domenica 30 aprile 2017

Cos'hanno in comune il Piovano Arlotto e Castruccio Castracani?

La raccolta dei Motti e Facezie del Piovano Arlotto è uno dei libri più longevi in assoluto, oltre che uno dei più tartassati scompagnati interpolati mutilati rimescolati . La prima edizione in stampa, curata da tale Bernardo Pacini per i tipi di Bernardo Zucchetta, risale all'incirca al 1516. Come noto, vi si narrano gli scherzi, le battute, gli aneddoti che hanno - non di rado avrebbero - per protagonista Arlotto Mainardi (1396-1484), Piovano di S. Cresci a Macioli, sopra Vaglia (FI). L'autore non è mai stato identificato. Gli episodi sono scollegati l'uno dall'altro e la raccolta non ha alcun filo conduttore, né temporale né tematico. Tutto ciò ha lasciato una notevole libertà d'azione agli editori che, lungo i secoli, hanno pubblicato le successive ristampe. Dovendosi adeguare alle mode del momento, nessuno si fece problemi a praticare tagli di episodi, interpolazioni, inserimenti da altre raccolte, storpiature, riscritture, giungendo infine a fare della figura del Piovano una sorta di Bertoldo in sottana da prete. Più di un lettore l'avrà creduto un personaggio immaginario. Non lo credettero tale, per loro fortuna, i suoi parrocchiani di S. Cresci a Macioli, di cui egli fece ristrutturare la Pieve conferendole in sostanza l'aspetto che ha tuttora; e della quale fu in grado di risanare il bilancio, in rosso al suo arrivo, ampiamente in attivo alla sua partenza da questo mondo. 

L'interno della Pieve di S. Cresci a Macioli, oggi

Il lavoro di ricostruzione filologica della raccolta, in modo da separare il vero dall'inventato o dal copiato, non si è ancora concluso. Salvo errore, nonostante le ricerche degli storici, il manoscritto originale, di cui si postula comunque l'esistenza, non è mai stato ritrovato. Si è cercato di ricostruirne la genesi, ed è accettata l'ipotesi che un primo gruppo di 80 facezie circa risalga a quando Arlotto era ancora in vita, tra il 1450 e il 1470. Un secondo gruppo vi fu aggiunto subito dopo la morte, tra il 1485 e il 1488, unitamente a una breve biografia del Piovano come introduzione. L'autore dovette essere lo stesso, un non meglio identificabile amico del Piovano. In questa forma fu trovato nel 1964 il manoscritto più antico finora noto (inizi del '500 circa), ancorché ugualmente una copia, nella Biblioteca vaticana (Ottoboniano latino 1394).  Successivo per stesura ma noto da più lunga data, il manoscritto copiato da Giovanni Mazzuoli detto lo Stradino (tra 1537 e 1540), conservato alla Laurenziana, contiene però una terza parte.
Si tratta di una parte di tono completamente diverso rispetto alle altre due, pur essendo anch'essa con ogni probabilità opera della medesima penna originale. Sono una serie di sentenze, risposte, pretesi aforismi. Leggiamone solo un paio di righe, sparse:

Domandato il Piovano Arlotto che cosa è quella che è più difficile a cognoscere, rispose: - Sé medesimo.
Che cosa è quella che è più difficile ad acquistare? Rispose: - Quello che l'uomo disidera.
Come si può giustamente vivere? - fa quello che tu comandi ad altri.
El minacciare è cosa vile e atto e opera femminile.
La lingua non debbe andare inanzi al pensiero. 
In cammino non andare troppo presto. 
Non è maggiore pazzia che desiderare le cose impossibili.

Insomma, nulla vi troviamo dell'atmosfera scanzonata e a tratti goliardica delle prime due parti. Nessuno degli scherzi per i quali Arlotto gode ancora oggi di una certa fama: da quello comminato all'amico sensale Piero Puro, che nel cammino di pellegrinaggio fino a La Verna il Piovano costrinse abilmente a mangiare nient'altro che carote, che egli odiava; a quelli cui  Don Antonio, Piovano della vicina Cercina, era abbonato; alla vendetta compiuta a un padrone di casa quando, durante un pranzo, questi aveva voluto mandare lui, ormai vecchio e stanco, giù nelle cantine a riempire una caraffa di vino. "Che sarà mai?" gli aveva detto. "Apri il rubinetto e riempi la caraffa". Il celebre dipinto del Volterrano, nell'immagine d'apertura, ha fotografato il momento in cui Arlotto, di ritorno, dice al padrone: "Ho fatto esattamente come hai chiesto. Ora però manda qualcuno a chiuderlo, il rubinetto", tra l'ilarità dei presenti ...eccetto il padrone.
A quando, giunto fradicio d'acquazzone in una locanda di Pontassieve, raccontò di aver perso per strada la sacca coi soldi dentro; al che tutti gli avventori che affollavano il caminetto si scaraventarono fuori al freddo, al buio e alla pioggia per trovare il denaro, e lui poté mettersi vicino al fuoco.


O la scommessa di far passare la barriera a un maiale senza pagare il dazio: lo mise in una bara, e alle guardie spiegò che si trattava di 'quel porco del suo padrone'. Qui sopra, la burla in un dipinto di Jacopo Vignali.

