venerdì 14 giugno 2019

La giovane Monna Lisa


"Si rende conto, signorina?" ho detto alla hostess. "In questo preciso istante, al Louvre, a decine stanno sgomitando, soffocando, scazzottandosi, per rimanere un istante davanti alla Gioconda. E io e lei siamo qui da soli a goderci Monna Lisa!"
Mi trovo a Palazzo Bastogi, in via Cavour 18 a Firenze. Sono entrato di mattina all'apertura, e ancora non ci sono molti visitatori. La mostra La giovane Monna Lisa è stata inaugurata l'8 giugno 2019, con una cerimonia di gala cui sono intervenute pure le principesse Natalia e Irina Strozzi Guicciardini, discendenti di Lisa Gherardini del Giocondo. "Una ci assomiglia davvero a Lisa", mi dice la hostess. La Regione, con la collaborazione della Mona Lisa Foundation, ha organizzato una mostra splendida, incentrata su un solo dipinto. Ma questo dipinto è quel Isleworth Mona Lisa o Earlier Mona Lisa che la Fondazione stessa ha fatto sottoporre ad analisi storiche artistiche stilistiche scientifiche fisiche ottiche (ecc. ecc.) rigorosissime, prima di poter proclamare con ragionevole margine di certezza che questa bella giovane donna è stata dipinta davvero da Leonardo da Vinci. Qualcuno sostiene che è ancora più bella della Gioconda del Louvre. Io, per esempio. 

Una delle numerose attestazioni
Gli organizzatori hanno preparato uno straordinario percorso multimediale - ce n'è anche uno per i bambini e uno per i non vedenti -, lungo il quale il visitatore può leggere una serie di poster. Oppure può seguire i poster stessi col supporto di un tablet con cuffia che gli viene consegnato all'ingresso. Suggerisco caldamente la seconda soluzione. Apprenderà in questo modo tutti gli elementi relativi alla Giovane Monna Lisa: storici, artistici, scientifici. E avrà modo di ammirare anche alcuni testi antichi. In particolare, ciò che mi ha lasciato senza fiato, quell'incunabolo - e mi è parso l'originale - delle Epistulae ad familiares di Cicerone, 1477, aperto sulla pagina con una nota a margine scritta a penna da Agostino Vespucci, scrivano di Machiavelli. Nel testo Cicerone parla di Apelle, che dipinse mirabilmente il volto e la parte superiore del petto di Venere lasciando incompiuto il resto. E Vespucci, che conosceva bene Leonardo, annotò:

"Apelle pictor. Ita Leonardus uincius facit in omnibus suis picturis, ut enim Caput lise del giocondo et anne matris uirginis. videbimus quid faciet de aula magni consilii, de qua re convenit iam cum vexillofero." 1503 8bris.


Ovvero: "Il pittore Apelle. In questo modo Leonardo da Vinci fa in tutti i suoi dipinti, ad esempio la testa di Lisa del Giocondo e di Anna, la madre della Vergine. Vedremo cosa farà per quanto riguarda la sala del Gran Consiglio di cui ha appena concordato con il gonfaloniere." Ottobre 1503.


Si tratta dell'unico documento dell'epoca in cui si dà testimonianza che Leonardo aveva iniziato a dipingere il ritratto di Lisa del Giocondo. Fu scoperto nella biblioteca di Heidelberg solo nel 2005!, quando gli storici, Carlo Pedretti in testa, avevano iniziato da tempo a dubitare dell'esistenza di un ritratto la cui celebre descrizione del Vasari fa acqua da tutte le parti. E del quale fino ad allora non si era riusciti a trovare tracce documentali, ricevute d'acquisto, inventari, memorie, nulla. 
Lungo il percorso è spiegato diffusamente perché il ritratto di cui parla Vespucci non può essere quello del Louvre, realizzato con una tecnica di velatura che Leonardo usò solo a partire dal 1508 (non è l'unico motivo). E viene narrata la storia del dipinto qui esposto. Una storia che si può definire quanto meno avventurosa. Una storia che però non inizia prima del 1778 circa. Fu allora che James Thomas Benedictus Marwood, nobiluomo inglese, durante il Grand Tour, acquistò il dipinto in Italia. In Italia dove? Ah, saperlo! Lo portò nella sua villa del Somerset. Qui fu scoperto nel 1913 da Hugh Blaker, curatore di un museo inglese e profondo conoscitore di Leonardo. Il seguito è raccontato da Joel Feldman, direttore della Mona Lisa Foundation, in un'intervista alla testata on line www.lindro.it:

"...saputa dell’esistenza di questa giovane Monna Lisa, a Somerset, presso una nobile famiglia inglese, [Blaker] ottenne il dipinto e lo portò a Isleworth sul Tamigi, nel suo studio a Londra ovest. Da allora divenne noto come la Isleworth Mona Lisa. Con lo scoppio della guerra, per salvarlo, lo inviò in America al direttore del Museum of Fine Arts di Boston. Finita la guerra ritornò in Europa e Blaker lo sottopose al giudizio di molti esperti italiani, che lo accolsero come una straordinaria Monna Lisa 'più bella di quella di Parigi’. E nel 1926, l’esperto d’arte inglese John Eyre scrisse un libro “The two Mona Lisas’, sostenendo che ‘il capolavoro di Isleworth un giorno sarà riconosciuto come il quadro commissionato da Del Giocondo, di questo non ho alcun dubbio’. Da allora il dipinto scomparve, passò di mano e finì nel caveau di una Banca Svizzera. Da cui è uscito dopo 40 anni. Per iniziare un cammino che lo porterà a Pechino, in Svizzera, in Inghilterra, America, Russia…”




Sempre lungo il percorso sono esposte le evidenze scientifiche, artistiche, storiche, le attestazioni di autenticità da parte di autorità in vari settori, e anche le confutazioni sulla paternità del dipinto. Solo al termine ci si trova nel grande salone a tu per tu con l'opera. E si rimane abbacinati. 
Si rimane abbacinati, ma alla domanda decisiva: è davvero opera di Leonardo?, non si può rispondere in modo definitivo. La certezza assoluta non c’è. Le fonti originali, come del resto quelle riguardanti il dipinto del Louvre, sono dannatamente scarse e contraddittorie. D'accordo. Tuttavia, dalle tante accuratissime ricerche compiute  - e comparse su riviste peer reviewed - non è mai emerso un solo elemento che possa smentire l’attribuzione a Leonardo. L'esempio più banale: bastava rintracciare un pigmento non in uso all'inizio del '500. No. Datazione, tecnica, stile, mezzi, sono risultati del tutto compatibili con l’ipotesi di base: che Leonardo abbia realizzato l’opera intorno al 1503.
Si tratta davvero di Lisa del Giocondo? Dell'opera di cui parlava non tanto il Vasari quanto Agostino Vespucci? Anche questo non può essere dato per certo, ma gli storici lo considerano molto probabile. Ecco perché si è parlato di ritorno a casa di Monna Lisa, che nacque nel 1479 in via Maggio in quello che oggi chiamato Palazzo Michelozzi.
Anche Carlo Pedretti, massima autorità mondiale su Leonardo purtroppo mancato all’inizio del 2018, pur senza esprimere certezze assolute, si pronunciò comunque a favore della autenticità del dipinto. Dello stesso parere è oggi Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale Leonardo Da Vinci. Come ogni serio ricercatore, anch'egli conclude che l’ipotesi è concreta e affascinante, e richiede quindi ulteriori studi. Dopo il tour di cui ha parlato Feldman, la Earlier Mona Lisa tornerà in Svizzera. Qui riprenderanno gli studi. Studi che, si spera, chiariranno anche i rapporti con la più celebre Monna Lisa esposta al Louvre. 

