domenica 6 gennaio 2019

Il Principe dei restauratori


Se Gaetano Bianchi fosse vissuto nel XX secolo, a lui sarebbe spettato il coordinamento delle attività per la difesa delle opere d'arte dai saccheggi e dai danneggiamenti durante il secondo conflitto mondiale. Compito che probabilmente avrebbe svolto nel migliore dei modi possibili. In seguito, forse in perfetta sintonia con Emanutele Casamassima che si occupò dei libri della Nazionale, avrebbe gestito gli interventi sul patrimonio artistico massacrato dall'alluvione di Firenze del 1966. Se vivesse ai giorni nostri, dirigerebbe l'Opificio delle Pietre Dure e sarebbe contemporaneamente a capo delll'Istituto per l'Arte e il Restauro di Palazzo Spinelli. È ovvio però che lavorerebbe in modo ben diverso rispetto a come operò realmente in vita. Non mi riferisco tanto ai logici progressi tecnici, quanto ai concetti di base, ideologici si potrebbe dire, del restauro. Perché Gaetano Bianchi visse nell'Ottocento. E l'idea di restauro che allora dominava ci fa, oggi, inorridire. Impedendoci così di comprendere appieno il valore della sua opera, coerente con la mentalità dell'epoca, sbagliata non per colpa sua. E impedendoci di riconoscergli meriti indubbi.

Gaetano Bianchi nacque nel 1819 a Firenze. Il padre lo mise a lavorare alla cartoleria Pistoj in via Condotta. Lo incaricarono di cancellare, con appositi acidi, gli scritti e le miniature, non di rado bellissime, da antiche pergamene, che, usando le parole di Augusto Alfani, così potevano essere riutilizzate nel far culatte a registri ed a filze. In seguito il rimorso per i capolavori che fu costretto a distruggere lo torturò per tutto il resto della sua esistenza. Questa mansione lo disgustò al punto che, per reazione, volle iscriversi all'Accademia di Belle Arti. Nonostante i tentativi del padre, a suon di legnate, di farlo tornare alla cartoleria, Gaetano all'Accademia ci rimase e si fece onore. Poi, ecco quanto racconta Alfani:

Uscito di là con la medaglia d'oro, guadagnata con un acquerello d'invenzione al concorso triennale, si consacrava tosto principalmente all'arte difficile del restaurare gli antichi affreschi, nel che si parve davvero tutta la sua nobiltà. I numerosi lavori condotti nella sua lunga carriera di artista segnano altrettante orme nel cammino della perfezione; come, a tacer di altri molti, il restauro delle cappelle Peruzzi e Bardi dipinte da Giotto, e la restituzione all'antica maniera dell'arco maggiore con la crociera che volta alla Sagrestia nella Chiesa di Santa Croce; il riordinamento dell'antico Convento di San Marco; i restauri alla Loggetta del Bigallo; i ripristinati affreschi di Giovanni Mannozzi, o da San Giovanni, nella Chiesa di Monsummano; il restauro all'Archivio di Stato in Pisa; le decorazioni di stile antico nel Castello di Vincigliata; le opere egregie del Palazzo Pubblico di Udine; le storie insigni della Casa Malaspina nel Castello di Fosdinovo; i lavori nella Villa reale della Petraia, in quella di Stibbert a Montughie, e nel Palazzo del marchese di Montagliari in Via Cavour; il restauro del vestibolo ed atrio del Palazzo Pretorio di Scarperia; le decorazioni a buon fresco nella classica cappella e i degni lavori nella Villa delle Corti...