No, la terza parte ci risulta abbastanza antipatica. Che senso avevano queste banalità paternalistiche? Perché furono inserite nella raccolta? Oltretutto, nella copia conservata alla Biblioteca Nazionale dell'edizione Pacini citata all'inizio, non figurano. Gianfranco Folena, che nel 1954 curò una edizione critica dei Motti e Facezie, faticò non poco per trovare la fonte diretta di tutta l'ultima parte delle Facezie. Si tratta del Libro de la vita de' filosofi e delle loro elegantissime sentenzie estratto da Diogene Laerzio e da altri antiquissimi auctori. La versione stampata a Venezia nel 1480 è ritenuta la più antica. Narra la vita di numerosi filosofi, con attendibilità storica prossima a zero, in compenso con sovrabbondanza di massime, aforismi, risposte pseudo argute e moraleggianti. A sua volta, questo testo era un volgarizzamento del Liber de vita et moribus philosophorum, opera dell filosofo Walter Burleigh (1275-1357). Secondo Folena, l'autore delle Facezie agì "con la pia intenzione di arricchire la memoria del suo Piovano attribuendogli, e a costo di quali incongruenze, tutta la saggezza vulgata degli antichi, da Talete a Galeno, e travestendolo da savio antico con questi frusti panni passati ormai nel guardaroba popolare, e perfino con una filosofica barba posticcia, la barba di Diogene". 
Mezzucci, insomma. Senza dubbio. Ma che non furono appannaggio solo di un anonimo scrittorello che, umilmente, voleva rendere il protagonista delle sue Facezie degno di maggiore stima.


Tra luglio e agosto 1520, Niccolò Machiavelli, che si trovava a Lucca, scrisse una Vita di Castruccio Castracani. 
Lucchese (ovviamente), rampollo della famiglia patrizia degli Antelminelli, vissuto tra il 1281 e il 1328, questo condottiero ghibellino che voleva annegare Firenze otturando l'Arno all'altezza della Gonfolina e, pur non riuscendo mai ad avere ragione della città, lasciò nondimeno un ricordo non molto grato in tutta la piana che la circonda, venne ritratto da Niccolò in termini ai limiti del mito, con non pochi tratti romanzati e affidabilità storica scarsina.


Anche l'autore del Principe volle attribuire a Castruccio tutta la saggezza vulgata degli antichi, per dirla con Folena. Sicché, verso il termine, scrisse di lui:

"Era ancora mirabile nel rispondere e mordere, o acutamente o urbanamente; e come non perdonava in questo modo di parlare ad alcuno, così non si adirava quando non era perdonato a lui. Donde si truovono molte cose dette da lui acutamente, e molte pazientemente".

A seguire, un saccheggio di citazioni dal Diogene, cambiando alla bisogna i nomi dei personaggi. I filologi ne hanno individuato i riferimenti uno per uno. Ne copio tre.

Domandato come morì Cesare, disse: "Dio volesse, che morissi come lui!"
Usava dire che la via dello andare allo inferno era facile poi che si andava allo ingiù e a chiusi occhi.
Passando per una strada, e vedendo uno giovanetto che usciva di casa [di] una meretrice tutto arrossito per essere stato veduto da lui, gli disse: "non ti vergognare quando tu n'esci, ma quando tu n'entri"

La conclusione non è un miracolo di sobrietà:

“Visse quarantaquattro anni [in realtà 47, ma gli serviva per i paragoni a seguire], e fu in ogni fortuna principe. E come dalla sua buona fortuna ne appariscono assai memorie, così volle che ancora della cattiva apparissino; per che le manette con le quali stette incatenato in prigione si veggono ancora oggi fitte nella torre della sua abitazione, dove da lui furono messe acciò facessino sempre fede della sua avversità. E perché vivendo ei non fu inferiore né a Filippo di Macedonia padre di Alessandro, né a Scipione di Roma, ei morì nella età dell’uno e dell’altro; e sanza dubbio avrebbe superato l’uno e l’altro se, in cambio di Lucca, egli avessi avuto per sua patria Macedonia o Roma.”

Ammettiamolo: il compilatore delle Facezie, su tutta la linea assolutamente non paragonabile alla figura del Machiavelli, ispira però maggiore simpatia: per lo meno ci ha risparmiato paragoni tra il Piovano Arlotto e qualche Santo martire. La sua chiusa consiste semplicemente nella beffarda iscrizione sulla tomba del protagonista: 

Inanzi alla sua morte fece el piovano dua sepolcri uno nella chiesa della sua pieve: & uno nello spedale de Preti di Firenze & come huomo buono & pieno di charità & si come era stato liberalissimo in vita di ogni sua roba & cosa a ciascuna persona / di cui haveva havuta notizia / così volle essere da po la sua morte & lui medesimi si fece lo Epitaphio in lingua materna della sua patria: quello della Pieve non ho trovato scripto. Quello di Firenze e il subsequente a comune beneplacito di ciascuno.

QUESTA SEPOLTVURA A FATTO FARE EL PIOVANO ARLOTTO PER SE & PER TUTTE Q.LLE PERSONE LE QUALI VI VOLESSINO DRENTO ENTRARE 

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