Onore al merito della Mona Lisa Foundation, che nacque nel 2008 dopo la morte dell'ultima proprietaria dell'opera, con il preciso intento di condurre tutte le ricerche necessarie per determinare se la Earlier Mona Lisa fosse dipinta da Leonardo, come si legge sul suo stesso sito. In questo modo ha tenuto l'opera alla larga da prevedibili tentativi di speculazioni da parte di gallerie e case d'asta. 
Onore al merito della Regione Toscana, che ha permesso ai fiorentini - e non solo - di ammirare il dipinto per primi in Europa. La mostra rimane aperta fino al 30 luglio, con orario dal lunedì al venerdì dalle 10.30 alle 17.30; giovedì fino alle 19.30. L'ingresso è gratuito (!). Andateci. Non ve ne pentirete. Basta avere un po' di buon senso per comprendere che si tratta di  una occasione unica quanto un'eclissi totale di sole.

Infine, una nota personale. In aprile 2019 ho tenuto presso la Biblioteca Buonarroti di Novoli un incontro divulgativo sul dipinto più famoso del mondo (bella frase, mai venuta prima in mente a nessuno) e sui tanti misteri che nasconde. Lo avevo intitolato Le Gioconde di Leonardo. Il plurale era proprio riferito alla Earlier Mona Lisa.  La visita alla mostra mi ha tra l'altro confortato: nulla di cui ho detto è risultato errato o anche solo superato. Ho poi trovato ulteirori spunti per il nuovo incontro che terrò a Borgo S. Lorenzo nell'ambito di Fabrica 32, e il cui titolo sarà stavolta La Gioconda non esiste! L'appuntamento è per sabato 6 luglio 2019 alle 17.15 a Borgo S. Lorenzo nella chiesa di S. Omobono, di fronte la Pieve.

lunedì 29 aprile 2019

Paddy Campbell. La tragedia e la speranza


Conobbi lo scultore Paddy Campbell a Vicchio nel settembre 2010 in occasione di una sua mostra dal titolo La vita, e che fu allestita nelle stanze e di fronte la Casa di Benvenuto Cellini. Ci parlai ed ebbi da lui notizie che mi lasciarono abbastanza sbigottito. Ecco quanto scrissi sul Galletto.

Blue Lady. Vicchio 2010
...stenterete a credere quanto invece Paddy Campbell mi ha confermato: che questo signore dall’aria felice, classe 1942, dopo aver svolto con successo vari mestieri, non ultimo quello di ristoratore, è approdato alla scultura non più di una decina di anni fa [adesso una ventina], complici alcuni soggiorni in Toscana. Fu allora che, dopo essere stato anche pittore, si rese conto che la scultura era il suo mezzo elettivo d’espressione. Dal 2005 ha un suo studio fiorentino in via Luna. Ed è, appunto, felice e orgoglioso di ospitare le sue opere nella casa di uno dei suoi artisti preferiti in assoluto. “Credo che i miei preferiti siano proprio Cellini e Bernini. Si tratta di due dei massimi artisti del Rinascimento, accanto, è naturale, a Michelangelo. Ho studiato anche Giotto e l’Angelico, che sono ugualmente due giganti, anche se si parla di pittura.”

Mother & Child. Vicchio 2010
Più avanti: 

L’attenzione di Paddy al particolare apparentemente insignificante ha del maniacale, ma è grazie ad essa che lo spettatore assimila il suo concetto di vita – che, non dimentichiamolo, è il titolo della mostra -. E se, come si legge sul catalogo, Paddy Campbell cerca “di vedere l’essenza di chi sono [le sue modelle] – quella parte emotiva, spirituale, che è così vulnerabile, e nello stesso tempo così potente”, vi riesce proprio al momento in cui la cura del dettaglio puramente materiale è massima. Lo si vede in quelle sculture in cui viene congelato l’attimo, o in quelle nelle quali è ripresa una situazione considerata banale, ma che l’abilità tecnica dell’artista trasfigura in immagine ai limiti del mito. C’è da essere orgogliosi del fatto che la Toscana sia stata scelta, ormai, come seconda patria da un autore che ha realizzato il ritratto ufficiale della Presidente dell’Irlanda [sotto]

da www.ul.ie 
Da allora è passata parecchia proverbiale acqua sotto i ponti, e Paddy ha realizzato una quantità di mostre principalmente - ma non solo - tra la sua Irlanda e l'Italia. Tuttavia era rimasto per lui un progetto in sospeso. Paddy aveva ascoltato, soggiornando a Vicchio, molte storie di guerra, ed era rimasto colpito in particolare da quella sulla strage di Padulivo (10 luglio 1944, 14 morti innocenti). Lui che è nato durante la Seconda Guerra Mondiale. Lui che è stato testimone della guerra fratricida combattuta in Irlanda del Nord nella seconda metà dello scorso secolo. 3.500 morti, quasi tutti civili, in tempo ufficialmente di pace. Lui che, scrive la storica e critica d'arte Anita Valentini, esprime sempre la sacralità del vivere.

Life and Death
nella Piazza di Pietrasanta
Ma era stato il racconto di Padulivo a far scoccare in lui la scintilla. A ispirargli una scultura che potesse ricordare e rendere un omaggio universale a tutti coloro che hanno perso la vita a causa della guerra e del terrorismo
Ne nacque un'opera che, intitolata Life and Death, fu presentata per la prima volta alla sua personale "Di Cuore", ovvero "From the Heart", tenutasi nell'estate 2013 in Palazzo Medici Riccardi a Firenze. Oltre 50.000 visitatori poterono ammirarla. E, nell'ammirarla, riflettere. 
Fin dall'inizio Campbell aveva deciso di fare dono di Life and Death al paese di Vicchio. Ancora oggi si legge sul sito della Provincia di Firenze nella pagina relativa alla mostra: "Questa scultura è stata commissionata dal Comune di Vicchio del Mugello come memoriale alle vittime di tutte le guerre, a completamento dell’obelisco esistente in Piazza della Vittoria, dove sarà installata a settembre 2013."

Non è stato possibile, l'obelisco è storicizzato. C'è voluto altro tempo per il superamento di ulteriori ostacoli di vario genere. In questo Paddy ha potuto contare sull'aiuto determinante di Francesco Valentini, Generale di Divisione dei Carabinieri. Uno che aveva scelto anche lui Vicchio come residenza elettiva. Uno che soprattutto aveva fatto parte del Pool Antimafia. Non c'è da sorprendersi se aveva preso a cuore il progetto.

Io con Paddy Campbell
Valentini non ha potuto vedere realizzato il suo desiderio di vedere l'opera di Campbell collocata in Piazza della Vittoria a Vicchio, non a completare bensì accanto al Monumento ai Caduti. Ci ha lasciati proprio quando, nel 2018, Life and Death veniva esposta nella Piazza di Pietrasanta. Paddy non ha dimenticato, e alla base dell'installazione ha voluto collocare una targhetta in suo ricordo. L'opera è stata inaugurata in un giorno non casuale: il 25 aprile 2019. La presentazione è stata curata dalla già citata Anita, figlia di Francesco Valentini. Con questo evento il Sindaco di Vicchio Roberto Izzo, com'egli stesso ha affermato, ha concluso nel migliore dei modi i suoi dieci anni di mandato. 