L'elenco, che prosegue ben oltre, fu formulato durante il rapporto alla Società Colombaria di Firenze per l'anno 1891-2. Bianchi era mancato da poco.
Il restauro delle Cappelle Bardi e Peruzzi, datato 1853, è forse il suo lavoro più noto. Alfani lo lodò perché era ancora considerato valido il procedimento che Silvia Meloni Trkulja così descrive nel Dizionario Biografico degli Italiani (1968):

La Morte di San Francesco restaurata e integrata da Bianchi
Come era uso allora, il restauro fu pittorico e totalmente integrativo delle parti mancanti, anche per grandi superfici (si veda il S. Luigi, interamente del Bianchi), e l'artista vi riprese la tecnica antica perfino nell'uso della sinopia, tracciata per la testa del S. Francesco portato in cielo. Il divario esistente tra la parte giottesca, per di più in cattive condizioni, e la propria indusse il pittore a ripassare con tempera bruna anche le parti antiche, alterandone vari elementi, come la forma e la direzione delle ombre portate.

La Morte di San Francesco, oggi
Ripeto, oggi non si può fare a meno di sobbalzare, leggendo di questa autentica violenza perpetrata nei confronti di capolavori assoluti dell'arte universale. Un'ulteriore conseguenza del restauro è implicitamente rivelata dall'erudito John Ruskin nelle sue Mattinate fiorentine, lettere pubblicate tra il 1875 e il 1877 in cui disquisiva sulla storia e sull'arte fiorentina. Partendo proprio da Santa Croce, nella prima Mattinata scrive:

Ora, se amate davvero  l'arte antica, non potete ignorare la forza del Duecento e neppure che il carattere di quel secolo trovò la sua espressione più alta ed emblematica nel migliore dei suoi re, san Luigi. (...) Quindi se mi è concesso di indicare una specifica opera di Giotto da cui iniziare il nostro esame direi di partire dall'affresco di una figura ad altezza naturale ritratta sullo sfondo architettonico del campanile, un affresco situato in un luogo importante e che, possibilmente, abbia per soggetto il santo da lui più amato, san Luigi. (...)   È questo san Luigi, sullo sfondo architettonico del campanile, opera di Giotto oppure di un oscuro pittore fiorentino che ha dipinto sopra un Giotto? (...) Ridipinto o no che sia, è senza dubbio bellissimo. 

Insomma il san Luigi, che come abbiamo visto era in realtà opera ex novo di Bianchi, cattura tutta l'attenzione dello studioso, a scapito degli affreschi sulle pareti cui poi, in pratica, Ruskin neanche accenna. E stiamo parlando di una persona di cultura non comune.
Ma, e ripeto anche questo, erano altri tempi.  

Della Cappella come appariva restaurata da Gaetano Bianchi ho rintracciato solo un'immagine della Morte di S. Francesco, in un sussidiario degli anni Sessanta. Sull'edizione BUR del 2016 delle Mattinate fiorentine è riprodotta una incisione raffigurante il San Luigi. Nel 1959, ad opera di Leonetto Tintori e sotto la guida di Ugo Procacci, fu ultimato un restauro in cui le parti integrate da Bianchi furono asportate, e sono conservate altrove. Il San Luigi fu rimosso interamente. Quello che ammiriamo oggi è il capolavoro giottesco nel suo aspetto originale. O meglio, quanto dell'originale rimane. Sono adesso visibili le ferite infertegli all'inizio del '700, quando la cappella fu imbiancata e vi furono impiantati monumenti funebri e lapidi. Le cui impronte hanno distrutto irrimediabilmente le parti dipinte. Uno scempio ben maggiore di quello perpetrato da Bianchi. Ma, anche in questo caso, erano altri tempi, e la mentalità del secolo dei lumi non aveva il massimo della considerazione per i primitivi, in pratica tutti gli artisti vissuti prima di Raffaello. La Cappella de' Bardi non ne fu certo l'unica vittima. Solo nel terzo decennio dell'Ottocento, spiega Giorgio Bonsanti, "nacquero le premesse perché si rivalutasse l'arte dei primitivi. Il gruppo dei Nazareni fiorentini, cui appartenevano pittori stranieri come Franz Adolf von Sturler, e gli accademici fiorentini Luigi Mussini e Antonio Marini, propugnava i valori di quella corrente del Romanticismo che sfociava nel Purismo (...). Le parole d'ordine erano 'bellezza - religione - verità', e quei valori venivano riconosciuti nelle pitture medievali". E Laura Corchia scrive: "Intorno al 1840, Marini venne chiamato ad effettuare alcuni saggi sugli intonaci della Cappella della Maddalena [al Bargello]. Nel corso di questo intervento, egli recuperò quel ciclo di pitture murali che Vasari ricordava come una delle opere tarde di Giotto. È opera del Marini la riscoperta del ritratto di Dante." Marini restaurò parte della cappella Peruzzi, dopo che a partire dal 1841 si era iniziato a liberarla dall'imbiancatura. Il lavoro di Gaetano Bianchi sulla cappella Bardi si inseriva in questo solco.

