417 fu incaricato di affrescare la cappella Gherardini (oggi perduta) nella chiesa di S. Stefano al Ponte. Avrebbe dovuto dipingere anche la tavola centrale, ma poi, e non se ne sa il motivo preciso, si preferì ingaggiare un giovane artista: un Guido di Piero non ancora divenuto frate domenicano. Il futuro Fra Giovanni Angelico.
Quanto al Crocifisso, Gerini nel citarlo scrive uno svarione: "un Crocifisso ligneo cinquecentesco, detto dei Bianchi, lasciato nel 1400 [!] a Firenze da alcuni pellegrini, colpiti dalla peste". Da altre fonti ricostruisco che si tratta di tedeschi di una Compagnia dei Bianchi i quali, giunti in città nel 1399 in occasione del giubileo, furono sorpresi e massacrati dalla peste, sicché il Crocifisso rimase nella chiesa. Questa storia non mi suonava punto nuova, e la rilettura del saggio di Marco Pinelli L'Oratorio del SS. Crocifiso dei Miracoli (2000) mi ha confermato che non mi sbagliavo: non solo si ripete quasi parola per parola riguardo al SS. Crocifisso di Borgo San Lorenzo, ma sembra essersi ripetuta più volte e in più luoghi a Firenze. Scrive Pinelli:

È il caso della Compagnia di Sant'Agostino, detta del Crocifisso dei Bianchi, fondata proprio nel 1399, e con sede nei pressi della chiesa di S. Spirito, di quella del crocifisso dei Bianchi, che si riuniva nella chiesa di S. Pietro del Murrone in via S. Gallo e soprattutto quella del SS. Sacramento di S. Lucia sul Prato, le  cui vicende  appaiono in tutto simili a quelle della Compagnia del Corpus Domini.

E non cita S. Ilario. Ad andare su Google si scopre che ce n'è ancora altri, e non solo a Firenze. Insomma, un crocifisso ligneo, lasciato da dei tedeschi della compagnia dei Bianchi morti di peste nel 1399, non si nega a nessuno. Bene. Chissà se sarò in grado di scrivere un post in merito.

Tornando alla nostra chiesa chiusa, si chiamava anche S. Ilario alla Fonte, perché vicina a una fontana pubblica sulla strada regia, ovvero sull'odierna via Senese. Documentata, abbiamo detto, fin dal 1072, aveva nel suo ampio circuito parrocchiale ben cinque conventi. Di due non resta traccia, dopo la loro distruzione avvenuta nel 1529 per far terra bruciata alle truppe che assediavano Firenze. Uno era quello di S. Maria a Monticelli, e ne ho accennato anche in questo post. L'altro era S. Donato a Scopeto, che per la verità una traccia l'ha lasciata. Furono i suoi frati a commissionare a Leonardo da Vinci una pala, quell'Adorazione dei Magi che l'inaffidabile genio lasciò incompiuta per partirsene alla volta di Milano nel 1482. 
Anche S. Caterina al Monte non c'è più. S. Girolamo delle Campora c'è, ma oggi è una villa, e non si può visitare. L'avevo letto, ma voglio ugualmente arrivarci, per il gusto di pedalare su un'altra delle strad(in)e più belle di Firenze: via delle Campora, entro cui via S. Ilario sbocca. Pazienza per la salita. È una fatica ripagata dallo splendore silenzioso della primavera che sembra sporgersi dai muretti a secco come dagli slarghi che annunciano cancelli verso ville facoltose.


Racconta Emanuele Repetti che a questo monastero Giovanni Boccaccio, nel testamento, fece dono di tutte le reliquie sacre che 'in tanto tempo e con gran lavoro procurò di avere da diverse parti del mondo'. "Il qual documento" commenta Repetti "giova a provare la rettitudine de' principi religiosi di chi avvertiva i troppo facili credenti con la novella di Ra Cipolla."

San Gaggio

Constatata l'impossibilità di fare foto all'ex monastero o quel che ne resta, oltre un ingresso che ne protegge anche la visuale, torno indietro con la bicicletta a mano perché la strada è in gran parte a senso unico, e alla fine risbocco in via Senese. Altra erta, al culmine della quale si erge il quinto monastero del territorio: quello di San Gaggio, che dà il nome alla zona. E che non versa in condizioni eccellenti.


Ora, finalmente, la strada è tutta in discesa, fino alla traversa intitolata alla Beata Angela, che mi conduce all'ampio piazzale antistante la chiesa e il convento di San Leone Magno. Nulla da dire: siamo in un'altra epoca. Il fascino delle stradine tra muretti a secco lascia il posto a una sensazione di vastità, di spazio, di respiro. Evitiamo paragoni. È un altro tipo di bellezza. Nei confronti delle chiese moderne non si devono avere pregiudizi, né in un senso né nell'altro. Ci sono chiese antiche orrende, e chiese moderne bellissime. Questa mi piace, a parte il rosso mattone del marciapiede e della scalinata, troppo forte in confronto a quello della costruzione.


L'interno mi piace ancora di più. La sensazione è di entrare in un anfiteatro. Le panche accoglienti a frammenti di semicerchio sembrano avvolgere senza soffocare. La luce è soffusa, ma i colori delle vetrate distribuite lungo l'abside rendono l'atmosfera festosa, seppure devota. La conformazione a conchiglia dell'edificio si deve all'Ingegner Luigi Lucherini. 


La chiesa è stata costruita nel 1972 in posizione arretrata, scrive Gerini, rispetto a quella preesistente, nata come cappella nel 1880, poi ampliata, consacrata nel 1891 e divenuta parrocchia nel 1937. Ma nel 1964 gli smottamenti del terreno ne compromisero la stabilità e non si poté che demolirla. Ho cercato invano su internet delle fotografie del vecchio fabbricato. Possibile che non ve ne siano? Sì, possibile. Me lo conferma Romano, un signore dal sorriso sereno che mi accoglie calorosamente in sacrestia. Neanche lui è riuscito a trovarne. Però mi mostra due quadretti, e mi autorizza a fotografarli, che raffigurano l'esterno e l'interno della vecchia chiesa. L'autore è anonimo, ma le immagini, mi assicura, sono abbastanza precise. In effetti, su La chiesa fiorentina (1993) si legge: 

A tre navate, di stile romanico, corredata di un grazioso campanile dello stesso carattere, la chiesa fu progettata dall'arch. Salvatore Pirisini e dedicata a S. Leone Magno in omaggio al regnante Pontefice Leone XIII. La località scelta per la costruzione della chiesa, alla confluenza dei confini delle parrocchie di S. Ilario a Colombaia, S. Lucia al Galluzzo e S. Felice a Ema tutte assai distanti, si rivelò indovinata quando la popolazione della zona andò aumentando.