Campbell si discosta del tutto dallo schema classico del monumento ai caduti. Life & Death, Morte & Vita. Death, crivellato di colpi, non giace a terra. Vola via. È risucchiato verso l’eternità. Come se il vertice dell’impalcatura piramidale fosse posto all’infinito. Campbell, forse con valenza apotropaica, per fondere la figura di Death ha anche fatto uso di autentiche pallottole e bossoli della Seconda Guerra Mondiale. 
Life protende la mano verso quella di Death. Ma sa bene che non potrà raggiungerla. O forse sì? S’intravvede un guizzo di speranza nel suo gesto. Death è la morte, e forse la rinascita. Life è tutti noi, ha spiegato Anita Valentini. E in tutti noi permane un'eco di speranza, per quanto remota. Forse nessuno come Campbell ha saputo esprimere il tragico, indescrivibile stato d’animo di chi rimane sulla terra dopo che chi gli è caro se n'è andato via in modo tanto orribile.

Inaugurazione di Life and Death, 25 aprile 2019







mercoledì 17 aprile 2019

Due chiese, due epoche


La chiesa di S. Ilario a Colombaia è documentata dal 1072, quella di S. Leone Magno fu costruita nel 1972. Una distanza di novecento anni nel tempo e di neanche un chilometro nello spazio, per due chiese situate sulla destra di Via Senese, dalle due parti dello scollinamento.

Raggiungere in bicicletta S. Ilario sarà pure impegnativo - ma non più di tanto -, però mi consente di transitare per la via omonima: una di quelle numerose, sconosciute viuzze che contribuiscono in modo determinante a dare a Firenze la patente di città unica al mondo.Il lungo muretto a secco da cui si affacciano rampicanti e chiome di alberi dalle foglie festosamente primaverili, è punteggiato anche dai sette tabernacoli che vi furono collocati nel 1934, e che contraddistinguono la via matris, ovvero i sette dolori della Beata Vergine, com'è annunciato dalla lapide posta all'inizio della via. L'ultimo è sotto il portico della chiesa.
Ma la chiesa è irrimediabilmente chiusa, e ci si rimane davvero male dopo la salita. Al numero della parrocchia che mi ero annotato risponde una segreteria telefonica. Un peccato, perché speravo di vedere e fotografare l'affresco sulla parete di sinistra e il crocifisso ligneo nell'oratorio. Il primo, leggo sulla guida al quartiere n. 3 compilata nel 2005 da Bettino Gerini, è attribuito ad Ambrogio di Baldese (1342-1429). Di questo artista mi ricordavo perché nel 1417 fu incaricato di affrescare la cappella Gherardini (oggi perduta) nella chiesa di S. Stefano al Ponte. Avrebbe dovuto dipingere anche la tavola centrale, ma poi, e non se ne sa il motivo preciso, si preferì ingaggiare un giovane artista: un Guido di Piero non ancora divenuto frate domenicano. Il futuro Fra Giovanni Angelico.
Quanto al Crocifisso, Gerini nel citarlo scrive uno svarione: "un Crocifisso ligneo cinquecentesco, detto dei Bianchi, lasciato nel 1400 [!] a Firenze da alcuni pellegrini, colpiti dalla peste". Da altre fonti ricostruisco che si tratta di tedeschi di una Compagnia dei Bianchi i quali, giunti in città nel 1399 in occasione del giubileo, furono sorpresi e massacrati dalla peste, sicché il Crocifisso rimase nella chiesa. Questa storia non mi suonava punto nuova, e la rilettura del saggio di Marco Pinelli L'Oratorio del SS. Crocifiso dei Miracoli (2000) mi ha confermato che non mi sbagliavo: non solo si ripete quasi parola per parola riguardo al SS. Crocifisso di Borgo San Lorenzo, ma sembra essersi ripetuta più volte e in più luoghi a Firenze. Scrive Pinelli:

È il caso della Compagnia di Sant'Agostino, detta del Crocifisso dei Bianchi, fondata proprio nel 1399, e con sede nei pressi della chiesa di S. Spirito, di quella del crocifisso dei Bianchi, che si riuniva nella chiesa di S. Pietro del Murrone in via S. Gallo e soprattutto quella del SS. Sacramento di S. Lucia sul Prato, le  cui vicende  appaiono in tutto simili a quelle della Compagnia del Corpus Domini.

E non cita S. Ilario. Ad andare su Google si scopre che ce n'è ancora altri, e non solo a Firenze. Insomma, un crocifisso ligneo, lasciato da dei tedeschi della compagnia dei Bianchi morti di peste nel 1399, non si nega a nessuno. Bene. Chissà se sarò in grado di scrivere un post in merito.

Tornando alla nostra chiesa chiusa, si chiamava anche S. Ilario alla Fonte, perché vicina a una fontana pubblica sulla strada regia, ovvero sull'odierna via Senese. Documentata, abbiamo detto, fin dal 1072, aveva nel suo ampio circuito parrocchiale ben cinque conventi. Di due non resta traccia, dopo la loro distruzione avvenuta nel 1529 per far terra bruciata alle truppe che assediavano Firenze. Uno era quello di S. Maria a Monticelli, e ne ho accennato anche in questo post. L'altro era S. Donato a Scopeto, che per la verità una traccia l'ha lasciata. Furono i suoi frati a commissionare a Leonardo da Vinci una pala, quell'Adorazione dei Magi che l'inaffidabile genio lasciò incompiuta per partirsene alla volta di Milano nel 1482. 
Anche S. Caterina al Monte non c'è più. S. Girolamo delle Campora c'è, ma oggi è una villa, e non si può visitare. L'avevo letto, ma voglio ugualmente arrivarci, per il gusto di pedalare su un'altra delle strad(in)e più belle di Firenze: via delle Campora, entro cui via S. Ilario sbocca. Pazienza per la salita. È una fatica ripagata dallo splendore silenzioso della primavera che sembra sporgersi dai muretti a secco come dagli slarghi che annunciano cancelli verso ville facoltose.


Racconta Emanuele Repetti che a questo monastero Giovanni Boccaccio, nel testamento, fece dono di tutte le reliquie sacre che 'in tanto tempo e con gran lavoro procurò di avere da diverse parti del mondo'. "Il qual documento" commenta Repetti "giova a provare la rettitudine de' principi religiosi di chi avvertiva i troppo facili credenti con la novella di Ra Cipolla."

San Gaggio

Constatata l'impossibilità di fare foto all'ex monastero o quel che ne resta, oltre un ingresso che ne protegge anche la visuale, torno indietro con la bicicletta a mano perché la strada è in gran parte a senso unico, e alla fine risbocco in via Senese. Altra erta, al culmine della quale si erge il quinto monastero del territorio: quello di San Gaggio, che dà il nome alla zona. E che non versa in condizioni eccellenti.


Ora, finalmente, la strada è tutta in discesa, fino alla traversa intitolata alla Beata Angela, che mi conduce all'ampio piazzale antistante la chiesa e il convento di San Leone Magno. Nulla da dire: siamo in un'altra epoca. Il fascino delle stradine tra muretti a secco lascia il posto a una sensazione di vastità, di spazio, di respiro. Evitiamo paragoni. È un altro tipo di bellezza. Nei confronti delle chiese moderne non si devono avere pregiudizi, né in un senso né nell'altro. Ci sono chiese antiche orrende, e chiese moderne bellissime. Questa mi piace, a parte il rosso mattone del marciapiede e della scalinata, troppo forte in confronto a quello della costruzione.


