Come tutti sanno, l'alluvione che 51 anni fa squartò Firenze è stata l'ultima e di gran lunga la più terribile di una lunga serie. Nel Dizionario di Firenze dal Settecento al Duemila (Le lettere 1998) Pier Francesco Listri pubblica uno specchietto in cui sono citate cinquantaquattro esondazioni, tra le quali sette di gravità paragonabile, anche se mai pari, all'ultima. Nel 1762 Ferdinando Morozzi pubblicò un trattato dal titolo Dello stato antico e moderno del fiume Arno e delle cause e de' rimedi delle sue inondazioni. Qui stilò una cronologia delle piene e /o delle esondazioni a partire dalla più antica di cui si hanno ricordi scritti, avvenuta nel 1177 e citata tra gli altri dal Malispini ("Questo medesimo anno per soperchio d'abbondantia d'acqua d'Arno cadde il Ponte Vecchio, che ancora fu segno di future avversitadi alla nostra città").
A ricordare la catastrofica piena d'Arno avvenuta il 13 settembre 1557 troviamo oggi una lapide (ricollocata sull'originale nel 1839) sulla facciata della Casa del diluvio in piazza S. Croce angolo via Verdi (foto d'apertura), e un'altra, che non si legge tanto bene, sulla facciata della chiesa di S. Niccolò Oltrarno (sopra). A questo tragico evento di 460 anni fa il Morozzi dedica ben 13 pagine riportando tra l'altro la lunga e drammatica cronaca di Benedetto Varchi. Eccone il passo iniziale.
Alli 13 di settembre essendo piovuto due giorni, quasi continuamente, la sera dinanzi si mise tal rovina d'acqua, che cominciando in Casentino, quasi alla fonte d'Arno, a Stia, a Pratovecchio in un subito, portò via tutti i mulini, le gualchiere, e gli altri difici sopra l'acque, con abbattimento di ponti, e di case, traendosi dietro con l'impeto grande molte persone.
la Casa del Diluvio in S. Croce |
Varchi parla poi delle devastazioni di edifici, fabbriche, orti, e del fetore che dominò la città nei giorni seguenti insieme con il timore del diffondersi di pestilenze, fortunatamente scongiurate dal rapido miglioramento meteorologico e, anche allora, dal lavoro solerte dei fiorentini per rimuovere fango, detriti, carcasse, e rendere di nuovo vivibile Firenze.
Varchi non fu l'unico cronista della tragedia. Fra Remigio Fiorentino, scrive sempre Morozzi, la descrisse in versi sciolti per la Regina di Francia; Filippo Baldinucci lo fece in prosa nella biografia dell'Ammannati; Francesco Vinta scrisse una lettera in versi latini a Pier Vettori; Anton Francesco Grazini, detto il Lasca, dedicò a un tal Piero Cellini una poesia che Morozzi riporta, e di cui copio i primi (pesanti) versi.
Colle lagrime agli occhi a scriver vengo,
Pierone, a voi i travagli, e gli affanni,
E le nostre miserie, e i nostri danni.
Saper dovete, ch'Arno,
Non già tranquillo, lieto, dolce, e chiaro,
Ma tempestoso, torbido, ed amaro,
Quasi empio rio tiranno
Corse, ma non indarno,
Anzi, con tanta furia,
Che non se solo alle sue rive ingiuria...
Piazza del Limbo (sopra), che in antico ospitava le salme dei bambini non battezzati da cui il nome, ha subito l'alluvione del 1577 così come ha subito tutte le altre, essendo in una posizione davvero sciagurata. È collegata al Lungarno solo dallo stretto chiasso Borgherini. Quando esondava, a causa di un effetto sistola l'acqua del fiume invadeva la piazza con una violenza inaudita. Per di più, la piazza stessa si trova su un piano ribassato rispetto a Borgo S. Apostoli, il che, da un lato, faceva tornare l'acqua all'indietro una volta respinta dai muri dei palazzi, dall'altro vi sopraggiungeva quella proveniente dallo sfogo fornito dal ponte S. Trinita e incanalata lungo il Borgo, il tutto con la conseguente formazione di vortici e mulinelli (ho usato i verbi all'imperfetto per scaramanzia!).
il chiasso Borgherini |
Tornando al 1577, in quell'occasione la chiesa dei SS. Apostoli fu teatro di un gesto di grande coraggio da parte del priore. La storia è narrata da Giuseppe Richa, che la riprende dalla Firenze città nobilissima illustrata di Leopoldo del Migliore (1664). Scrive Richa:
Nella piena adunque del 1557, sulle quattro ore di notte del dì 13 di settembre sì all'improvviso traboccò Arno nel Borgo di S. Apostolo, che salita otto braccia l'acqua in Chiesa, molto pericolava la custodia del Santissimo, non ostante che essa fosse collocata sopra un ben alto pilastro, quando il buon Priore buttatosi a nuovo, e superando ogni urto dell'acqua arrivò al tabernacolo, e con una mano tenendo la Pisside, coll'altra tornando a nuotare, portò l'Eucaristia a salvamento.
Si può cercare di immaginare, seppure in modo vago, l'impressione che questo gesto di abnegazione ai limiti dalla temerarietà da parte del priore dovette aver fatto sui fedeli, la cui devozione nei confronti del Corpo di Cristo era allora di una intensità oggi difficile da comprendere. Sicuramente il prete fu oggetto di lodi ed encomi da parte di tutti, ma la sua gloria fu decisamente effimera, dato che Richa faticò non poco per rintracciarne il nome. Finché, in un elenco stilato da Domenico Maria Manni, identificò come priore della chiesa dei SS. Apostoli nell'anno dell'esondazione padre Francesco della famiglia dei Portinari.
L'interno della chiesa dei SS. Apostoli, oggi. |
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RispondiEliminaCaro pischello, la tua prossima intrusione finirà dritta dritta alla polizia postale. Non ci riprovare.
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