L'affresco nella chiesa di San Donato
Oltre a quelli elencati da Alfani, di Bianchi si possono ricordare gli interventi nel 1864 sulle volte di Orsanmichele, l'anno dopo e fino al 1869 nel convento di S. Marco; le ripuliture e i restauri in Palazzo Vecchio; le sue numerose consulenze storiche e, fuori dalla Toscana, citati da Silvia Meloni Trkulja, i restauri al palazzo municipale di Udine al palazzo ducale di Mantova, i contatti con Alfredo d'Andrade, costruttore del borgo medioevale al Valentino. Aggiungerei le decorazioni di Villa Demidoff a San Donato, e gli affreschi, in questo caso realizzati proprio da pittore, nella vicina chiesa omonima, in stile trecentesco.

L'intervento sugli stemmi sulla volta dell'atrio del Palazzo dei Vicari di Scarperia (foto d'apertura) fu uno dei suoi ultimi lavori. Scrive Mirella Branca: 

Il restauro era stato preceduto da accurati studi storici da parte del restauratore, già dall'estate del 1888, un anno prima dell'effettivo avvio, in un rapporto di stretta collaborazione con il suo committente [il principe Tommaso di Neri Corsini], che provvedeva a integrare i dati sugli stemmi da loro osservati nel corso delle visite compiute in vari loghi fiorentini, sorvegliando poi da vicino i lavori. 
Questo restauro, criticato all'epoca perché troppo evidente era la mano dell'artista, ha tuttavia consentito il mantenimento delle pitture, ripristinate nel loro insieme in base ai caratteri originari.

Le critiche, tuttavia, rimasero fuori dalla porta in occasione dell'inaugurazione dell'atrio, avventa l'8 settembre 1890, e durante la quale lo storico Giuseppe Baccini tenne un discorso, piuttosto logorroico e retorico come d'altronde imponeva l'epoca, in cui celebrò le glorie del castello di Montaccianico e la fondazione da parte dei fiorentini delle due Terre Nove di Firenzuola e di Scarperia, lodò sperticatamente - ma non del tutto a torto - il principe Corsini, finché:

Ed ecco perché (ce lo consenta l'illustre patrizio) noi tutti qui presenti, stretti in un solo pensiero, sentiremo il dovere, in questo fausto giorno, di manifestare a Lui la nostra immensa ed amorevole gratitudine non solo per la cospicua somma che egli spontaneamente elargì per lo stupendo restauro, ma anche per aver voluto associare alla nobile impresa, il Principe dei viventi restauratori, il Cav. Prof. Gaetano Bianchi, nome carissimo all'arte, agli amici, ai colleghi, a coloro insomma che nutrono culto sincero per le opere dei più celebrati maestri dei secoli passati. 
Il Cav. Bianchi, col raro suo ingegno, colla bella sua intelligenza che l'ha reso padrone dei segreti dell'arte antica, ridona col magico suo pennello la vita, la forza e la vivace espressione del colorito a quelle pitture che l'opera distruggitrice del tempo e la trascuratezza degli uomini avevano quasi cancellato. (...) Ed io, lieto che mi si porga oggi l'occasione favorevole, plaudo all'uomo venerando, all'artista ispirato che compì sapientemente i restauri di quest'atrio che gli annali mugellani registreranno con lode a perpetuo ricordo dei posteri.











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