L'interno mi piace ancora di più. La sensazione è di entrare in un anfiteatro. Le panche accoglienti a frammenti di semicerchio sembrano avvolgere senza soffocare. La luce è soffusa, ma i colori delle vetrate distribuite lungo l'abside rendono l'atmosfera festosa, seppure devota. La conformazione a conchiglia dell'edificio si deve all'Ingegner Luigi Lucherini. 


La chiesa è stata costruita nel 1972 in posizione arretrata, scrive Gerini, rispetto a quella preesistente, nata come cappella nel 1880, poi ampliata, consacrata nel 1891 e divenuta parrocchia nel 1937. Ma nel 1964 gli smottamenti del terreno ne compromisero la stabilità e non si poté che demolirla. Ho cercato invano su internet delle fotografie del vecchio fabbricato. Possibile che non ve ne siano? Sì, possibile. Me lo conferma Romano, un signore dal sorriso sereno che mi accoglie calorosamente in sacrestia. Neanche lui è riuscito a trovarne. Però mi mostra due quadretti, e mi autorizza a fotografarli, che raffigurano l'esterno e l'interno della vecchia chiesa. L'autore è anonimo, ma le immagini, mi assicura, sono abbastanza precise. In effetti, su La chiesa fiorentina (1993) si legge: 

A tre navate, di stile romanico, corredata di un grazioso campanile dello stesso carattere, la chiesa fu progettata dall'arch. Salvatore Pirisini e dedicata a S. Leone Magno in omaggio al regnante Pontefice Leone XIII. La località scelta per la costruzione della chiesa, alla confluenza dei confini delle parrocchie di S. Ilario a Colombaia, S. Lucia al Galluzzo e S. Felice a Ema tutte assai distanti, si rivelò indovinata quando la popolazione della zona andò aumentando.




sabato 9 febbraio 2019

1914: morte drammatica di una promessa del ciclismo


Mentre scrivo, i medici stanno vagliando le possibilità purtroppo quasi nulle che il giovane nuotatore Manuel Botuzzo possa riprendere a camminare. Gli hanno sparato due delinquenti, fra grandi risate, nella notte tra il 2 e il 3 febbraio 2019. Lo avevano scambiato per un altro. Ma se Manuel ha perduto la deambulazione, non ha perduto né perderà la grinta che ha sempre avuto, e la solidarietà dei genitori, dei colleghi, degli amici e della sua ragazza Martina gli saranno di grande aiuto. Sentiremo ancora parlare di lui, e in cronaca sportiva, non più in cronaca nera.

Alla ricerca di materiale per un post, stavo sfogliando il raro - credo - e preziosissimo - son certo - Album di Firenze, a cura di Giorgio Batini, che fu pubblicato a puntate su La Nazione nel 1976, e mi sono imbattuto in una storia che ignoravo, e che non ho potuto fare a meno di ricollegare alla tragedia capitata a Manuel. Solo che quanto accadde a una promessa del ciclismo fiorentino degli anni 10 del secolo scorso fu per certi versi ancora più grottesco ed ebbe un esito, se possibile, ancora più tragico. Il protagonista si chiamava Luigi Fiaschi. 
da www.sitodelciclismo.net

Di Luigi Fiaschi le notizie sul web sono abbastanza scarne. Ne ho trovate in due siti sul ciclismo: www.museodelciclismo.it e www.sitodelciclismo.net. Le date di nascita fornite sono diverse. Dal certificato di battesimo che ho rintracciato sul sito dell'Arcidiocesi fiorentina risulta corretta quella del primo: l'11 ottobre 1888. Sempre su www.museodelciclismo.it troviamo questa nota sintetica:  "Tra i primi corridori toscani a mettersi in evidenza su scala nazionale, gareggiò con discreto successo pure su pista. Non ottenne risultati strepitosi ma fu ripetutamente tra i principali protagonisti e contribuì notevolmente allo sviluppo del ciclismo agonistico della sua regione prima di morire accoltellato da un ubriaco in seguito ad una lite.". Fece parte della squadra Atena nel 1910 e della Maino nel 1912. In quest'ultima ebbe tra i compagni di squadra Costante Girardengo. 

Ma ecco cosa scrive Giorgio Batini sull'Album di Firenze.

Domenica scorsa - leggiamo nel 'Nuovo Giornale Illustrato' del 6 settembre 1908 - ebbe luogo la grande corsa ciclistica nazionale di km. 100 (si trattava della Firenze-Viareggio) organizzata dal Club Sportivo Firenze, nella quale si disputavano oltre la Coppa Bastogi del valore di lire mille, altri importantissimi premi... Fiaschi, tra gli applausi, arrivò splendidamente primo..." È questa una delle molte cronache del tempo che parlano di Luigi Fiaschi, nato a Firenze nel 1888, un fortissimo atleta, una vera promessa del ciclismo toscano e nazionale, un re della strada e della pista, che in talune riunioni batté altri celebri campioni dell'epoca (come Ganna, Galetti, Bruschera, Brambilla, Cuniolo), che vinse molte gare e che nell'ottobre del 1913 abbassò alle Cascine il record dell'ora professionisti, già detenuto da Ugo Agostoni, coprendo nell'ora km. 39,993.30 Rivediamo il giovane corridore, con la fascia del Campionato toscano, nella foto [sotto], che è del 1911.


Interrompiamo un attimo la cronaca di Batini per riprendere, sempre da www.museociclismo.it (da cui ho tratto anche la foto d'apertura), alcune notizie sulla Coppa Bastogi. Se ne disputarono cinque edizioni tra il 1908 e il 1912. Le notizie sulle edizioni intermedie non sono molte. Nel 1909 e 1910 vinse Cuniolo, le altre se le aggiudicò Fiaschi. Se per i 100 chilometri della Firenze Viareggio del 1909 impiegò 3h9', la Coppa Bastogi del 1912 fu ben più ...impegnativa. Ecco, riguardo all'ultima edizione, cosa riporta il sito.

E' una corsa di "prima categoria" e quindi aperta anche ai maggiori professionisti, ma, nonostante ciò, sono solo tre i partenti. La partenza viene data da Porta San Frediano e la gara si snoda per le strade toscane con la delusione della gente nel vedere lo sparutissimo gruppetto procedere a passo turistico. Pratesi si ritira a Rapolano, Fiaschi attacca sulla salita di San Donato, fra Incisa e Firenze, e vince quasi in scioltezza. Fiaschi conquista la terza vittoria nella competizione e come da regolamento si aggiudica definitivamente la Coppa Bastogi e la corsa non verrà più disputata.

Si trattava dunque di un trofeo che, come la calcistica Coppa Rimet, andava definitivamente a chi conseguiva tre vittorie. Ma, per aggiudicarselo, Fiaschi percorse 260 chilometri, impiegandovi 10h8', alla media di 25.658 km/h. 

Torniamo al racconto di Batini.

La foto [in basso] è un ricordo del V Giro di Lombardia del 1909, vinto da Cuniolo, e dove Fiaschi fu il secondo degli italiani. La sera del 4 febbraio 1914 la vita e la carriera del celebre e popolare atleta furono stroncate per un fatto delittuoso di cui il Fiaschi fu vittima casuale. Quella sera il giovane corridore, reduce da una gara di Bologna insieme ad un amico podista, cenò nella trattoria del proprio padre Raffaello in via Faenza, in un'ora in cui il locale pur essendo vuoto di clienti, era ancora aperto, perché frequentato a volte, anche in ora tarda, da giornalisti. Ad un tratto entrò nel locale un giovane aretino che apparve in preda all'ira e al vino, e che cercava un rivale con il quale intendeva regolare i conti. Il campione cercò di calmare il giovanotto e di allontanarlo dalla trattoria, ma l'aretino, una volta uscito in strada, lo colpì a tradimento con un pugnale e si dette alla fuga. L'aggressore fu raggiunto dal podista amico del Fiaschi in piazza Madonna, e consegnato alla polizia. Il campione, gravemente ferito, fu ricoverato a S. Maria Nuova, dove morì il 14 febbraio, suscitando dolore e rimpianto nella cittadinanza.


Nella cartolina sotto, la fotografia di Luigi è integrata da alcune strofe anonime, forse ingenuamente enfatiche, ma senza dubbio sincere nella loro commozione. Le copio.

da www.museodelciclismo.it

All'alba della nuova primavera, 
Quando tutto sorride e fa sperare 
Una triste novella in sulla sera
Ci venne - inaspettata - a rattristare
Fiorenza tutta ne provò dolore,
Fiorenza tutta ne sentì l'orrore!

Una mano vigliacca ed esecrata
Gigino Fiaschi osò colpire al cuore...
Era dessa la man degenerata
Assetata di sangue e di rancore
Che frugò dentro l'anima innocente 
D'un giovine galiardo [sic] e promettente!

Dopo dieci giornate di dolore
Gigino è morto nel bel fior degli anni.
Quante speranze generò l'amore!...
Quanti sospiri e quanti disinganni!...
Gigino è morto!... niuno ormai potrà
Ridarlo ancora alla felicità. 

Egli era buono, generoso e forte,
Avea la fibra d'un gran lottatore,
Vide più volte - innanzi a sé - la morte
E non sentì mai trepidare il cuore;
Solamente un vigliacco, un gran codardo
Potea colpire quell'eroe galiardo!

Cento battaglie combatté fidente,
Cento battaglie superò finora,
Ed ora è morto inaspettatamente
Quando la gloria lo baciava ancora...
Chiedendo lui che si facesse forte,
E non il sospiro della fredda morte!

giovedì 31 gennaio 2019

Un gallerista under 30: Fabio Rocca


A Firenze, in quella Via delle Ruote in cui abitò Santi di Tito, al n. 6R troverete una galleria d'arte chiamata Roccart Gallery. Prende il nome da Fabio Rocca, che la gestisce.
Fabio è nato a Montevarchi il 17 febbraio 1992 e vive a Loro Ciuffenna. Nel 2011 si diplomò all'Istituto artistico e in seguito fece il decoratore per un mobilificio del Valdarno. Grazie a uno dei professori dell'Istituto ebbe contatti con una scultrice di livello internazionale, la quale lo incoraggiò a restare nell'ambiente. Fabio continuò, e infatti tuttora dipinge. In seguito, prima partecipò all'allestimento di una mostra, e poi ne allestì una lui stesso nel suo paese natale. Ebbe successo e soprattutto la cosa gli piacque. Capì che era la sua strada, e risolutamente la imboccò. La Roccart aprì i battenti in data 17 dicembre 2016.

"Come posizione l'ho trovata valida e funzionale", mi dice Fabio. "Si trova nel centro storico fiorentino, ma a breve distanza dai confini della zona a traffico limitato, e questo riduce le difficoltà ad esempio nel portare le opere." La grande sala d'ingresso è destinata di solito alle personali che restano esposte in genere per un due settimane, anche se al momento in cui scrivo è dedicata alla collettiva Bianco & nero inaugurata il 19 gennaio 2019. La sala inferiore (nella foto d'apertura) ospita opere di vari autori, alcune delle quali in permanenza. Specialmente in quest'ultima, grazie alla attentissima ristrutturazione, è palpabile la sensazione di trovarsi in un edificio antico. Un pezzo di storia di Firenze. Ma le opere che ospita proiettano nel futuro.

Inaugurazione della collettiva Chrismas in Art, 15 dicembre 2018

La, diciamo così, filosofia gestionale di Fabio ha avuto un successo crescente e rapido. Io lo conobbi il 15 dicembre 2018 per l'inaugurazione della collettiva Christmas in art cui ero stato invitato dal mio amico Maurizio Biagi, che vi partecipava. Le pareti brulicavano di opere eterogenee, molte sorprendenti, molte splendide, nessuna banale. Fabio prese la parola e presentò i partecipanti uno ad uno in perfetta pari dignità. Mi ha confessato poi: "Aperta la galleria, non tardai a rendermi conto di quanta gente partecipa alle inaugurazioni solo per godersi il rinfresco. Andando avanti, però, questi elementi sono andati diminuendo, più o meno come sono andati diminuendo gli spazi vuoti alle pareti della galleria." 
"Il mio intento", prosegue, "è quello di fornire agli artisti la possibilità di esporre nel centro di Firenze a costi accessibili, avendo uno spazio cui possono soprintendere secondo le loro esigenze e secondo il loro temperamento. Ho ospitato personali di autori provenienti un po' dai quattro angoli del globo: Argentina, Canada, U.S.A, Brasile, e questo ha favorito gli incontri, gli scambi d'esperienze, le influenze reciproche. La galleria è stata, ed è, un eccellente trampolino di lancio. Marco Monatti, ad esempio,.è partito per la Svezia! Maurizio Biagi sarà ad Arte Genova. Io, tra l'altro, non mi pongo il minimo problema nell'aiutare chi ha esposto da me ad allestire altrove una sua personale."
Fabio è in ottimi rapporti e spesso collabora con il quasi coetaneo Niccolò Mannini, titolare della galleria La Fonderia. "Non potremmo in nessun modo definirci concorrenti: siamo geograficamente distanti, e abbiamo due modi di gestire diversi, sicché non c'è proprio il rischio che ci pestiamo i piedi. E al contrario, ultimamente abbiamo organizzato insieme una collettiva dedicata all'erotismo, intitolata Tra cielo e terra, nell'ex chiesa di Santa Monaca in Oltrarno". La mostra è rimasta aperta dall'8 al 13 gennaio 2019. Ecco cosa si leggeva tra l'altro nella nota di presentazione: 

L’esposizione, organizzata da Galleria d'arte La Fonderia e Roccart Gallery, vuole essere una celebrazione dell’eros, della passione, dell’intimità, in un periodo nel quale le nudità e la volgarità dilagano ovunque, inducendo a credere che si tratti di erotismo. Le opere in mostra vogliono dimostrare che l’esplicitazione della nudità, tipica dei nostri tempi non è necessariamente accompagnata da quel senso di desiderio che al contrario può essere nascosto in uno sguardo, nella gestualità, nelle movenze della figura che abbiamo davanti.

La collettiva Tra cielo e Terra in Santa Monaca Oltrarno.
(dalla pagina Facebook di Roccart Gallery)
La presenza a Firenze per lo meno di un altro gallerista under 30 è senza dubbio una bella notizia. Ma, mi assicura Fabio, gradualmente si sta assistendo a un ritorno dell'interesse dei giovani nei confronti dell'arte. Ciò significa anche mutarne completamente l'approccio. Fabio non solo mette a disposizione degli espositori la stampa di cataloghi, brochure e biglietti da visita, ma lavora anche e soprattutto su internet e con i social. Attualmente Instagram molto più di Facebook. "Non è concepibile oggi lavorare in questo settore prescindendo dal web. Senza, canali fondamentali di promozione e di conoscenza della propria attività sarebbero inaccessibili. È fondamentale imparare a orientarsi nella rete e tra i social, per saperli dominare e sfruttarne le potenzialità positive -che sono tante - nel migliore dei modi. Un compito non sempre facile, ma fa la differenza." 

Fabio viaggia molto. Anno scorso si recò con la sua compagna Silvia a Miami, Florida. Per visitare tutte le gallerie del Wynwood Art District gli ci vollero tre giorni. "Ma anche nelle capitali europee la situazione non è molto diversa. C'è un fermento diffuso, un dilagare di idee e proposte. Firenze purtroppo è come non se ne rendesse conto, è dannatamente indietro." E pare davvero che non voglia guarire dalla malattia che l'affligge ormai da secoli, questo immobilismo causato da una sorta di soggezione e/o inibizione verso il suo passato rinascimentale. Anche oggi, e lo denunciavano oltre un secolo fa i futuristi, Firenze, in nome di un lontano periodo di splendore, sembra non permetta che neanche si tenti di crearne uno nuovo. "Domina l'apparenza. Vai a giro con un bel vestito per esibirti, non puoi portare in giro un quadro! Quando facevo il decoratore di mobili, destinati ad abitazioni di un certo livello, ebbi occasione di entrare in parecchie case di benestanti. Tutte belle quanto vuoi, ma tutte uguali, il che era abbastanza deprimente. Dobbiamo tornare a renderci conto della bellezza di cui siamo circondati, di cui dobbiamo continuare - o meglio riprendere - a circondarci, e che dobbiamo continuare a produrre"

Fabio con tre artiste:
Maria Letizia Scarpelli, Susi La Rosa e Sylvia Teri
Al termine di una chiacchierata in cui mi ha parlato anche di tante altre cose, Fabio mi informa sulle prossime esposizioni: una personale di un artista del Nord Italia e, a marzo, She Is Art. Un omaggio alla donna e alle donne, che si comporrà di soli ritratti femminili. 






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mercoledì 16 gennaio 2019

Il poeta che non conosceva le virgole


Giovanni Bellini, nato nei pressi di Poggio a Caiano (FI), rimase ucciso da una granata il 7 luglio 1915, a Plava, durante la battaglia dell'Isonzo. Aveva venticinque anni.
Il suo amico Fernando Agnoletti raccolse con commossa e devota cura tutti i suoi scritti in un volume che fu pubblicato da Vallecchi nel 1921. Ristampato in anastatica nel 2003, il volume si intitola Arciviaggio e si compone di 143 pagine, compresi la nota introduttiva dello stesso Agnoletti e l'indice. Leggere questo libro fa rabbia.

Nato il 22 novembre 1889 nella frazione di Trefiano, Giovanni Bellini era figlio di un acetaio che lavorava in una bottega di Firenze, e di una trecciaia. In famiglia non si moriva di fame, ma i soldi per studiare non c'erano proprio. Giovanni continuò il mestiere del babbo e intanto imparò da solo a leggere e a scrivere. Movendosi tra campagna e città, iniziò a conoscere nonché a farsi conoscere nel mondo intellettuale fiorentino. Ardengo Soffici lo conobbe nelle sale dell'esposizione futurista del dicembre 1913. Così lo descrive:

Il suo aspetto era di campagnuolo, magari di contadino: soltanto osservandolo meglio vidi che sula faccia forte, maschiamente modellata dalle larghe mascelle, faccia d'antico guerriero, errava un sorriso timido e fine, mentre di sotto alla tesa del cappello due occhi scuri incastonati in profonde orbite sfavillavano di quella pura luce spirituale che solo emana dalle profonde anime dei veri artisti.

Soffici rimase senza fiato quando, in un suo paesaggio futurista, quindi scomposto e disarticolato, questo giovane riconobbe un casolare nei pressi di Carmignano. E non si sbagliava. Erano quasi vicini di casa, ma non si erano ancora incontrati.

Necrologio di Giovanni Bellini. L'Illustrazione Italana, 10 ottobre 1915

Giovanni Bellini incontrò Agnoletti con una specie di gaffe:

Ci si conobbe a una dimostrazione, di notte. Si camminava in molti in catena per rompere le cariche della polizia. Notai che il mio vicino di destra mi attanagliava forte. Dopo l'inno di Oberdan domandò: "Perché non si canta quello dell'Agnoletti?" "Il mio? ancora non lo sanno." "Il suo? Scusi." E mi lasciò eclissandosi.

Primo Conti, nelle sue memorie, ricordava alcuni versi dell'inno di Agnoletti:

La baionetta nelle schiene ai cani
la pianteremo - senza pietà

Gioia bella - vo lontano, 
dammi la mano - dimmi l'addio.
Se ti nasce - un figlio mio 
TRENTO E TRIESTE - menalo a baciare

Giovanni Bellini fu dunque un interventista, e dei più accesi. Apriamo una breve parentesi per ricordare che interventista non può essere inteso come sinonimo di guerrafondaio, almeno come lo intendiamo oggi. La percezione della guerra che abbiamo noi, dopo i due spaventosi conflitti mondiali, non si può equiparare a quella che si aveva prima. All'epoca il termine guerra non poteva evocare gli orrori che evoca - giustamente - ai giorni nostri semplicemente perché ancora non c'erano stati, e non ci si deve stupire se all'inizio del '900 il concetto di pacifismo neanche esisteva.

Bellini, scrive Agnoletti, era per l'Italia. Con Luigi di Savoia dittatore. In Arciviaggio trovano spazio due lettere, una a quest'ultimo e una agli ufficiali, ed entrambe erano state pubblicate su Lacerba. Lettere dense di retorica meno ingenua che appassionata. Bellini le aveva consegnate alla redazione senza la punteggiatura, cui provvidero Agnoletti e Papini. Perché, scrive il primo, "ancora non padroneggiava la sintassi, e nemmen bene l'ortografia, ma pure conosceva e valutava l'arte e la faceva". "Bellini", continua Agnoletti, "adoperava segni di interpunzione quando annotava pensieri o strofe per la prima volta, ma li adoperava male. Erano per lui una biffatura provvisoria, piuttosto vaga; copiando, ricopiando e modificando la sostituiva man mano con spazii che segnassero le pause logiche e quelle del ritmo. Avrà imparato dai futuristi?"

Ardengo Soffici, Sintesi di un paesaggio primaverile, 1913

Domanda senza risposta. Di sicuro sono le liriche, con spaziature al posto dei punti e delle virgole, a far intuire la statura, seppure ancora in embrione, di Giovanni.
Ho scritto che leggere l'Arciviaggio fa rabbia. Fa rabbia perché davanti ai suoi versi e alla sua, diciamo così, prosa poetica, si comprende che Bellini stava cercando di individuare il suo percorso affinando e perfezionando le sue conoscenze non solo grammaticali, e si può avere non più di un'idea molto vaga dei vertici cui sarebbe giunto se una granata non lo avesse ucciso.

Di tutte le morti precoci, la più catastrofica della storia è stata forse quella di Masaccio, a 26 anni. 26 anni non li aveva ancora compiuti Clifford Brown, quando morì nel 1956 in un incidente stradale che gli impedì di divenire probabilmente il più grande musicista jazz mai esistito. Jean Vigo morì a 29 anni dopo aver girato due soli film. Tutti e tre (ma altri esempi si potrebbero fare, e in tutti i campi dello scibile), quanti e quali contributi  avrebbero potuto ancora dare alle rispettive arti? Ma tutti e tre avevano comunque fatto in tempo a dipanare il loro talento e a lasciare la loro traccia nella storia dell'umanità. Bellini, no. Guardate l'apparente ingenuità di Insalatina di campo:

(...) E tutti quei fiori     tazze adoprate dalla terra
a bever sole    ad esalar sospiri di profumi
Tutti i ricordi si guardano innamorati 
su argini paralleli
viso a viso
quando sui rii fioriti     toppe di paradiso
passa la voce
Insalatinaaa     di campoooo...

Leggete un paragrafo di Serenata:

Tu cantasti     La tua anima di femmina bramosa di carezze si profuse in fila di musica e luce     Segmenti di rette che andavano da te alle stelle destarono sconosciuti splendori geometrici fino a divine alpi piramidali che il cielo appuntò sulla terra

O Un sepolcro:

Il cielo impaurito di me s'incava sopra il mio capo     diviene paonazzo e marmoreo     e non è più che il coperchio del mio sepolcro posato sulle rocche dei monti

Agnoletti raccolse meticolosamente tutto ciò che riuscì a trovare di Giovanni,  anche frammenti, in termini letterali. Una lettera non finita di cui s'ignora il destinatario. Un taccuino, dal titolo Memorie della Campagna d'Italia nella Guerra della Salute, che in parte era comparso su La Voce dopo la sua morte. E note volanti. Ne copio una:

Brani di luce si sdraiano 
sulle ferrane tenere
trine di luce compaiono
di tra gli ulivi cenere.
 
Sono parole, frasi, versi che affascinano. Ma non sanno di capolavoro. Sembrano annunciarne. Suggeriscono l'inizio di un cammino, brutalmente interrotto. Prima dell'arruolamento Giovanni Bellini, racconta Agnoletti,

chiudeva lo stanzone degli aceti, accendeva il sigaro e si metteva accanto alle sorelle chine e attente sul ricamo. Raccontava: "un giorno o l'altro bisogna che vada a fare un gran viaggio". E a me spiegava: "Dovrà essere un gran bel viaggio; un arciviaggio"

Questo viaggio non lo poté compiere. Il suo amico volle come omaggiare il suo progetto dando il titolo alla raccolta.  
Notte eroica, brano di prosa poetica che - parere personale - mi ha richiamato certe suggestioni visionarie di Dino Campana, termina con una frase che dà anche il titolo a un bel saggio di Niccolò Lucarelli

Quella che non calpestò nessuno sarà la strada che mi ricondurrà

Una strada che non calpestò nessuno, e che nessuno più calpesterà.












domenica 6 gennaio 2019

Il Principe dei restauratori


Se Gaetano Bianchi fosse vissuto nel XX secolo, a lui sarebbe spettato il coordinamento delle attività per la difesa delle opere d'arte dai saccheggi e dai danneggiamenti durante il secondo conflitto mondiale. Compito che probabilmente avrebbe svolto nel migliore dei modi possibili. In seguito, forse in perfetta sintonia con Emanutele Casamassima che si occupò dei libri della Nazionale, avrebbe gestito gli interventi sul patrimonio artistico massacrato dall'alluvione di Firenze del 1966. Se vivesse ai giorni nostri, dirigerebbe l'Opificio delle Pietre Dure e sarebbe contemporaneamente a capo delll'Istituto per l'Arte e il Restauro di Palazzo Spinelli. È ovvio però che lavorerebbe in modo ben diverso rispetto a come operò realmente in vita. Non mi riferisco tanto ai logici progressi tecnici, quanto ai concetti di base, ideologici si potrebbe dire, del restauro. Perché Gaetano Bianchi visse nell'Ottocento. E l'idea di restauro che allora dominava ci fa, oggi, inorridire. Impedendoci così di comprendere appieno il valore della sua opera, coerente con la mentalità dell'epoca, sbagliata non per colpa sua. E impedendoci di riconoscergli meriti indubbi.

Gaetano Bianchi nacque nel 1819 a Firenze. Il padre lo mise a lavorare alla cartoleria Pistoj in via Condotta. Lo incaricarono di cancellare, con appositi acidi, gli scritti e le miniature, non di rado bellissime, da antiche pergamene, che, usando le parole di Augusto Alfani, così potevano essere riutilizzate nel far culatte a registri ed a filze. In seguito il rimorso per i capolavori che fu costretto a distruggere lo torturò per tutto il resto della sua esistenza. Questa mansione lo disgustò al punto che, per reazione, volle iscriversi all'Accademia di Belle Arti. Nonostante i tentativi del padre, a suon di legnate, di farlo tornare alla cartoleria, Gaetano all'Accademia ci rimase e si fece onore. Poi, ecco quanto racconta Alfani:

Uscito di là con la medaglia d'oro, guadagnata con un acquerello d'invenzione al concorso triennale, si consacrava tosto principalmente all'arte difficile del restaurare gli antichi affreschi, nel che si parve davvero tutta la sua nobiltà. I numerosi lavori condotti nella sua lunga carriera di artista segnano altrettante orme nel cammino della perfezione; come, a tacer di altri molti, il restauro delle cappelle Peruzzi e Bardi dipinte da Giotto, e la restituzione all'antica maniera dell'arco maggiore con la crociera che volta alla Sagrestia nella Chiesa di Santa Croce; il riordinamento dell'antico Convento di San Marco; i restauri alla Loggetta del Bigallo; i ripristinati affreschi di Giovanni Mannozzi, o da San Giovanni, nella Chiesa di Monsummano; il restauro all'Archivio di Stato in Pisa; le decorazioni di stile antico nel Castello di Vincigliata; le opere egregie del Palazzo Pubblico di Udine; le storie insigni della Casa Malaspina nel Castello di Fosdinovo; i lavori nella Villa reale della Petraia, in quella di Stibbert a Montughie, e nel Palazzo del marchese di Montagliari in Via Cavour; il restauro del vestibolo ed atrio del Palazzo Pretorio di Scarperia; le decorazioni a buon fresco nella classica cappella e i degni lavori nella Villa delle Corti...

L'elenco, che prosegue ben oltre, fu formulato durante il rapporto alla Società Colombaria di Firenze per l'anno 1891-2. Bianchi era mancato da poco.
Il restauro delle Cappelle Bardi e Peruzzi, datato 1853, è forse il suo lavoro più noto. Alfani lo lodò perché era ancora considerato valido il procedimento che Silvia Meloni Trkulja così descrive nel Dizionario Biografico degli Italiani (1968):

La Morte di San Francesco restaurata e integrata da Bianchi
Come era uso allora, il restauro fu pittorico e totalmente integrativo delle parti mancanti, anche per grandi superfici (si veda il S. Luigi, interamente del Bianchi), e l'artista vi riprese la tecnica antica perfino nell'uso della sinopia, tracciata per la testa del S. Francesco portato in cielo. Il divario esistente tra la parte giottesca, per di più in cattive condizioni, e la propria indusse il pittore a ripassare con tempera bruna anche le parti antiche, alterandone vari elementi, come la forma e la direzione delle ombre portate.

La Morte di San Francesco, oggi
Ripeto, oggi non si può fare a meno di sobbalzare, leggendo di questa autentica violenza perpetrata nei confronti di capolavori assoluti dell'arte universale. Un'ulteriore conseguenza del restauro è implicitamente rivelata dall'erudito John Ruskin nelle sue Mattinate fiorentine, lettere pubblicate tra il 1875 e il 1877 in cui disquisiva sulla storia e sull'arte fiorentina. Partendo proprio da Santa Croce, nella prima Mattinata scrive:

Ora, se amate davvero  l'arte antica, non potete ignorare la forza del Duecento e neppure che il carattere di quel secolo trovò la sua espressione più alta ed emblematica nel migliore dei suoi re, san Luigi. (...) Quindi se mi è concesso di indicare una specifica opera di Giotto da cui iniziare il nostro esame direi di partire dall'affresco di una figura ad altezza naturale ritratta sullo sfondo architettonico del campanile, un affresco situato in un luogo importante e che, possibilmente, abbia per soggetto il santo da lui più amato, san Luigi. (...)   È questo san Luigi, sullo sfondo architettonico del campanile, opera di Giotto oppure di un oscuro pittore fiorentino che ha dipinto sopra un Giotto? (...) Ridipinto o no che sia, è senza dubbio bellissimo. 

Insomma il san Luigi, che come abbiamo visto era in realtà opera ex novo di Bianchi, cattura tutta l'attenzione dello studioso, a scapito degli affreschi sulle pareti cui poi, in pratica, Ruskin neanche accenna. E stiamo parlando di una persona di cultura non comune.
Ma, e ripeto anche questo, erano altri tempi.  

Della Cappella come appariva restaurata da Gaetano Bianchi ho rintracciato solo un'immagine della Morte di S. Francesco, in un sussidiario degli anni Sessanta. Sull'edizione BUR del 2016 delle Mattinate fiorentine è riprodotta una incisione raffigurante il San Luigi. Nel 1959, ad opera di Leonetto Tintori e sotto la guida di Ugo Procacci, fu ultimato un restauro in cui le parti integrate da Bianchi furono asportate, e sono conservate altrove. Il San Luigi fu rimosso interamente. Quello che ammiriamo oggi è il capolavoro giottesco nel suo aspetto originale. O meglio, quanto dell'originale rimane. Sono adesso visibili le ferite infertegli all'inizio del '700, quando la cappella fu imbiancata e vi furono impiantati monumenti funebri e lapidi. Le cui impronte hanno distrutto irrimediabilmente le parti dipinte. Uno scempio ben maggiore di quello perpetrato da Bianchi. Ma, anche in questo caso, erano altri tempi, e la mentalità del secolo dei lumi non aveva il massimo della considerazione per i primitivi, in pratica tutti gli artisti vissuti prima di Raffaello. La Cappella de' Bardi non ne fu certo l'unica vittima. Solo nel terzo decennio dell'Ottocento, spiega Giorgio Bonsanti, "nacquero le premesse perché si rivalutasse l'arte dei primitivi. Il gruppo dei Nazareni fiorentini, cui appartenevano pittori stranieri come Franz Adolf von Sturler, e gli accademici fiorentini Luigi Mussini e Antonio Marini, propugnava i valori di quella corrente del Romanticismo che sfociava nel Purismo (...). Le parole d'ordine erano 'bellezza - religione - verità', e quei valori venivano riconosciuti nelle pitture medievali". E Laura Corchia scrive: "Intorno al 1840, Marini venne chiamato ad effettuare alcuni saggi sugli intonaci della Cappella della Maddalena [al Bargello]. Nel corso di questo intervento, egli recuperò quel ciclo di pitture murali che Vasari ricordava come una delle opere tarde di Giotto. È opera del Marini la riscoperta del ritratto di Dante." Marini restaurò parte della cappella Peruzzi, dopo che a partire dal 1841 si era iniziato a liberarla dall'imbiancatura. Il lavoro di Gaetano Bianchi sulla cappella Bardi si inseriva in questo solco.

L'affresco nella chiesa di San Donato
Oltre a quelli elencati da Alfani, di Bianchi si possono ricordare gli interventi nel 1864 sulle volte di Orsanmichele, l'anno dopo e fino al 1869 nel convento di S. Marco; le ripuliture e i restauri in Palazzo Vecchio; le sue numerose consulenze storiche e, fuori dalla Toscana, citati da Silvia Meloni Trkulja, i restauri al palazzo municipale di Udine al palazzo ducale di Mantova, i contatti con Alfredo d'Andrade, costruttore del borgo medioevale al Valentino. Aggiungerei le decorazioni di Villa Demidoff a San Donato, e gli affreschi, in questo caso realizzati proprio da pittore, nella vicina chiesa omonima, in stile trecentesco.

L'intervento sugli stemmi sulla volta dell'atrio del Palazzo dei Vicari di Scarperia (foto d'apertura) fu uno dei suoi ultimi lavori. Scrive Mirella Branca: 

Il restauro era stato preceduto da accurati studi storici da parte del restauratore, già dall'estate del 1888, un anno prima dell'effettivo avvio, in un rapporto di stretta collaborazione con il suo committente [il principe Tommaso di Neri Corsini], che provvedeva a integrare i dati sugli stemmi da loro osservati nel corso delle visite compiute in vari loghi fiorentini, sorvegliando poi da vicino i lavori. 
Questo restauro, criticato all'epoca perché troppo evidente era la mano dell'artista, ha tuttavia consentito il mantenimento delle pitture, ripristinate nel loro insieme in base ai caratteri originari.

Le critiche, tuttavia, rimasero fuori dalla porta in occasione dell'inaugurazione dell'atrio, avventa l'8 settembre 1890, e durante la quale lo storico Giuseppe Baccini tenne un discorso, piuttosto logorroico e retorico come d'altronde imponeva l'epoca, in cui celebrò le glorie del castello di Montaccianico e la fondazione da parte dei fiorentini delle due Terre Nove di Firenzuola e di Scarperia, lodò sperticatamente - ma non del tutto a torto - il principe Corsini, finché:

Ed ecco perché (ce lo consenta l'illustre patrizio) noi tutti qui presenti, stretti in un solo pensiero, sentiremo il dovere, in questo fausto giorno, di manifestare a Lui la nostra immensa ed amorevole gratitudine non solo per la cospicua somma che egli spontaneamente elargì per lo stupendo restauro, ma anche per aver voluto associare alla nobile impresa, il Principe dei viventi restauratori, il Cav. Prof. Gaetano Bianchi, nome carissimo all'arte, agli amici, ai colleghi, a coloro insomma che nutrono culto sincero per le opere dei più celebrati maestri dei secoli passati. 
Il Cav. Bianchi, col raro suo ingegno, colla bella sua intelligenza che l'ha reso padrone dei segreti dell'arte antica, ridona col magico suo pennello la vita, la forza e la vivace espressione del colorito a quelle pitture che l'opera distruggitrice del tempo e la trascuratezza degli uomini avevano quasi cancellato. (...) Ed io, lieto che mi si porga oggi l'occasione favorevole, plaudo all'uomo venerando, all'artista ispirato che compì sapientemente i restauri di quest'atrio che gli annali mugellani registreranno con lode a perpetuo ricordo dei posteri.